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La danza tra sparizione e resistenza. Intervista a Luciano Cannito

In prima linea contro la feroce discriminazione culturale che la danza subisce nel nostro Paese, Luciano Cannito ha lanciato una petizione che ha raccolto quasi quindicimila firme. Una conversazione per capire meglio perché è grave che la danza in Italia sia a rischio di estinzione.

Luciano Cannito
Luciano Cannito

Luciano Cannito, direttore artistico e coreografo di fama internazionale, si sta facendo portavoce di una petizione intorno alla quale il mondo della danza si è mobilitato come mai prima d’ora. Per capire meglio la portata della questione, che interessa il mondo della danza tutta, ci siamo presi il tempo per questa densa conversazione telefonica.

Luciano Cannito, in questa intervista si parla di danza o di balletto?

La danza è una. Tuttavia, nella mia vita ho capito che per essere efficaci è inutile parlare della “danza” in generale: bisogna essere precisi e andare dritti al punto, dunque ora parliamo dei corpi di ballo. Sto cercando di fare luce su quella che a tutti gli effetti è una vera e propria discriminazione culturale: per lo Stato italiano la danza è un’arte di serie B. Di conseguenza, l’esistenza della danza è priva di adeguate normative che ne regolino la sovvenzione in funzione del principio di tutela delle arti. Non ci dobbiamo meravigliare se all’estero è diverso: se già all’interno dell’istituzione madre non c’è un interesse di tutela e di promozione, come possono crearsi connessioni internazionali adeguate? Ho letto che le persone presenti alla conferenza Positioning Ballet erano soprattutto direttori di grandi compagnie come quelle che in Italia stanno, una dopo l’altra, chiudendo. Non c’era nessun rappresentante italiano, mentre il mondo della danza contemporanea sta avendo uno sviluppo straordinario in tutto il mondo.
I riferimenti più importanti comunque restano quelli delle grandi compagnie che hanno i numeri e la forza per agire da capofila. È per questo che non dobbiamo trascurare la questione dei corpi di ballo: prendersi cura delle cosiddette “grandi istituzioni della danza” significa salvaguardare la tradizione del balletto, ma significa anche dare legittimità, forza e visibilità a tutto un settore culturale. Nonostante questo, mi sembra che a volte da parte di chi si muove nella cosiddetta “danza contemporanea” ci sia un po’ di scetticismo, come se quello dei corpi di ballo fosse un argomento di un altro mondo. Questa posizione avalla l’idea che la danza e il suo pubblico siano di serie B. Se viene ridotto lo spazio della danza all’interno delle istituzioni di eccellenza e dei teatri lirici, sicuramente questo avrà una ricaduta anche sulle istituzioni e sulle compagnie più piccole, che potrebbero sparire. Di fatto, il rischio è quello di non contare più.

Qual è la situazione italiana in questo momento?

Oltre al problema dell’esistenza dei corpi di ballo, assistiamo anche a un problema di discriminazione culturale territoriale che fa sì che in Italia restino tre corpi di ballo – a Roma, Milano e Napoli – e un’unica accademia nazionale di danza, a Roma. In Germania, per esempio, la discriminazione territoriale non è consentita e oltretutto ci sono 2 miliardi di euro stanziati per lo spettacolo dal vivo, mentre da noi solo 500 milioni. Abbiamo la parte di PIL più bassa d’Europa dedicata allo spettacolo, Grecia compresa. In Italia le fondazioni lirico-sinfoniche, che potrebbero dunque avere un corpo di ballo, sono quattordici, di cui due sono a statuto speciale: il Teatro alla Scala e l’Accademia Nazionale di S. Cecilia, che tra l’altro non rientra nel conteggio dei potenziali corpi di ballo. Se ci fossero più corpi di ballo oltre al lavoro ci sarebbe, tra l’altro, anche più diversità per il pubblico! I direttori non sarebbero più “costretti” a programmare i grandi titoli di richiamo come Lo Schiaccianoci e Il Lago dei cigni. A quel punto si potrebbe investire sulla ricerca e allenare meglio anche il pubblico alla coreografia contemporanea. La riconoscibilità della danza contemporanea potrebbe crescere e diffondersi. Negli anni Ottanta c’è stato un momento potenzialmente molto florido in Italia, ma poi le risorse si sono disperse.

foto di Kara Lozanovski
foto di Kara Lozanovski

Che cosa sta accadendo intorno alla petizione che lei ha lanciato?

Non si era mai vista nella storia della danza italiana una petizione capace di raccogliere oltre 15000 firme senza il supporto della carta stampata o di altri grandi media popolari, capace di andare oltre la naturale settorializzazione delle notizie che viaggiano attraverso i social network, dove difficilmente si riescono a vedere contenuti di argomenti diversi rispetto a quelli abitualmente di proprio interesse. Questo è un movimento nato dal basso. È strano che nemmeno quei quotidiani che in passato avevano dimostrato una sensibilità per la danza si siano occupati di questa petizione. Come si può contraddire il contenuto di questa petizione? Immaginiamo di andare a un teatro italiano a vedere un’opera e immaginiamo di trovare l’orchestra di Vienna, il coro di Varsavia, e i solisti invitati dall’estero. Immaginiamo che questo accada per tutte le opere. Non suonerebbe strano? Ecco, allora perché questa “stranezza” non viene percepita per il balletto? A Firenze, per esempio, per quest’anno vedo tutte le opere della stagione eseguite dal coro e dall’orchestra di Firenze, mentre per la stagione di danza c’è il Balletto di Amburgo.

Com’è nata l’idea della petizione?

Ho deciso di scrivere questa petizione perché dopo tanti anni so di avere gli strumenti per prendere la parola. In Italia sulla danza c’è un enorme problema di informazione, e di formazione. Lasciamo per un attimo da parte la questione della lobby della lirica. Andiamo oltre. Tra l’altro, perché le lobby esistono nella lirica e non nella danza? Questo è un mio pensiero a riguardo: i Patti Lateranensi sono stati un cortocircuito in cui l’autorizzazione dell’ingerenza della Chiesa cattolica nel mondo culturale del nostro paese ha determinato una progressiva svalutazione della danza. Non dimentichiamoci che il corpo è considerato una cosa di cui vergognarsi, qualcosa di “sporco”. Nella terminologia italiana d’inizio secolo “ballerina” era in qualche modo sinonimo di prostituta. Probabilmente questo messaggio è entrato nelle maglie subliminali del nostro pensiero e la danza è rimasta tagliata fuori in quanto arte del corpo. Io sto iniziando a darmi questa spiegazione perché questo non è accaduto in nessun altro paese europeo, ma da noi sì. Perché?

Recentemente, nello spazio di Carrozzerie n.o.t. si è tenuto un incontro dal titolo Ci-korea amaraladanza. Questo evento ha messo in luce come sia necessario e urgente far fronte al disorientamento che vive chi opera all’interno di questo mondo. C’è bisogno di parlare, di parlarsi, e di imparare a prendere la parola in maniera coordinata e chiara.

Sono d’accordo sull’importanza della parola e della condivisione, ma non bisogna dimenticare che la danza è arte del corpo, un corpo che per poter creare e dunque essere “corpo artistico” ha bisogno di tempi, spazi, energie e in certi momenti anche di un certo isolamento. È un fatto che chi opera nella danza spesso viva in una dimensione necessariamente un po’ “a parte”.

Luciano Cannito
Luciano Cannito

Da che cosa è determinata la percezione di questo mondo, dall’esterno, a livello istituzionale?

La distribuzione economica ha un peso enorme. Vengono definite delle spartizioni finanziarie tali per cui la danza riceve oltre il 50% in meno rispetto alle altre arti dello spettacolo dal vivo. Se una compagnia di danza non ha nessuna possibilità di sviluppare la propria ricerca, da qui parte la discriminazione culturale alla quale si aggiunge una discriminazione territoriale spaventosa.
I corpi di ballo sono un esempio clamoroso di quanto sta accadendo nel silenzio più assoluto. La legge giustamente dice che nelle programmazioni non si può avere più del 5% di produzioni di corpi di ballo esteri. Questo dovrebbe favorire la cultura coreutica italiana, in teoria, visto che si tratta di soldi dei contribuenti italiani. Tuttavia, i finanziamenti vengono calcolati in base ai punteggi: 12 punti per l’opera lirica, 7 punti per il balletto. Perché? Non si sa. In più, una compagnia esterna comporta solo un punto in meno. Questo corrisponde, di fatto, a una spudorata disincentivazione dei corpi di ballo nazionali: prendere una compagnia da fuori conviene! Oggi, figuriamoci, ci si vanta di questo. Di fatto, non c’è nessuna tutela da parte di chi avrebbe dovuto proteggere quest’arte. Ho letto una dichiarazione del sindaco di Firenze, Dario Nardella, che si complimentava a proposito del sovrintendente dimissionario del Maggio Musicale Fiorentino, quello che aveva chiuso un corpo di ballo storico. Di che cosa parliamo se un sindaco non tutela i propri cittadini, quei ragazzi che credono nella danza come professione? Tutto questo, in più, è venuto dal partito che storicamente si è preso cura della cultura italiana e che nella cultura ha visto uno strumento di sviluppo sociale e economico.

In quale struttura rientra la passione dei giovani per la danza?

Quando ho scritto che i giovani italiani iscritti alle scuole di danza sono un milione e mezzo ho ricevuto le lamentele di tanti operatori che mi hanno segnalato che, in realtà, sono molti di più. Ho voluto comunque non cambiare questo dato perché sono sicuro che quelli che studiano seriamente, magari per farne un lavoro, potrebbero essere un po’ meno di un milione e mezzo, quindi ho lasciato questa cifra. La danza insegna a stare con gli altri, ci insegna a muoverci nello spazio, ci insegna che nello stesso nostro spazio ci sono altri corpi, altre persone. È importantissimo che i giovani lo capiscano, fisicamente.
Per esempio, noi diamo per scontato che lo sport sia fondamentale e troviamo normale che lo stato se ne prenda cura. Perché questo è normale? Certo, c’è una radice storica. Ma se un milione e mezzo di giovani ama e pratica la danza, perché lo stato non sviluppa lo stesso interesse che ha per lo sport e non promuove quest’attività? Tutelare la socialità non virtuale della gioventù dovrebbe essere un vero e proprio interesse pubblico.

Qual è la situazione per quanto riguarda la formazione?

In Italia ci sono 54 conservatori di musica e un’accademia di danza, nata praticamente per caso grazie a una danzatrice russa che era legata a un ministro del periodo fascista. Jia Ruskaja è stata una donna geniale e visionaria e se non fosse stato per lei forse non ci sarebbe nemmeno questo: l’unica istituzione statale addetta alla formazione della danza. Lo Stato attualmente non fornisce un adeguato diritto allo studio. Ci sono quindicimila scuole private di danza che fanno un lavoro socio-culturale importantissimo e che per avere un occhio di riguardo in termini di tassazione devono iscriversi alle associazioni di settore sportivo. C’è un milione e mezzo di giovani che va a danza, che segue delle formazioni e che viene completamente ignorato dal proprio stato invece che essere considerato come un vero e proprio tesoro. Tra l’altro, l’insegnamento della danza in Italia non è ancora regolato; com’è possibile che non si riesca a ottenere un minimo di regolamentazione su questo aspetto? C’è un vuoto legislativo immenso che, se venisse regolamentato, potrebbe generare tantissimi posti di lavoro.

Che cosa si intende ottenere con la petizione che ha lanciato?

Per iniziare: il riconoscimento. Lottare per questo è un diritto sacrosanto. Dobbiamo ribellarci e forse otterremo qualcosa di più dello zero assoluto attuale. Come minimo otterremo di fare luce su un problema di cui prima non si era a conoscenza.

Gaia Clotilde Chernetich

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Gaia Clotilde Chernetich
Gaia Clotilde Chernetich
Gaia Clotilde Chernetich ha ottenuto un dottorato di ricerca europeo presso l’Università di Parma e presso l’Université Côte d’Azur con una tesi sul funzionamento della memoria nella danza contemporanea realizzata grazie alla collaborazione con la Pina Bausch Foundation. Si è laureata in Semiotica delle Arti al corso di laurea in Comunicazione Interculturale e Multimediale dell'Università degli Studi di Pavia prima di proseguire gli studi in Francia. A Parigi ha studiato Teorie e Pratiche del Linguaggio e delle Arti presso l'Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales e Studi Teatrali presso l'Université Paris3 - La Sorbonne Nouvelle e l'Ecole Normale Supérieure. I suoi studi vertono sulle metodologie della ricerca storica nelle arti, sull’epistemologia e sull'estetica della danza e sulla trasmissione e sul funzionamento della memoria. Oltre a dedicarsi allo studio, lavora come dramaturg di danza e collabora a progetti di formazione e divulgazione delle arti sceniche e della performance con fondazioni, teatri e festival nazionali e internazionali. Dal 2015 fa parte della Springback Academy del network europeo Aerowaves Europe, mentre ha iniziato a collaborare con Teatro e Critica nel 2013.

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