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Il tempo del teatro è sempre il presente. Intervista ad Arturo Cirillo

Arturo Cirillo torna in scena con Scende giù per Toledo al Teatro Biblioteca Quarticciolo di Roma, unico suo monologo. Un’occasione per parlare al Cirillo regista e attore. Nell’intervista anche un ricordo di Franco Quadri.

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Lo zoo di vetro. Foto ufficio stampa

Raggiungo telefonicamente Arturo Cirillo, tra una sua lezione e l’altra all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio d’Amico, pochi giorni prima del suo ritorno in scena con Scende giù per Toledo al Teatro Biblioteca Quarticciolo. Iniziamo parlando del mestiere dell’attore e, in breve, ci ritroviamo a parlare di Elsa Morante, della sua infanzia e a rileggere delle preziose parole di Franco Quadri.

Diplomato all’Accademia, oggi docente, qual era e qual è per te il ruolo della formazione per un attore?

Per me l’Accademia è stata una bella esperienza, ritengo però che poi la mia vera scuola siano stai i dieci anni di teatro con Carlo Cecchi. Certo, oggi non essendoci più molte realtà di capocomicato, di vita di compagnia, è difficile che uno continui un percorso piuttosto costante con un regista; forse le scuole oggi hanno quindi un po’ più di responsabilità. All’Accademia bisogna dare atto che prima con Lorenzo Salveti e ora con Daniela Bortignone si è molto aperta, soprattutto a realtà e personaggi anche poco accademici e oggi è una scuola che offre un teatro molto vario.

Per un attore come te che si è avvicinato al teatro attraverso la danza, qual è il rapporto tra corpo, testo e parola?

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Le intellettuali. Foto di Luciano Romano

L’uso del corpo per me conta molto, detto questo poi ci sono i dieci anni con Carlo Cecchi, un regista che dà al testo una grossa centralità; per me il testo è la cosa più oggettiva che possa mettere in comunione me e i miei collaboratori, dallo scenografo al costumista, al gruppo degli attori. Detto questo i testi vanno anche ripensati; non amo molto le attualizzazioni, mi sembra che ci si imprigioni in una nuova gabbia, sono invece più portato nel portare i testi in luoghi più atemporali in cui possano essere universali. In fondo il tempo del teatro è sempre il presente. La sfida è questa: riuscire a non far sentire agli attori in primis, e quindi di conseguenza anche al pubblico, il testo come una cosa antica ma cercare di dargli una contemporaneità. E questo è compito degli interpreti, perché io credo molto in una regia di attori. Per me la regia è questo: più che la direzione dell’attore, il lavoro con l’attore.

Carlo Cecchi. Come vi siete conosciuti e cosa hai conosciuto con lui del teatro?

Cecchi era un amico di mio padre, e tutti e due erano molto amici di Elsa Morante: io mi chiamo Arturo per questo motivo, per L’isola di Arturo. Da quando sono molto piccolo li ho incrociati spesso a casa mia a Napoli, o a Roma. Quando ho iniziato a immaginare che forse volevo fare l’attore, su consiglio di mio padre ho assistito a parecchie sue prove del suo Misantropo, a Firenze, e poi quando ho finito l’Accademia mi fece un lungo provino: sono rimasto in quasi tutti i suoi spettacoli per dieci anni. Quello che mi ha dato è certamente quella preparazione tecnica e fisica che acquisisci andando in scena in lunghe tournée con il regista; mi ricordo che di pomeriggio ci faceva esercitare sulla Divina Commedia di Dante, su scene di Eduardo De Filippo… In qualche modo continuava a farci crescere non solo con il lavoro sullo spettacolo. E poi, a pensare il teatro come una narrazione di sé. Diceva: «Non voglio che gli attori si nascondano nei personaggi, ma che gli attori si rivelino nei personaggi», e questo è stato.

Che cos’è oggi per te il mestiere dell’attore?

Mi sembra che faccia parte di quei preziosissimi mestieri in cui uno in qualche modo riesce a esprimersi e trovo che esprimersi sia una cosa fondamentale; ogni mestiere in realtà, se diventa il tuo mestiere, ti fa esprimere. Certamente nell’attore, essendo noi stessi la materia con cui lavoriamo – siamo noi stessi il tavolo del falegname, la stoffa del sarto – lavoriamo fondamentalmente su noi; questo da una parte porta un po’ di schizofrenie e di fatica, però dall’altra è un mestiere che porta a conoscerti molto.

Lo zoo di vetro
La piramide. Foto ufficio stampa

Come e perché un attore aspira a fare il regista?

Mi rendo conto che il teatro che ho frequentato e che i miei genitori mi hanno fatto frequentare è un teatro autoriale in cui la figura del regista e dell’interprete sono sempre state fuse insieme: da Leo De Berardinis a Carmelo Bene. Poi lavorando con un regista che è anche un attore per me in fondo è stato un passaggio abbastanza naturale. Mi ricordo che i primi anni Franco Quadri – che per me è stato un incontro, oltre Cecchi, fondante della mia esperienza teatrale – mi diceva «insomma deciditi o fai il regista o fai l’attore», ma poi alla fine si convinse anche lui. Io credo comunque di essere fondamentalmente un attore, e poi anche un regista ma in quanto regista di me stesso e un po’ degli altri.

Com’è stato il tuo incontro con Franco Quadri?

Quadri l’ho conosciuto perché nel 1998 mi diede un premio che ora non esiste più, il Coppola Prati, al quale ero molto legato. Mi chiamò a casa «Ciao sono Franco Quadri, ci dobbiamo incontrare perché devo scrivere la motivazione su di te per il premio». Ci vedemmo in un bar vicino al Teatro Valle e mi fece parlare una buona oretta mentre scriveva e rideva; mi telefonò dopo qualche giorno dicendomi «mi sto molto divertendo a scrivere la tua motivazione» e infatti è una bella motivazione, scritta con un certo trasporto. Ci siamo spesso scritti, credo che abbia visto tutti i miei spettacoli; sicuramente è la persona con la quale mi sono molto confrontato e credo che lui mi abbia conosciuto molto e capito teatralmente.

Secondo te oggi si è perso questo rapporto tra critica e creazione artistica?

Mi sembra di sì. Se ne potrebbe parlare per ore, chiaramente sappiamo tutti che Quadri è un uomo che ha avuto molto potere e che ha gestito il potere che aveva. Io tutto questo l’ho vissuto con una certa dose di incoscienza, con lui mi sono subito rapportato con molta franchezza, per alcuni anni abbiamo discusso di tutt’altro, di relazioni, mi consigliava. Quadri aveva molti mezzi, faceva il critico teatrale quando ancora i giornali pagavano le trasferte, quando i teatri ti permettevano di muoverti e lui sicuramente si è mosso moltissimo; già l’aver visto tutti i miei spettacoli penso sia un elemento che permetta a un critico, recensione dopo recensione, di non parlare soltanto dell’esperienza dello spettacolo ma di parlare anche del percorso dell’artista. Quadri era uno che passava la vita in treno, ha visto anche tantissimo teatro internazionale, ha avuto molte possibilità. Adesso è più difficile. Oggi mi sembra che i critici più giovani di lui questa possibilità l’abbiano molto meno e questo un po’ inficia la possibilità di poter seguire un percorso.

In Scende giù per Toledo come si è declinato il rapporto tra attore e regista?

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Scende giù per Toledo. Foto di Salvatore Pastore

È il mio primo e forse unico monologo, ed è un monologo in cui io faccio anche la regia, è stato un lavoro fattualmente monologante; è stata un’esperienza strana ed è anche uno spettacolo che secondo me muta abbastanza nel tempo, ed è da qualche anno che non lo faccio. È uno spettacolo di repertorio che ha attraversato dei momenti molto differenti della mia vita e nel tornare a fare sempre questa Rosalinda Sprint mi sono reso conto che ogni volta  porto dentro delle cose diverse.

Quest’anno che cosa ci farai entrare?

In generale ciò che sta accadendo rispetto a quando ho debuttato, forse sono meno preoccupato di un processo immedesimativo che in qualche modo viene più da sé, proprio perché me ne preoccupo meno. Facendo sia l’attore che il regista certamente attuo una riflessione continua su cosa sia l’andare in scena; ora però penso che uno deve essere meno preoccupato, forse perché sono arrivato a 47 anni, con tanti spettacoli fatti, l’insegnamento, allora ti rapporti con un po’ più di morbidezza e forse anche con una piccola dose di fatalità e di caso. A volte anche il non controllare tutto va bene, anzi, lasciare molti spazi ingovernati mi sembra interessante.

Prima di salutare Arturo Cirillo il mio pensiero va a quel bar vicino al Teatro Valle e a Franco Quadri che ridendo prendeva appunti per scrivere la motivazione del premio Coppola Prati. Mi permetto di chiedergliela. «Sapevo che me l’avresti chiesta».

Ad Arturo Cirillo il Premio Coppola-Prati 1998 per un “artista nuovo”, IX edizione

Luca Lòtano

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Luca Lòtano
Luca Lòtano
Luca Lòtano è giornalista pubblicista e laureato in giurisprudenza con tesi sul giornalismo e sul diritto d’autore nel digitale. Si avvicina al teatro come attore e autore, concedendosi poi la costruzione di uno sguardo critico sulla scena contemporanea. Insegnante di italiano per stranieri (Università per Stranieri di Siena e di Perugia), lavora come docente di italiano L2 in centri di accoglienza per richiedenti asilo politico, all'interno dei quali sviluppa il progetto di sguardo critico e cittadinanza Spettatori Migranti/Attori Sociali; è impegnato in progetti di formazione e creazione scenica per migranti. Dal 2015 fa parte del progetto Radio Ghetto e sempre dal 2015 è redattore presso la testata online Teatro e Critica.

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