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King Lear di Glenda Jackson. Storia viva del teatro

Il King Lear con Glenda Jackson all’Old Vic di Londra. Nel 400mo di Shakespeare un lavoro internazionale di grande spessore. Recensione

Glenda Jackson è King Lear. Foto di Manuel Harlan
Glenda Jackson è King Lear. Foto di Manuel Harlan

Su un palcoscenico con quasi 200 anni di storia, nel 400mo di Shakespeare, dopo 2 Oscar e 25 anni di politica attiva nella House of Commons come membro del Partito Laburista, Glenda Jackson torna in teatro. A 80 anni. Voglio fare King Lear, dice a Matthew Warchus, che dirige l’Old Vic di Londra da un anno.

Ed eccolo qui. Un Lear 2.0, moderno, tecnologico, iper-geometrico quello di Deborah Warner che firma regia e disegno scene. Una produzione sontuosa: 23 attori, 6 maxischermi «a metà tra uno studio TV ed una galleria d’arte», come ha scritto Lukowski su Time Out, una squadra di 5 designer (set, luci e video), partner principale la Royal Bank of Canada, e, per tre ore e mezza lei, Glenda, potenza al cuore di quest’operazione. Rischiosa, non ovvia.

Estinta la decade che ha visto Kevin Spacey ricondurre l’Old Vic ai suoi antichi fasti – fu il primo teatro ad ospitare una programmazione operistica in inglese, poi una compagnia teatrale che contava nel suo organico tra gli altri John Gielgud, Laurence Olivier, Michael Redgrave, Alec Guinness – il nuovo direttore artistico Warchus, in carica dal 2015, prosegue senz’altro sulla scia del Grande Attore, di teatro o di cinema, e della ripresa di classici in chiave moderna o con una (presunta fino al debutto) freschezza e attualità: Art di Yasmina Reza, Rosencratz e Guildestern sono morti di Stoppard sono solo due casi, in un cartellone fitto di nomi noti tra cui Daniel Radcliffe (Harry Potter è cresciuto!), Rufus Sewell, e poi, anzi prima di tutto Glenda Jackson.

Glenda Jackson e Rhys Ifans in King Lear. Foto di Manuel Harlan
Glenda Jackson e Rhys Ifans in King Lear. Foto di Manuel Harlan

In scena ogni momento sembra scoperto all’istante. Ora potente, feroce, insana, ora ilare, sana, folle, in ogni singolo frammento la sua presenza è restituita in modo preciso e inflessibile, con un particolare accento sulla volatilità della vecchiaia. Che la Jackson non nasconde né attenua, ma al contrario usa come chiave di volta per scavare fino all’osso ogni nuance di quello che i critici hanno definito “l’Everest dei ruoli”. La sua scalata è fluida, intensa, diretta e assoluta. Come avviene?

Lear-Glenda è prima, è oltre il problema di genere, quando all’inizio – atto primo scena prima (ci informa il maxischermo in alto) – con abiti moderni dalle linee morbide, sobria, essenziale, entra spedita scortata da Cordelia e con passo rapido afferra il trono e il teatro: la sua lingua saetta nell’aria. È già lì, l’incipit di un “tour de force” inarrestabile che domina con quella sua speciale caratteristica presente sin dai tempi dell’Amleto alla Royal Shakespeare Company in cui un critico riconobbe “l’unica Ofelia che io abbia mai visto che fosse in grado di interpretare anche Amleto”. La riconosci, quando quel tessuto vocale scatta e crea uno spazio ‘altro’, e poi un altro ancora e ancora e ancora, a espandere la scena fisica per poi riportarla indietro nell’ascolto. La vedi, ogni muscolo è coinvolto fino a creare un altro corpo, una seconda natura frutto di una sapiente costruzione ben riconoscibile che vibra, reagisce e interagisce con la prima, col corpo fisico, ossuto, esile, rugoso.

Glenda Jackson è King Lear. Foto di Manuel Harlan
Glenda Jackson è King Lear. Foto di Manuel Harlan

Glenda Jackson è un’attrice che dimostra di essere consapevole del fatto che «nessuna emozione umana può essere manifestata senza una particolare preparazione muscolare. Sa, per ciascuna emozione, quale muscolo o gruppo di muscoli, deve rilassare o contrarre», sa «…che la reale espressione di un sentimento è semplicemente la naturale conseguenza di una preparazione muscolare, e del movimento o del gesto che ne risulta». Un semi-sconosciuto genio della luce in teatro, Alexandre Salzmann, a seguito dell’osservazione diretta dell’attore cinese in azione, scrive nei primi anni ‘30 del Novecento un breve testo in francese, Le théâtre chinois, edito postumo (in inglese). Tutta la seconda parte è sull’attore cinese. Artaud ne viene a sapere, molto probabilmente è René Daumal che gli passa il manoscritto. Va a finire che Artaud fa le stesse considerazioni, ma con parole sue, in Un atletismo affettivo…chi non ha fatto i conti con il Teatro della Crudeltà?

Glenda Jackson e Morfydd Clark in King Lear. Foto di Manuel Harlan
Glenda Jackson e Morfydd Clark in King Lear. Foto di Manuel Harlan

La critica britannica si è levata unanime ad acclamare la sua performance, definita «shattering, ferocious, tremendous», se ne parlerà per anni, scrive il Telegraph. In molti si sono interrogati sull’origine di quella potenza, della forza assoluta della sua voce, da dove viene tutta quell’energia? È così esile, pallida, addirittura spettrale la definiscono… Da dove viene quel Lear?

La carriera di Glenda Jackson inizia nel 1957 con Separate Tables di Terence Rattigan mentre ancora studia alla RADA. Possiamo ricordarne i successi con la Royal Shakespeare Company ad iniziare con il Marat-Sade (1964), poi US/U.S. (1968), regie di Peter Brook, all’interno della sua stagione sul Teatro della Crudeltà firmata con Charles Marowitz, il già menzionato Amleto (1965) e Hedda Gabler (1975), gli Oscar vinti con Women in Love (1971) e A Touch of Class (1974) ed altri.

La osserviamo. Magnetica, Glenda ci attrae dentro l’hangar ipertecnologico, il palcoscenico bianco essenziale e maestoso che ingloba le prime cinque file di platea. All’inizio una fila di sedie di plastica blu a sottolineare la scena della spartizione del regno, per il resto il set è ridotto al minimo con cinque enormi pannelli bianchi mobili a dividere la scena, alcuni tavoli di legno e un grande frigo da cui strariperanno lattine di birra grazie allo straordinario Rhys Ifans, il Fool vestito da Superman e da clown.

Glenda Jackson e Rhys Ifans in King Lear. Foto di Manuel Harlan
Glenda Jackson e Rhys Ifans in King Lear. Foto di Manuel Harlan

Nella scena della tempesta, quando i pannelli diventano schermi su cui viene proiettata la pioggia battente e il pavimento bianco è interamente ricoperto di teli neri agitati da sei tecnici ai lati, Ifans e Jackson avanzano insieme, stretti l’uno all’altra, e qui l’alta statura del Fool lavora da sponda ideale per dilatare la figura minuta, semi-accartocciata lì a fianco, Lear. Che ‘urla’, al di sopra del rimbombo di fulmini e tuoni, la sua vulnerabilità rotonda, palpabile, vera.

Ma Jackson cattura lo sguardo e lo tiene con sé in ogni frazione di movimento, di gesto, che non sono mai accompagnamenti dell’espressione. Al contrario, lei ne è cosciente. Come fa? Lo possiamo sentire, vedere chiaramente… Riecheggiano quelle frasi lette in venti paginette di un autore ignorato sull’attore cinese: «è consapevole di ogni muscolo del suo collo e sa come usarlo per produrre un’impressione precisa». Sì. Ma non solo, lo stesso vale per l’intero corpo che usa come strumento capace di rappresentare e mostrare in modo netto, dritto al bersaglio, tutti i sentimenti umani. E Lear ne attraversa molti nel suo viaggio.

Tra i più intensi, la follia. Nella scena con Edgar/Poor Tom – Harry Melling è uno dei più adatti nel riuscire a restituire il deragliamento vibrante della mente e dell’anima, tra i migliori nel cast insieme ad Ifans – Glenda Jackson si spoglia delle vesti regali ed esibisce le sue gambe nude che come arbusti rugosi incarnano la senilità fisica su cui si innesta il tessuto vocale a echeggiare l’assoluta libertà, tenerezza ed ironia della pazzia.

Glenda Jackson è King Lear. Foto di Manuel Harlan
Glenda Jackson è King Lear. Foto di Manuel Harlan

L’ultimo stato dell’anima, la morte di Cordelia e di Lear, la scena finale del quinto atto, è un capolavoro di orologeria nello scoccare l’arco nell’abisso della tenerezza e del dolore. Glenda Jackson porta in vita, fa esistere, costruisce l’intera azione dell’altro da sé che è il personaggio Lear, cui viene data vita in scena, istante per istante. Un essere vivente.

Tutti gli interrogativi e le riflessioni della critica presente all’Old Vic sulle ‘stamina’ per sostenere questo ruolo all’età di 80 anni, sulla questione di ‘gender’ uomo-donna, portate sul piano dei princìpi, dell’antropologia dell’attore, si rivelano dunque futili divagazioni. Se si legge il Lear di Glenda Jackson come un organismo vivente ci si rende subito conto che lei sa, non recita. La sua conoscenza è informazione messa in vita, ovvero, come nel caso dell’attore-danzatore, è un corpo organico ben sviluppato tenuto costantemente in rapporto consapevole con la propria intelligenza. E lei dimostra di avere una conoscenza reale della sua professione: knowledge, not information, ovvero conoscenza come qualcosa che vive, non informazione data. È l’attore-danzatore, è l’Oriente e l’Occidente, in un’unica casa, in un solo corpo, il corpo che danza.

Alla prima stampa Warchus, emozionato, dichiara che a suo parere quella sera all’Old Vic, nella culla del Grande Attore, si è assistito ad un pezzo di storia del teatro. Vero, ma di quel teatro tra Oriente e Occidente.

 

Carla Di Donato

Old Vic, Londra – fino al 3 dicembre 2016

LEAR
Directed by Deborah Warner; Production design, Jean Kalman and Deborah Warner; lighting, Jean Kalman; composition and sound design, Mel Mercier; video, 59 Prods.; costume, Zeb Lalljee.
Cast
Fehinti Balogun, Fiston Barek, Bessie Carter, William Chubb, Morfydd Clark, Jonathan Coote, George Eggay, Matt Gavan, David Hargreaves, Jane Horrocks, Joanne Howarth, Rhys Ifans, Celia Imrie, Glenda Jackson, Karl Johnson, Stephen Kennedy, Simon Manyonda, Harry Melling, Mark Rose, Gary Sefton, James Staddon, Danny Webb, Sargon Yelda
An Old Vic production of a play in two acts by William Shakespeare, 3h e 30 min

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