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Deflorian/Tagliarini. Roma, stupenda e misera città

Deflorian/Tagliarini partono da un teatro, rintracciano nella periferia romana i luoghi di un film, ci trovano ancora teatro. Recensione

deflorian/Tagliarini
Foto Francesca Maurone

Io la conoscevo bene, quella donna incapace di rimediare alla propria debolezza, attratta dal lustro della rappresentazione e incapace di valorizzare una bellezza già intimamente sfiorita; io la conoscevo bene, la ragazza della porta accanto finita a nascondersi nelle porte girevoli di una vita senza intimità, raggirata dai propri stessi sogni, deflorata oltre i limiti della decenza dalla falsità dell’oblio, dai tradimenti di promesse aggrinzite. Io la conoscevo bene, perché ci vivo da sempre a Roma, lo so quanto somigli questa città a quella donna che nel film omonimo di Antonio Pietrangeli (1965) sbatte contro i muri e accetta ogni mortificazione per un divismo presunto, non più che idealizzato.

Non si può non pensarla, Adriana, mentre Daria Deflorian dal Teatro India a Roma inizia a incamminarsi per i luoghi del film, rivelando certi interstizi cui non si dedica attenzione, intercapedini dove la città è scoperta, senza difese. Quando non so cosa fare cosa faccio? è l’azione performativa ideata insieme ad Antonio Tagliarini, la seguiamo attraverso un auricolare a debita distanza dal suo apparente soliloquio in giro per il quartiere Marconi (alla maniera che già vedemmo per Agoraphobia di Lotte van den Berg e con la stessa Deflorian), liberiamo i nostri pensieri a contatto con il suo che ci arriva come un piccolo segreto, ignoto ai passanti che ci guardano scorrere per i marciapiedi, tra le vetrine.

deflorian/tagliarini
Foto Francesca Maurone

«Il fatto è che le va bene tutto, è sempre contenta, non desidera mai niente, non invidia nessuno, è senza curiosità, non si sorprende mai. Le umiliazioni non le sente… Eppure, povera figlia, dico io, gliene capitano tutti i giorni… le scivola tutto addosso senza lasciare traccia, come su certe stoffe impermeabilizzate», dirà di Adriana, uno dei protagonisti del film. E Roma, la Roma che scalcia via sull’asfalto lordo del quartiere Marconi, di fianco a un tratto di Tevere che pare ignorarla, Roma povera figlia e madre di figlie povere, Daria Deflorian se la porta addosso come uno scialle di un altro tempo, tolto al guardaroba per una premura improvvisa uscendo di casa, quella mano che dall’uscio fa l’ultimo gesto prima di gettarsi fuori. Contro la distrazione, la dispersione, gli occhi di Deflorian/Tagliarini mettono a fuoco per tutti, sono filtro di un tempo di allora per dire del tempo di ora; questo pellegrinaggio cittadino, in apparenza vago e senza scopo, ha in realtà il fine ben preciso di definire una compresenza, un segno di comunità: loro e noi, uniti da un contatto radio sussurrato come provenisse da due amanti o conciso come dagli astronauti nello spazio, da vicino o da lontano che sia, accettiamo di coesistere agli eventi d’intorno, allentiamo o stringiamo il filtro perché ci corrisponda una visione densa, frastagliata, della realtà.

deflorian/tagliarini
Foto Francesca Maurone

Il concetto di “azione performativa” si dipana dunque lungo la relazione tra il luogo e il rintocco della presenza dell’uomo, talvolta distratta, scarsamente cosciente di sé e della prossimità di altri; sembrano Deflorian/Tagliarini definire un’idea di teatro, attraverso l’erranza apparentemente vagabonda per le strade nascoste di città, lasciando che qualcosa rintracciata lungo il percorso entri nel cammino, se ne faccia parte come un’apparizione improvvisa, non prevista, eppure determinante. Oltre le note a vibrare dal pozzo nelle Mani bucate (firmata Sergio Endrigo) di Monica Demuru, negli orli sdruciti dell’abito appena confezionato in sartoria per il corpo di un ragazzo (Davide Grillo), sarà dunque la polvere di un campetto di periferia, scalciata da ragazzini di ogni provenienza, figli di migranti, migranti a loro volta, figli poveri di una povera città, sarà questa polvere a comporre la nuvola in cui sfumare l’ultima scena del film. Adriana tira via la stessa polvere da certe fotografie, una nuvola di vento tra le tende bianche non le scompiglia l’acconciatura, il Lungotevere dorme, vi si specchia Roma silente, lontano il Gazometro è muto scheletro, via la parrucca, via la polvere da sé stessa, via Adriana, la chiameranno, la strada sotto quel palazzo sul fiume.

Ma facciamo ancora uno sforzo, uno soltanto. Seguitemi, lettori, seguitemi seguire l’attrice a riprendersi un teatro. C’è ancora un tratto di strada, si torna in quella sorta di cavea all’ingresso del Teatro India. Il vento non si arresta e fa volare i lembi di un abito bianco, tra il fusto e le fronde degli alberi, dentro Il giardino dei ciliegi. Li taglieranno, venderanno la casa. Venderanno il teatro che si specchia sul fiume lì in basso, venderanno la città che li ospita, venderanno anche noi che da tale panorama eterniamo una morte di incantevoli, intense, fotografie.

Simone Nebbia

Teatro India, Roma – luglio 2016

QUANDO NON SO COSA FARE COSA FACCIO?
azione performativa di e con Daria Deflorian e Antonio Tagliarini
e con Monica Demuru e Davide Grillo
collaborazione artistica di Valerio Sirna
Produzione Teatro di Roma 2015
all’interno del progetto Gli anelli di Saturno
durata: 1h 30′

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Simone Nebbia
Simone Nebbia
Professore di scuola media e scrittore. Animatore di Teatro e Critica fin dai primi mesi, collabora con Radio Onda Rossa e ha fatto parte parte della redazione de "I Quaderni del Teatro di Roma", periodico mensile diretto da Attilio Scarpellini. Nel 2013 è co-autore del volume "Il declino del teatro di regia" (Editoria & Spettacolo, di Franco Cordelli, a cura di Andrea Cortellessa); ha collaborato con il programma di "Rai Scuola Terza Pagina". Uscito a dicembre 2013 per l'editore Titivillus il volume "Teatro Studio Krypton. Trent'anni di solitudine". Suoi testi sono apparsi su numerosi periodici e raccolte saggistiche. È, quando può, un cantautore. Nel 2021 ha pubblicato il romanzo Rosso Antico (Giulio Perrone Editore)

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