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HomeArticoliUn'ora accanto alla morte. Filippo Gili chiude la trilogia

Un’ora accanto alla morte. Filippo Gili chiude la trilogia

Filippo Gili presenta al Teatro dell’Orologio di Roma L’ora accanto, ultimo capitolo della Trilogia di Mezzanotte, per la regia di Francesco Frangipane. Recensione

foto di Manuela Giusto
foto di Manuela Giusto

Il drammaturgo Filippo Gili aggiunge l’ultimo tassello alla Trilogia di Mezzanotte, cominciata nel 2011 con Prima di andar via e proseguita con Dall’alto di una fredda torre, sempre al fianco della regia di Francesco Frangipane. Una riflessione sulla morte, sulla possibilità di accettarla, di integrarla in un processo di vita, di crescita, di attaccamento e distacco dalla calda melassa dell’amore famigliare. L’ora accanto debutta al Teatro dell’Orologio nella rassegna Dominio Pubblico, tornando a dividere la platea in due, disponendo gli spettatori su spalti che si fronteggiano. Al centro, l’ormai consueto tavolo borghese, stavolta più asettico, freddo; sedute squadrate sparse per il resto del palco sintetizzano un salotto ibrido con un gelido obitorio.

In attesa di fare una sorpresa alla madre, a un pranzo della domenica si ricongiungono quattro fratelli, da sette anni orfani di padre. Dopo un paio di giri di chiacchiere che vorrebbe suggerire al pubblico le personalità dei quattro e i loro rapporti, uno di loro – fisico quantistico impiegato in un laboratorio in Germania – racconta con sguardo torvo e voce impastata la sensazionale scoperta appena realizzata: bislacche tecnologie d’avanguardia sono in grado ora di smaterializzare i tessuti di un defunto e rimaterializzarli completamente fino a «riagganciare» anche il battito cardiaco, quella sorta di ritmo misterioso che dona la vita. Dopo solo otto mesi di congetture, gli scienziati giungono alla sperimentazione umana, la cui cavia viene – proprio così – estratta a sorte. L’opportunità di riabbracciare il padre per sessanta minuti esatti getta in un litigio su principi etici e morali l’intera famiglia, che tuttavia si ricompatterà poco dopo decidendo di tentare l’impresa. Il resto dello spettacolo è un lungo e lento processo di acclimatamento del pater familias redivivo, che passa dall’abbraccio di uno a quello dell’altra, da una sedia al divano, perdendo e ritrovando la memoria nel giro di pochi istanti e sussurrando (è l’unico verbo appropriato) riflessioni sui confini dello stato di vita e quello di morte, paurosamente simili a quelli di veglia e di sonno.

foto di Manuela Giusto
foto di Manuela Giusto

Nei primi due lavori i ragionamenti sulla mortalità, sulla caducità, sull’effimero delle relazioni, sulla famiglia come nido ormai ammuffito – che molto devono a numi tutelari come Cechov, Ibsen o Bergman – avevano trovato, non senza qualche eccesso di compiacimento, un efficace prisma riflettente, mettendo in atto un rigido programma di svolta naturalistica del tono che assassinasse l’enfasi troppo spesso compagna della recitazione teatrale. L’idea di offrire le spalle al pubblico aveva avuto successo nel mettere lo spettatore in una posizione voyeuristica di fatto adatta a un gioco quasi pornografico nei confronti dell’intimo animo della nostra borghesia contemporanea. Laddove però l’ingegno drammaturgico era riuscito a trovare soluzioni felici nell’esplorare la dinamica tragica classica e nel porre i personaggi di fronte a scelte radicali chiudendo le porte a qualsiasi tentativo di fuga delle responsabilità, questa volta il soggetto di base – pur potenzialmente adatto a una degna conclusione – appare indebolito da una scelta così rigorosa degli strumenti di lavoro. Frangipane conferma una mano registica inafferrabile e al servizio del testo, che tuttavia ruota attorno a riflessioni mai davvero folgoranti né all’altezza dei temi che fin dall’inizio propone. Così l’uso millimetrico dei tagli di luce, il buio pastoso che lascia chiaro soltanto il primo piano dei volti finisce per confondere l’impostazione naturalistica della recitazione, già penalizzata da un’insufficiente attenzione al corpo. I movimenti di scena, strangolati in schemi di dialogo fin troppo fissi, finiscono per ripetersi; il ritmo altalenante tra sospensione, epifania e accesso d’ira o di amara euforia uniforma tutti i caratteri, stagliandoli su un fondo comune che calcia via un reale coinvolgimento dello spettatore.

foto di Manuela Giusto
foto di Manuela Giusto

Al di là della effettiva difficoltà nel cogliere le battute, tagliate a metà dall’acustica secca della sala e dall’idea che biascicarlo aiuti a rendere verosimile un pensiero divenuto parola, l’errore tecnico sta forse nel tentativo di innestare un lavoro d’attore mimetico in un’ambientazione che, non riuscendo a chiarire i propri presupposti, non lo permette, disegnando un habitat al contempo non del tutto reale né del tutto surreale. Siamo nella fantascienza, ma non accettiamo di starci, impegnando preziosi minuti a descrivere per filo e per segno la dinamica fisico-quantistica della resurrezione (e uccidendone così la natura poetica) per poi riappendersi alla matrice simbolica del mezzo teatrale tramutando i complicati strumenti in una sedia design e in un timer che dà il count-down. L’attaccamento quasi religioso a certe scelte stilistiche finisce così per indebolire la presa di posizione dell’autore, disciolta in una legnosa presentazione di assiomi che stavolta dimentica la reale vitalità dei personaggi e dei loro corpi in scena e non colpisce allo stomaco come pretenderebbe di fare.

Sergio Lo Gatto

Teatro dell’Orologio, Roma, Rassegna Dominio Pubblico – febbraio 2016

L’ORA ACCANTO
di Filippo Gili
con Massimiliano Benvenuto, Silvia Benvenuto, Ermanno De Biagi, Vincenzo De Michele, Michela Martini, Vanessa Scalera
regia Francesco Frangipane
scene Francesco Ghisu
costumi Cristian Spadoni
luci Giuseppe Filipponio
musiche originali Roberto Angelini
assistente alla regia Giorgia Ferrara
assistente scenografo Lorena Curti
un progetto Uffici Teatrali
una produzione Progetto Goldstein
in collaborazione con Argot Studio
residenza produttiva Teatro dell’Orologio, Carrozzerie N.O.T.

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Sergio Lo Gatto
Sergio Lo Gatto
Sergio Lo Gatto è giornalista, critico teatrale e ricercatore. È stato consulente alla direzione artistica per Emilia Romagna Teatro ERT Teatro Nazionale dal 2019 al 2022. Attualmente è ricercatore presso l'Università degli Studi Link di Roma. Insegna anche all'Alma Mater Studiorum Università di Bologna, alla Sapienza Università di Roma e al Master di Critica giornalistica dell'Accademia Nazionale d'Arte Drammatica "Silvio d'Amico" di Roma. Collabora alle attività culturali del Teatro di Roma Teatro Nazionale. Si occupa di arti performative su Teatro e Critica e collabora con La Falena. Ha fatto parte della redazione del mensile Quaderni del Teatro di Roma, ha scritto per Il Fatto Quotidiano e Pubblico Giornale, ha collaborato con Hystrio (IT), Critical Stages (Internazionale), Tanz (DE), collabora con il settimanale Left, con Plays International & Europe (UK) e Exeunt Magazine (UK). Ha collaborato nelle attività culturali e di formazione del Teatro di Roma, partecipato a diversi progetti europei di networking e mobilità sulla critica delle arti performative, è co-fondatore del progetto transnazionale di scrittura collettiva WritingShop. Ha partecipato al progetto triennale Conflict Zones promosso dall'Union des Théâtres de l'Europe, dove cura la rivista online Conflict Zones Reviews. Insieme a Debora Pietrobono, è curatore della collana LINEA per Luca Sossella Editore e ERT. Tra le pubblicazioni, ha firmato Abitare la battaglia. Critica teatrale e comunità virtuali (Bulzoni Editore, 2022); con Matteo Antonaci ha curato il volume Iperscene 3 (Editoria&Spettacolo, 2018), con Graziano Graziani La scena contemporanea a Roma (Provincia di Roma, 2013). [photo credit: Jennifer Ressel]

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