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Lehman Trilogy. Il testamento dell’Occidente

Lehman Trilogy di Stefano Massini per la regia di Luca Ronconi è tornato in scena al Piccolo Teatro di Milano

Speciale Lehman Trilogy:  leggi tutti gli articoli in archivio

Foto Luigi La Selva
Foto Luigi La Selva

Nella storia delle arti accade che gli uomini – gli artisti, coloro che la animano – siano percepiti come portatori di tendenze, come entità a sé stanti capaci di determinare o almeno incarnare un’evoluzione estetica, un apparato linguistico, un’innovazione strutturale del modo di intendere quell’arte nel tempo sincronico e diacronico. Nel teatro del Novecento tale primato – che lusinga quanto grava – è toccato alla figura del regista, macchinatore presente dall’idea alla realizzazione dell’opera e vero e proprio stratega del gesto artistico. Luca Ronconi è stato fino alla morte la figura che con maggiore evidenza ha contribuito a questa percezione in Italia, sia da artista sia da operatore culturale con l’attività al Piccolo Teatro di Milano.
Morì, Luca Ronconi, in una sera di febbraio proprio mentre si stava preparando una delle repliche del suo ultimo lavoro: Lehman Trilogy, testo dell’autore Stefano Massini (suo successore alla guida del Teatro Nazionale milanese che ha appena presentato la nuova stagione, prima del nuovo corso) che intende porre in esame l’intera epopea americana della famiglia Lehman, dall’immigrazione dalla Germania e dal piccolo commercio fino alla fondazione della più importante banca del mondo. Un’epopea, dunque, per suggellarne un’altra, vissuta e dunque narrata dal grande artista scomparso.

Con queste credenziali è facile immaginare quanto si sia parlato dello spettacolo e della sua importanza. Ma c’è un tema trasversale che è stato poco analizzato e che pur ci parve, alla prima nella sala dedicata a Paolo Grassi, una delle strutture portanti e intenzionali dell’intero congegno teatrale: fin dalle prime scene si inizia a prendere coscienza che la figura della donna è assente, o meglio, la presenza femminile è dapprima vissuta come una casistica del tutto inevitabile della natura dell’uomo, poi pian piano prende corpo come il motore che può determinare successi o insuccessi del potere esercitato al maschile. In entrambi i casi, tuttavia, la donna è relegata in una porzione marginale della storia, come se la sua evoluzione fosse parallela ma in minore, vissuta di riflesso rispetto alla macchina decisionale.

Foto Luigi La Selva
Foto Luigi La Selva

È nel secondo atto che si affacciano i personaggi femminili, ma lo fanno con una sorta di imitazione maschile, inscenando un verso stravagante e improbabile, come se anche in assenza dell’uomo tutto di lui fosse intriso, sporcato. Ma non è tutto, perché questa apparizione, sia pur riequilibrante per una visione più completa di quella che in fondo non è altro che la storia di una famiglia, ci lascia un dato senza appello: ci sono figli e padri, uomini dunque, poi ci sono donne, ma non ci sono madri. Ecco allora il quadro farsi più chiaro: è come se il testo di Massini virasse il racconto dei Lehman verso la narrazione del concetto di capitalismo, come se fosse cioè la biografia del denaro e non delle persone, per il fatto che il primo è un prodotto degli uomini, le seconde invece non possono essere generate se non secondo i canoni della natura, vera e propria assente di lusso dell’intera opera.

Lehman Trilogy è dunque, non casualmente, cantata dei soli giorni pari e non dei dispari, per citare una felice definizione dell’esistenza in opera che fu di Eduardo De Filippo. Lo è esplicitando scenicamente gli studi fondamentali per la percezione dell’epoca contemporanea, condotti dal giurista ottocentesco Johann Jacob Bachofen nel volume Il Matriarcato. Storia e Mito tra Oriente e Occidente (Christian Marinotti Edizioni, 2003). Lo studioso svizzero, in quest’opera del 1861, si convinse che l’Occidente avesse rimosso il femminile e per questo avesse perduto la bussola rispetto all’interpretazione dei propri valori; egli vi giunse attraverso l’analisi del mito inscenato in Oriente come in Occidente, quindi in una forma di rappresentazione estremizzata della propria comunità, la resa leggendaria dei punti di crisi, arrivando a determinare come la donna sia parte proattiva dell’evoluzione, vero e proprio nucleo generativo di un mondo che l’uomo, banalmente, soltanto governa.

Ma dagli studi di Bachofen a oggi sono passati quasi due secoli e un numero imprecisato di epopee, di leggende rappresentate, con una leggera declinazione in minore di quella percezione universale dell’Occidente; nel caso di questo spettacolo testamento, ad esempio, ultima parola del maestro Ronconi al pubblico del teatro contemporaneo, si affaccia chiaramente come linea distintiva l’idea che sia la disumanizzazione la via per il governo del mondo, ma ancor peggio che essa sia, estremizzata anche solo con un accenno di elementi grotteschi, la condizione naturale del potere. E, dunque, con uno sforzo di accettazione questo sì, disumano: dell’uomo.

Simone Nebbia
Twitter @Simone_Nebbia

Piccolo Teatro Grassi, Milano – in scena fino al 31 maggio 2015

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Simone Nebbia
Simone Nebbia
Professore di scuola media e scrittore. Animatore di Teatro e Critica fin dai primi mesi, collabora con Radio Onda Rossa e ha fatto parte parte della redazione de "I Quaderni del Teatro di Roma", periodico mensile diretto da Attilio Scarpellini. Nel 2013 è co-autore del volume "Il declino del teatro di regia" (Editoria & Spettacolo, di Franco Cordelli, a cura di Andrea Cortellessa); ha collaborato con il programma di "Rai Scuola Terza Pagina". Uscito a dicembre 2013 per l'editore Titivillus il volume "Teatro Studio Krypton. Trent'anni di solitudine". Suoi testi sono apparsi su numerosi periodici e raccolte saggistiche. È, quando può, un cantautore. Nel 2021 ha pubblicato il romanzo Rosso Antico (Giulio Perrone Editore)

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