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Teatrosofia #10. Socrate e Aristippo, dialogo e attore

Teatrosofia esplora il modo in cui i filosofi antichi guardavano al teatro. Socrate a dialogo con Ione, visto da Platone.

In Teatrosofia, rubrica curata dal nostro redattore Enrico Piergiacomi – dottorando di ricerca in filosofia antica all’Università degli Studi di Trento – ci avventuriamo alla scoperta dei collegamenti tra filosofia antica e teatro. Ogni uscita presenta un tema specifico, attraversato da un ragionamento che collega la storia del pensiero al teatro moderno e contemporaneo.

com'eravamo
com’eravamo

Sia Platone che Senofonte sono concordi nel mostrare che Socrate cercasse di conoscere qualcosa attraverso il dialogo con uno o più interlocutori. Questi ultimi erano invitati a rispondere sinceramente ad alcune domande su questioni specifiche («che cos’è la giustizia?», oppure «in cosa consiste la tua sapienza?») e, se la risposta data non soddisfaceva, essi venivano a poco a poco confutati dal filosofo con un ulteriore scambio di domande e risposte. Al termine dello stesso, gli interlocutori ancora disposti a dialogare potevano sottoporre una nuova soluzione del problema alle domande di Socrate, sperando di riuscire a trovarne una che sfuggisse del tutto alla confutazione. L’esito del dialogo risultava il più delle volte fallimentare, seppure portasse lo stesso a conseguenze positive. L’interlocutore che non riesce a definire la giustizia o la sapienza giunge a conoscere che la giustizia e la sapienza non sono quello che aveva supposto all’inizio, dunque arriva almeno a liberarsi dalla sua dannosa presunzione di sapere.

Mantenendo qualche dovuta cautela, visto che nessun testo lo conferma mai esplicitamente, si potrebbe presumere che Socrate considerasse il dialogo uno spettacolo godibile e paragonasse i loro partecipanti a degli attori. Il principio base dell’attività dialogica socratica è, del resto, simile a quello che si osserva su una scena viva, dove un attore porge uno stimolo a un altro attore e, ricevendo da questi un altro stimolo, ne rilancia un terzo, e così via, fino a quando il susseguirsi di domanda e risposta non giunge a un termine. In altre parole, il dialogo socratico poteva essere paragonato da Socrate a uno spettacolo perché sapeva che entrambi hanno luogo se si soddisfano almeno questi requisiti: ascolto reciproco, ritmo sostenuto, sincerità, volontà degli interlocutori a “giocare” e ad azzardare una domanda o una risposta, disposizione a cercare qualcosa di ignoto e inatteso.
La condotta del discepolo Aristippo può forse confermare la dimensione “spettacolare” della filosofia del maestro Socrate. Stando a Diogene Laerzio, egli si sarebbe comportato a tutti gli effetti come un attore, che recita bene il ruolo che gli è imposto. Un aneddoto riportato dallo stesso biografo attesta, ad esempio, che il Socratico avrebbe accettato di interpretare così magistralmente la parte del cortigiano compiacente presso la corte di Dionigi, fino ad accettare di danzare con una veste da donna dietro ordine del tiranno. Non è improbabile che tale condotta fosse appunto ispirata a Socrate. Come infatti questi non recitava mai nei dialoghi allo stesso modo, ma si adattava sempre alle proposte del suo interlocutore e trovava ogni volta le domande giuste per lui, così Aristippo adattava la sua parte in base al contesto, assumendo una condotta grave-tragica laddove la situazione appariva grave e tragica, o un modo di fare comico nei casi in cui occorreva essere comici.
Ma lo spettacolo del dialogo manifestava forse anche il teatro? Non è possibile dare una risposta netta, poiché per saperlo dovremmo essere lì ad ascoltare Socrate in azione. Quello che si può dire con relativa sicurezza è che i dialoghi socratici costituivano probabilmente degli spettacoli bellissimi, se è vero – come ad esempio ci riporta il Protagora di Platone – che gli ascoltatori non volevano affatto che il dialogo si interrompesse e che Socrate lasciasse la “scena”, qualora il suo interlocutore non si mostrasse più disponibile a rispondere sinceramente alle sue domande. Inoltre, si può affermare che lo spettacolo dialogico era strutturato in modo tale da favorire l’emergere della verità su una data questione, che grosso modo si avvicina all’obiettivo del lavoro dell’attore. Anche lui cerca insieme ad altri qualcosa di vero sulla scena, creandosi le condizioni ideali per riuscire.
Il fatto che Socrate e i suoi interlocutori pervenissero più spesso a un esito aporetico non è un’obiezione sufficiente per infrangere il parallelismo tra dialogo e spettacolo. L’artista performativo stesso fallisce il più delle volte nel suo tentativo di manifestare il teatro, attraversando la forma spettacolare. Sia Socrate che un attore consapevole potrebbero allora ugualmente dire: «ho fallito nel manifestare la verità? Non fa niente. Nella prossima replica, cercherò di nuovo invano e fallirò ancora meglio, dando prova nel frattempo di sincerità e di amore per la conoscenza».

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Era capace di conformarsi al luogo, al tempo e alla persona, e di recitare secondo convenienza ogni circostanza; per questo si segnalò più degli altri presso Dionigi di Siracusa, disponendo sempre a suo favore ogni situazione che gli si presentasse (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, libro II, § 66)

Un giorno Dionigi, durante un banchetto, ordinò che ciascuno danzasse avvolto in una veste di porpora; ma mentre Platone si rifiutò dicendo: «non potrei mai indossare una veste femminile», Aristippo la prese e, stando sul punto di danzare, argutamente disse: «invero anche nelle cerimonie bacchiche colei che è pura non si corrompe» (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, libro II, § 78)

Io [Socrate], resomi conto ch’egli non era soddisfatto delle risposte di prima e che avrebbe discusso a malincuore rispondendo alle mie domande, ritenni che non fosse più mio compito prendere parte a quel colloquio: «Ma neppure io, Protagora», dissi, «sto qui ad insistere perché il colloquio si svolga per noi contro quello che tu pensi, ma qualora tu voglia discutere sì che io possa tenerti dietro, allora discuterò con te. (…) Ma ora, poiché tu non vuoi, e anch’io ho le mie faccende, per cui mi è impossibile restare qui ad ascoltarti – debbo andare in un posto – mentre pronunci interminabili discorsi, me ne vado, benché, in fondo, non senza piacere avrei ascoltato anche questi tuoi lunghi discorsi». Così dicendo mi alzo per andarmene, mentre Callia con la destra mi afferra la mano e con la sinistra mi acchiappa per il mantello, questo mantello, e dice: «No, Socrate, non ti lasceremo andare, perché, se te ne vai, il dialogo non sarà più per noi così interessante: nulla, certo, ascolterei più volentieri che un dialogo tra te e Protagora. Fai dunque, un favore a tutti noi!» (Platone, Protagora, 335b-d)

[Le testimonianze su Aristippo sono raccolte nel capitolo IV A di G. Giannantoni (a cura di), Socratis et Socraticorum Reliquiae. Volumen II, Napoli, Bibliopolis, 1990, pp. 3-103. La traduzione dei passi laerziani che seguo è quella del volume di G. Giannantoni (a cura di), I Cirenaici, Firenze, Sansoni, 1958, a cui aggiungo qualche mia minima variazione. Cito invece il passo del Protagora da F. Adorno (a cura di), Platone. Protagora, Roma-Bari, Laterza, 2007]

Enrico Piergiacomi
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