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HomeArticoliTaccuino Critico. L'appartamento, Titus e Best Friend

Taccuino Critico. L’appartamento, Titus e Best Friend

Tra le molteplici offerte teatrali, sul Taccuino Critico si appuntano segni di sguardi diversi che rispondono a un’unica necessità: osservare, testimoniare, dar conto dell’espressione pura, del piccolo e grande teatro…

 

Foto P.Appera
Foto P.Appera

L’APPARTAMENTO – SOLD OUT
di Francesco Apolloni
regia di Vanessa Gasbarri
con Jonis Bascir (Osama) Enzo Casertano (Gioacchino) Antonio Conte (Armando) Marine Galstyan (Kalindi) Rishad Noorani (Ravì) Alida Sacoor (Amina) Gabriella Silvestri (Irene)
scene e costumi Katia Titolo
musiche Jonis Bascir
disegno luci Giuseppe Filipponio
video David Melani e Clorinda D’Alonzo
aiuto regia Olimpia Alvino, Aldo Spahiu
capo elettricista Fabrizio Mazzonetto
organizzazione Raffaella Gagliano
relazioni esterne Vanessa Vitolo
grafica Lollozolloart

L’interno di una casa: un tavolo al centro della sala dietro il quale sulla parete vi è appeso un crocifisso, delle scale sul fondo, una credenza a destra dello spettatore, due poltrone sulla sinistra… L’appartamento – Sold Out di Francesco Apolloni per la regia di Vanessa Gasbarri è una commedia di equivoci, lazzi e problemi quotidiani racchiusa in uno scenario che sta per essere abitato e condiviso, come anticipa il rumore della chiave nella serratura della porta. Tre coppie (Gabriella Silvestri e Antonio Conte, Alida Sacoor e Jonis Bascir, Marine Galstyan e Rishad Noorani) a turno vi entreranno con la convinzione di fare il loro ingresso nella nuova casa; «un affare» perché comprata per soli cinquantamila euro chiavi in mano da un falso agente immobiliare, il quale è riuscito a imbrogliare le coppie protagoniste: una italiana, una araba e l’altra indiana. Un espediente comico e fattuale più volte riproposto tanto da diventare cliché, tuttavia i sei attori, scaltri nel creare dinamismo scenico e abili nel sostenere gli incalzanti tempi comici, riescono a intrattenere gli spettatori – divertiti e instancabili– per i due atti dalla durata di circa due ore. Un tempo assai lungo però, che si sarebbe potuto accorciare invece di dilatarlo e appesantirlo, mantenendo la stessa intensità drammaturgica fino al coup de théâtre per l’entrata in scena del vero proprietario di casa il Sign. Gioacchino Stasi (Enzo Casertano) anziano e malato, che a causa di questa truffa si ritrova ospite nell’appartamento di sua proprietà. Condividere spazi, usi e costumi, mettere sotto lo stesso tetto etnie diverse e anche un po’ razziste, farle scontrare su temi piuttosto delicati della contemporaneità, per poi raggiungere nel finale «la basilare tolleranza e il doveroso rispetto reciproco»; questo è l’intreccio semplice che anima una commedia in fin dei conti godibile e leggera, all’insegna del “non prendiamoci troppo sul serio”.

Lucia Medri
Twitter @LuciaMedri

Teatro Roma, Roma – gennaio 2015

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titus
foto di Manuela Giusto (particolare)

TITUS – COMMEDIA PULP
adattamento da William Shakespeare a cura di Andrea Teodori
regia Leonardo Buttaroni
con Diego Migeni, Daniela Kofler, Alessandro Di Somma, Marco Zordan, Yaser Mohamed, Gioele Rotini, Matteo Fasanella, Virginia Arveda, Valerio Persili
Scenografie Paolo Carbone,
Costumi Cristina Picuti,
Musiche Alessandro Forte,
Luci Pietro Frascaro,
Aiuto Regia Velia Viti,
Foto Manuela Giusto,
Trucco Marianna Vuotto

Dalla prima edizione del Roma Fringe Festival era uscito vincitore un giovane gruppo chiamato Cattive Compagnie, grazie al successo della farsa mafiosa Horsehead, spin off del Padrino pieno di citazioni, che si era aggiudicato un biglietto per l’edizione newyorkese del Fringe. E una segnalazione dal New York Times. Nella scorsa stagione, complice l’interesse della prestigiosa compagnia Mauri-Sturno, era apparso l’adattamento teatrale da Fight Club – dal romanzo di Chuck Palahniuk e dall’adattamento cinematografico di David Fincher – e ora il piccolo Teatro Trastevere ha ospitato per tre settimane di successo Titus – Commedia Pulp. La materia originaria della prima tragedia scritta da Shakespeare – in cui il virtuoso generale Tito, di ritorno dalla guerra con prigionieri goti, si troverà vittima di una cruenta macchina di vendetta in grado di cavare occhio per occhio e dente per dente – incontra quella che, al terzo lavoro, sembrerebbe già una cifra stilistica, una forzatura degli schemi teatrali a vantaggio dei codici visivi e ritmici del cinema. Merito va reso al buon duetto di luci e scene (rispettivamente Pietro Frascaro e Paolo Carbone) e ancor più ai costumi sofisticati di Cristina Picuti, che mescolano lo stile “apocalittico-rider” à la Mad Max alle suggestioni già lanciate da Julie Taymor nel suo film del 1999. Di quella preziosa operazione a metà strada tra teatro puro e videoclip restano molte tracce, anche se le Cattive Compagnie si appoggiano – dichiarandolo – più sulla lezione di Quentin Tarantino, prendendo quattro protagonisti come sguardi di quattro differenti soggettive. L’operazione sul testo – conservato quasi integralmente – funziona, tuttavia, grazie più all’impianto visivo (in ogni caso un po’ invadente, reso parlante da musiche a effetto) che non drammaturgico o di recitazione. Se quest’ultima, fiera del proprio indubbio agio, sfugge spesso al controllo appiattendo la tessitura della poesia (ricordiamocelo, sempre di poesia si tratta!) su un unico e monotono grido rabbioso o in ululati gementi, il trattamento sfrutta solo in maniera superficiale la potenza morale del testo, che sotto al bagno di sangue nasconderebbe (almeno per noi contemporanei) una riflessione sull’evoluzione dell’autorità di sovrani pur nominati dal popolo. Appare poi forzato il capriccio di voler per forza inserire toni di commedia nera dentro un ingranaggio che già funziona a dovere e che pure l’impianto visivo contribuirebbe a rafforzare, così come le continue iniezioni di adrenalina in ogni (ogni!) battuta finiscono per rendere il tutto assordante e troppo compiaciuto. C’è energia, certo, ma forse occorrerebbe – anche nella legittima forzatura delle logiche – più attenzione alla tollerabilità di certe scelte e un rispetto per tutti i livelli del linguaggio teatrale, tutt’altro che bidimensionali.

Sergio Lo Gatto
Twitter @silencio1982

Teatro Trastevere, Roma -gennaio 2015

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foto ufficio stampa
foto ufficio stampa

BEST FRIEND
di e con Giuseppe Tantillo
e con Claudio Gioè
regia di Daniele Muratore e Giuseppe Tantillo
scene Antonio Panzuto
costumi Alessandro Lai
luci Paolo Pollo Rodighiero
produzione BAM teatro

Le prime scoperte tra droghe, tv e ragazze, la volontà di fuggir via e di contro il dover sottostare agli obblighi genitoriali: è un mondo circoscritto quello tra due migliori amici; isolato questo nucleo, tutto il resto scende di importanza, perfino la competizione per la prima fidanzata o per chi detiene la malattia più pericolosa. Come nella storia, così sulla scena, Best Friend pone al centro questa relazione, al cui servizio si trovano sei praticabili a forma di scala in grado di evocare luoghi chiave dell’adolescenza passata sui gradini di una piazzetta, davanti l’androne della scuola o sdraiati su un muretto.
Scritto da Giuseppe Tantillo, il testo è stato menzionato nell’ultima edizione del Premio Tondelli per «il vibrante e disarmato lirismo della sua clownerie grottesca e surreale»; nel giovane autore palermitano si ritrova la lezione del teatro dei messinesi Scimone e Sframeli. Nella messinscena curata assieme a Daniele Muratore si ritrova di certo parte di questa poetica dove l’eternità è misurata sulle ore e un terzo dell’intera vita sono tre anni, ma ancor di più che maschere fuori dal reale i due protagonisti vivono una quotidianità nella quale la ritmica dei silenzi e dei dialoghi rarefatti ben si presta al racconto dei piccoli avvenimenti, e i cambiamenti più sensibili sono segnalati dalle proiezioni pittoriche le quali più che ricordare una scenografia, si offrono all’espressione di un sentimento, acceso o sfumato; blu perplesso o arancio infervorato.
E tuttavia se nei due ragazzi, interpretati da Claudio Gioè e dallo stesso Tantillo, ritroviamo la fanciullezza delle posture, questa sembra stridere con un certo parlare da adulti che caratterizza i loro dialoghi. Al confine tra il valore e il limite, da una parte si ritrovano dinamiche tipiche dove l’imitazione dell’adulto è una tappa obbligata – anche se non ancora completamente compresa – della crescita; dall’altra si corre tuttavia il rischio che il tema venga trattato con un occhio troppo distante. Ai personaggi, inconsapevoli dell’ilarità del proprio dire, appartiene la tragicità del momento; al pubblico del Teatro Vittoria, vivacemente partecipe nonostante – o forse proprio in ragione de – il distacco generazionale, lo sguardo comprensivo di chi ha già visto. Sembra che l’accento cada più sulla comicità ridicola di una prima canna rollata con foglie da tè più che marijuana e non sull’eccezionalità dell’evento nel percorso dei ragazzi.

Viviana Raciti
Twitter @viviana_raciti

Teatro Vittoria, Roma – gennaio 2015

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