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Per farla finita col teatro civile?

César Brie porta in scena Viva l’Italia. Le morti di Fausto e Iaio al Teatro India

 

foto Luca Del Pia
foto Luca Del Pia

Ci sono avvenimenti che scandiscono l’evoluzione civile della società contemporanea. Alcuni li ricordiamo come punti di non ritorno, eventi spartiacque già impacchettati per una pagina di libro di storia, di altri abbiamo vaghi ricordi anneriti, finiti in qualche memoriale pubblicato da stampe alternative, eppure la storia, quella che si fa per le strade, nei tinelli, molto prima che se ne accorgano gli scrittori di manuali, mantiene con essi un sotterraneo legame, sottile ma inossidabile, perché forniscono involontarie parti mancanti sfuggite ai grandi teoremi epocali.
Quando il teatro e la cronaca incrociano le loro sorti, di quest’ultima si prendono in esame gli eventi che nel tempo hanno preso il nome di fatti. È proprio in quel punto d’incontro che la realtà dell’accaduto si espone a quel rischio implicito che fa del racconto il grande traditore proprio della realtà. Ecco allora che il teatro, ammettendo come suo magma originario e fine non il reale ma il vero, con difficoltà accorda la propria ricerca espressiva a una materia di così enorme ingombro.

Ma veniamo, prima di tutto, ai fatti. L’oggi è un testo inedito di Roberto Scarpetti, menzionato al Premio Riccione 2011, dal titolo Viva l’Italia. Le morti di Fausto e Iaio, portato sulla scena dal regista argentino César Brie, molto attivo nel nostro paese ormai sua patria adottiva. Ma in quest’oggi – uno spettacolo teatrale in scena al Teatro India di Roma – è annidato ieri, quel tempo in cui i fatti narrati smisero di essere ignoti e furono promossi a caso di cronaca e quindi, in tutto e per tutto, evento storico.

foto Luca Del Pia
foto Luca Del Pia

Fausto Tinelli e Lorenzo Iannucci, detto Iaio, durante la primavera del 1978, forse la più sanguinosa dell’intera lotta armata, erano soltanto due ragazzi milanesi che facevano volontariato contro la tossicodipendenza, nell’orbita del centro sociale Leoncavallo. Eppure un giorno qualsiasi, apparentemente senza motivo alcuno, proprio nei pressi del centro sociale furono avvicinati da tre uomini armati e uccisi a bruciapelo in mezzo alla strada. Un caso ancora irrisolto e poco affrontato, ricco di punti in comune con vicende ritenute di maggior peso come il sequestro di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse avvenuto in contemporanea e, tangenzialmente, la strage alla Stazione di Bologna del 2 agosto 1980.

Si avvertono sirene, voci, prima che la luce in sala sia spenta. La scena è costruita secondo una prospettiva trasversale rispetto allo spazio, un rettangolo percorso sui lati interni da un telone trasparente, un velo che delimita il dentro e il fuori, il visibile e l’onirico, attraversato da tagli di luce piuttosto netti e che seguono geometrie rettangolari. È Fausto immediatamente a presentare sé stesso e la vicenda tutta, costruendola a partire dalla fine, dall’omicidio, continuamente ripercorso a ritroso, muovendo i protagonisti come pedine sulla scacchiera di quella giornata, e in avanti, lungo la deriva delle indagini pian piano disperse e fin quasi negate. Pertanto tra gli episodi noti si rincorrono altri meno noti: il terrorista nero e i suoi trascorsi, così come il suo ipotetico futuro di stragista, il giornalista coinvolto nelle indagini al punto di restarvi invischiato, il commissario troppo curioso e via via destituito dall’incarico.

foto Luca Del Pia
foto Luca Del Pia

Tutti questi elementi poggiano su una sequenza di cliché poco supportata da creatività, come se alcune storie non si possano raccontare altro che in questa modalità tendente alla fiction. Ma il problema è proprio qui: la trasposizione del reale si nega nel momento in cui di esso si tenti di produrre attinenza, il gioco teatrale ne è come dire sconvolto, privato di fecondità; nella bontà dell’operazione, capace di far luce su un caso ancora insabbiato e poco chiaro, si innesta il dubbio che non sia possibile purezza di approccio che superi la prossimità alla materia trattata: qui lo spettatore va perché già in accordo con quanto si dirà dei fatti, sarà mosso da adesione alla visione che dà corpo allo spettacolo, non può confliggere con essa perché semplicemente ciò andrebbe contro i suoi principi.

Insomma lo spettacolo informa e non affonda questa materia, ma la difficoltà insoluta di chi critica sta nell’affrontarla fuori da una certa retorica celebrativa. Troppo forte il peso del bene e del male per tracciare una linea di giudizio, troppo il carico emotivo con cui si entra in sala per poter dire di quell’attore debole, quella luce messa male, un’estetica stantia e non evoluta, troppa la cura di César Brie a stanare l’emotività anche solo con una scelta musicale azzeccata. Salvare il giudizio dalla partigianeria è un’ostinazione cui spesso non si riesce a resistere, buoni e cattivi ci guarderanno dai libri di storia con successo di rappresentazione perché avremo noi avallato il manicheismo che li dipinge, muovendo così le acque della nostra coscienza solo in superficie, ecco allora che facendo teatro di una materia cui aderiamo, parzialmente l’abbiamo negato.

Simone Nebbia
Twitter @Simone_Nebbia

Dal 22 ottobre al 2 novembre al Teatro India di Roma [Stagione 2014/2015]

Viva l’Italia
Le morti di Fausto e Iaio

di Roberto Scarpetti
regia César Brie
con Andrea Bettaglio, Massimiliano Donato,
Federico Manfredi, Alice Redini, Umberto Terruso
Produzione Teatro di Roma e Teatro dell’Elfo

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Simone Nebbia
Simone Nebbia
Professore di scuola media e scrittore. Animatore di Teatro e Critica fin dai primi mesi, collabora con Radio Onda Rossa e ha fatto parte parte della redazione de "I Quaderni del Teatro di Roma", periodico mensile diretto da Attilio Scarpellini. Nel 2013 è co-autore del volume "Il declino del teatro di regia" (Editoria & Spettacolo, di Franco Cordelli, a cura di Andrea Cortellessa); ha collaborato con il programma di "Rai Scuola Terza Pagina". Uscito a dicembre 2013 per l'editore Titivillus il volume "Teatro Studio Krypton. Trent'anni di solitudine". Suoi testi sono apparsi su numerosi periodici e raccolte saggistiche. È, quando può, un cantautore. Nel 2021 ha pubblicato il romanzo Rosso Antico (Giulio Perrone Editore)

2 COMMENTS

  1. Caro Simone, il tuo articolo stimola riflessioni in abbondanza e mi farebbe piacere discuterne con te, sottoponendoti una serie di interrogativi. Mi chiedo, innanzitutto, quale sia il ruolo del critico di fronte a un qualsiasi testo di teatro, sia esso di narrazione, ossia convenzionale, o “civile”: analisi del testo e dell’abilità drammaturgica, “lingua”, resa scenica, soluzioni tecniche, regia, interpretazione, o un mix ben costruito di tutti questi aspetti? E perché poi il critico dovrebbe da subito abdicare al suo ruolo, posto che lo si possa individuare e definire con certezza, solo perché teme che il suo “idem sentire” rispetto al punto di vista dell’autore possa far velo alla sua capacità di analisi? E’ sconveniente emozionarsi (come è capitato a tutti noi spettatori della replica di domenica all’India) per un evento poco noto ma precisamente collocabile in un periodo storico del quale ancora portiamo le ferite? E’ sconveniente applaudire per 10 minuti, anche a scena aperta, un ensemble di attori che, a giudizio dei presenti, hanno ben reso lo spirito di un testo che, per espressa dichiarazione dell’autore, parte dal vero per costruire una finzione che sia emblematica di quegli anni? E ancora, cosa c’è di male nel fare del teatro civile, cioè del teatro che narra tematiche di attualità politica e sociale? Non lo erano molti testi oggi definiti “classici” all’epoca della loro prima messa in scena? Qualcuno ha mai fatto una riflessione del genere per Eduardo, Shaw, Wilde (ma sono i primi nomi che mi vengono in mente)all’epoca della prima messa in scena di “Napoli milionaria”, della “Professione della sig.ra Warren” o de “L’importanza di chiamarsi Ernesto”? SI potrebbe scrivere oggi un testo come “I pilastri della società” senza essere tacciati di eccessiva adesione al “vero”? E, concludendo, si potrebbe mai abbandonare una sala in cui si esibiscano Paolini, Celestini, Fo affermando di essere troppo coinvolti emotivamente per parlare dello spettacolo in termini realmente critici?

  2. Caro Paolo, grazie innanzitutto dell’attenzione verso il nostro lavoro, davvero inusuale.
    Cercherò di rispondere con coscienza ai tuoi interrogativi.

    Partirei dal presupposto che il titolo è ovviamente un virtuosismo pretestuoso, non c’è intenzione di bloccare alcun processo né tanto meno dichiarare cosa si possa o no fare. Non l’ho e non l’abbiamo mai fatto. Quindi non c’è nulla di “sconveniente” e mi sorprende che tu dalle mie parole abbia tratto questo. Io non ho fatto altro che interrogarmi sul ruolo anche per difendere una materia che mi sta molto a cuore.
    Con ordine. Ci provo. Perché qua non basterebbe una settimana di convegni per rispondere davvero.

    – Di fronte a qualsiasi testo il critico dovrà necessariamente valutare con strumenti emotivi e razionali prima di tutto la veracità dei punti toccati, poi la qualità della scrittura e della costruzione drammaturgica. Poi insomma dal testo in poi sì, mi sento di dire che si toccano un po’ tutti quegli aspetti.

    – Abdicare non è che una causale retorica, non si abdica scrivendo 5000 battute. Si abdica con il silenzio. Saremmo in un controsenso. Non ho fatto altro che usare uno stratagemma argomentativo per rispondere ai miei dubbi sul legame tra materia e messa in scena (espressi nell’articolo).

    – Posto allora che non c’è nulla di sconveniente, non lo è di certo aderire alla materia, lo faccio anch’io che però devo permettermi di purificare la mia compromissione emotiva perché altrimenti basterebbe il solo argomento a comporre uno spettacolo. E sappiamo che non è così. Non è sconveniente applaudire tanto gli attori e reputarli molto bravi. Per me così non era e siamo nell’insindacabile differenza di vedute.

    – Cosa c’è di male nel fare teatro civile? Assolutamente niente. Il teatro è civile perché si occupa in ogni caso di decriptare lo sviluppo della civiltà in cui ci è dato di esistere. I molti testi che tu citi sono pilastri di tante società, ma questo testo di Roberto Scarpetti non mi è parso a quel livello, onestamente.

    – Ho seguito e seguo tutti gli artisti che hai citato. Addirittura in una forma di amicizia in alcuni casi, nata dall’averne apprezzato il lavoro. Nei loro testi ravviso una qualità di scrittura rara, sostenuta da un peso attoriale di alto livello, e va bene, ma non si possono citare esemplari fissi: di questi artisti ho discusso i termini a ogni spettacolo, arrivando a decretare il più delle volte che il risultato espressivo forniva della materia una tridimensionalità capace di allargare il campo visivo. In questo caso mi pare che il campo visivo sia ridotto a una rappresentazione di fatti, quindi il problema torna a toccarmi da vicino.

    In ogni caso io non ho abbandonato nessuna sala. Sono rimasto fino alla fine e ho reagito a un pungolo che mi ha attraversato per l’intera opera. Non è andato via. Ha prodotto questo articolo di un critico.

    Ti ringrazio Paolo di avermi dato l’occasione per tornare a riflettere su alcuni punti. Vedi, un articolo non sarà mai esaustivo, si può arrivare anche a ricredersi se si accetta di dialogare in questo modo così denso, vitale.

    A presto
    Simone

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