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Suggestione petroliniana. Al Vascello Il padiglione delle meraviglie

Foto di Pino Le Pera
Foto di Pino Le Pera

Immaginiamo un tempo che non è più, una piazza esistita prima che cambiamenti epocali non ne lasciassero che il nome in una via. Pensiamo una Roma di inizi ‘900: i suoi spazi, l’arancio delle luci, i volti che scorrono lungo le rive del fiume, gli artisti e i “ciarlatani”, le botteghe e i ragazzini per la strada, l’inflessione vibrante della lingua per i vicoli delle borgate e gli alto-borghi perlati di signore con sciarpe di volpe ed ermellino al braccio di intellettuali, funzionari, blasonati il cui nome fa ancora riecheggiare aria di splendore. Ce li figuriamo fra i calessi e le prime automobili che camminano di giorno e passeggiano la sera avviandosi in quelle sale in cui, sorseggiando china o liquori d’importazione, fra le luci di proscenio e le assi di ribalta vedono apparire il profilo di un frac, i tratti appuntiti di un viso mordace, mentre li incanta la diatonia della voce asservita alla canzone e avvera un emblema del varietà. Sarcasmo e amarezza coesistono in quella faccia distinta nel fumo dei bocchini: Ettore Petrolini la macchietta, l’attore, il comico popolare, l’amato interprete dei futuristi e poi l’uomo, il redattore di memorie e il drammaturgo. Nel 1924 scrive Il padiglione delle meraviglie, atto unico in quadri riadattato oggi da Massimo Verdastro ed Elio Pecora, in scena al Teatro Vascello sino al 13 ottobre. Certo il confronto con la leggenda è arma a doppio taglio, si sa: se da un lato appare coraggiosa l’impresa di accostarsi all’immagine del genio, dall’altro rischia di trasformarsi nell’adagiamento sulla figura, nella ricerca del beneficio e della rendita della sua grandezza. E nemmeno è detto che riesca con puntualità esatta, come in questo caso.

Lo scorcio è, come si diceva in principio, quello di una piazza verosimilmente assimilabile a Piazza Guglielmo Pepe, luogo in cui agli albori del secolo scorso la città concentrava baracconi per intrattenimenti popolari di vario genere. Fra questi quello di Lalli e della moglie Zenaide che annovera fra le sue attrazioni il selvaggio Amalù con la moglie Evelina, la donna Sirena e Tigre, il lottatore dalla forza insuperabile. Accanto a loro, immancabile in simili contesti, l’imbonitore Tiberio che cela, dietro la brillantezza apparente, l’avvilimento del tempo che passa e dell’efficienza che viene meno, accresciuto pure dall’abbandono dell’amata. Nello svolgersi della vicenda infatti si capisce come egli sia stato lasciato da Sirena che ora intrattiene una relazione con Tigre senza curarsi troppo delle sofferenze dell’uomo. Quest’ultimo tenta di riconquistarla quando si scopre che Tigre è sposato da tempo e in procinto di partire per un ingaggio in un circo tedesco; la implora di ricongiungersi e restare e lei sull’onda della rabbia accetta a patto di essere vendicata nell’orgoglio. Segue lo scontro fra Tigre e Tiberio che si fa avanti e si propone nel consueto finale dello spettacolo in cui Lalli chiede al pubblico chi sia pronto a sfidare il lottatore per guadagnarsi qualche lira. L’imbonitore riesce ad avere la meglio ma più che una vittoria, questa sarà la conclusione al fiele di una storia piena di rancori e meschinità.

Foto di Pino Le Pera
Foto di Pino Le Pera

La messinscena si avvale di strutture in legno praticabili – una scala, una gabbia, una stella a cassetti – e una tenda che, fra le semitrasparenze del tessuto irrorato di luce, segna la dimensione del padiglione all’interno del quale si svolgono numeri mai compiutamente mostrati e lasciati solo intuire dalle indicazioni di un gioco di ombre. Lo spazio è agito in più direzioni, rimodulato di quadro in quadro a seconda delle esigenze; il suo sfruttamento risulta, oltre che pensato, ben calibrato sull’effetto dall’ingresso dei personaggi sino al termine e sostenuto pure da un valevole utilizzo dell’illuminazione.
Interessante l’intuizione registica che porta a utilizzare maschere intere per gli spettatori del “carrozzone” in contrapposizione alla mimica organica dei protagonisti, truccati sì, ma a volto scoperto. Come a stabilire una relazione per antitesi, ciò che si suppone appartenere all’universo del reale giunge falsato, precostituito nel regno delle apparizioni i cui moti buoni o cattivi non può ammansire il livellamento del vivere comune. La struttura drammaturgica poggia su una schema che si ripete: il susseguirsi delle situazioni è intervallato da momenti di riflessione e commento in assolo rivolti al pubblico, figli di un’estetica dello straniamento che ne fa illustrazioni e approfondimento per il pensiero. L’allestimento di Verdastro presenta dunque aperture di visione limpide nella volontà, ma la riproposizione lascia qualche dubbio sulla autenticità della riuscita: mancano di affondo alcuni inserimenti e scarsamente se ne avverte il bisogno seppure si scorge l’intenzione. Infatti per quanto sia chiaro il tentativo di rielaborare l’originale innestando elementi di attualizzazione e rilettura – da canzoni della Bertè a piccole coreografie – , nessuno di questi denuncia né una radicale appropriazione autoriale, né una profonda plasmazione odierna dei presupposti drammatici che renda completamente la restituzione personalizzata del testo. Probabilmente tale sensazione sfuggente e perplessa si deve pure all’interpretazione, termine con cui qui si intende non solo la versificazione delle battute, in alcuni casi abbastanza debole, ma anche la qualità delle azioni. Visibilmente si cerca l’atmosfera, tuttavia sembra di poter constatare che non a tutti riesca di esaudirla nonostante godano della suggestione dell’autore che tanto aiuta e molto scopre delle mancanze nell’ingranaggio utile alla performance per fare la differenza.

«Per me ognuno discende da’ le scale di casa sua», asseriva lapidario sui nobili Petrolini. E così come eravamo partiti, siamo tornati anche noi verso casa e abbiamo risalito le scale del nostro tempo fra i passi del Gianicolo in una Roma che, eternamente uguale e diversa, ci ha regalato un viaggio in più.

Marianna Masselli

Visto in ottobre 2013 al Teatro Vascello di Roma

Vai al video completo su eperformance.tv

IL PADIGLIONE DELLE MERAVIGLIE
di Ettore Petrolini
adattamento Massimo Verdastro, Elio Pecora
regia Massimo Verdastro
con Manuela Kustermann, Massimo Verdastro, Emanuele Carucci Viterbi, Gloria Liberati, Giuseppe Sangiorgi, Luigi Pisani, Chiara Lucisano
disegno luci Valerio Geroldi
sound design Mauro Lupone
collaborazione ai movimenti di scena Charlotte Delaporte
trucco e maschere Bruna Calvaresi
assistente alla regia Giuseppe Sangiorgi
consulenza tecniche circensi Daniele Antonini
consulenza letteraria Luca Scarlini
scene e costumi Stefania Battaglia

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Marianna Masselli
Marianna Masselli
Marianna Masselli, cresciuta in Puglia, terminato dopo anni lo studio del pianoforte e conseguita la maturità classica, si trasferisce a Roma per coltivare l’interesse e gli studi teatrali. Qui ha modo di frequentare diversi seminari e partecipare a progetti collaterali all’avanzamento del percorso accademico. Consegue la laurea magistrale con una tesi sullo spettacolo Ci ragiono e canto (di Dario Fo e Nuovo Canzoniere Italiano) e sul teatro politico degli anni '60 e ’70. Dal luglio del 2012 scrive e collabora in qualità di redattrice con la testata di informazione e approfondimento «Teatro e Critica». Negli ultimi anni ha avuto modo di prendere parte e confrontarsi con ulteriori esperienze o realtà redazionali (v. «Quaderni del Teatro di Roma», «La tempesta», foglio quotidiano della Biennale Teatro 2013).

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