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Mit Lenz. Non applaudite il maestro Morganti…

Foto di Rita Frongia
Foto di Rita Frongia

«Non applaudite, proviamo a portare con noi quello che è stato fatto, senza interruzione». Queste parole alla fine di uno spettacolo, anzi, alla fine del teatro di Claudio Morganti, sono ciò che meglio saprà esprimere in queste righe la devozione all’arte che dobbiamo a questo artista, il candore quasi religioso con cui si appressa alla missione di ridire, quasi confidare, un testo, la sapienza minuta di un saggio officiante quando si misura con la comparsa visiva dello stesso, finché appaia al naturale, senza orpelli e nascondimenti.
Mit Lenz, ennesimo omaggio all’amato Georg Büchner presentato al Teatro Magnolfi di Prato in occasione di Contemporanea Festival 2013, nasce da molto lontano e precisamente dalla ricerca che Morganti sta conducendo attorno allo scrittore tedesco e più nel dettaglio sul suo testo simbolo, Woyzeck, cui il regista e attore ha dedicato – ma davvero dedicato – molti degli ultimi anni. Ora è la volta del racconto Lenz (in Italia da Adelphi, 1989), un frammento incompiuto di poche pagine a cui l’autore lavorò poco prima della morte avvenuta nel 1837, immaginato a partire dal diario del pastore luterano Oberlin sul poeta tedesco Jakob Michael Reinhold Lenz cui diede ospitalità nel 1778. Egli è simbolo angoscioso di una civiltà che si sta trasformando e che diverrà qualche anno più avanti il cardine della storia letteraria e l’impronta ombrosa nell’anima dell’uomo moderno, quello “spleen” di cui dirà Baudelaire, quel male di vivere che saprà dall’Ottocento non lasciare più la storia delle arti e del pensiero. Il poeta è per Büchner un tramite con l’alterità capace di mescolare compromissione e ascetismo: «C’era un vuoto orribile in lui, non sentiva più alcuna paura, alcun desiderio; la sua esistenza gli era un peso necessario», dirà di lui Büchner/Oberlin aprendo le porte della modernità.

Foto di Rita Frongia
Foto di Rita Frongia

Tutto ha inizio con l’ingresso in un antro sotterraneo dove il testo sembra attaccato alle pareti sbrecciate in cui ci si sente «sprofondare nel tutto», ricavate sotto una modernità dalla quale ci siamo appena allontanati. Siamo nello spazio del sogno, dove è vero ciò che si nasconde, dove la vita – sospesa – è teatro. Ma, pure, ancora è l’illusione a guidarci, perché il vero inizio s’immagina in un tempo che allo spettacolo non appartiene, ma forse al teatro sì: si avverte uno scampanìo perfetto durante la rappresentazione, quasi come – ci figuriamo – Morganti fosse andato in un tempo precedente a valutare con il sagrestano il calendario delle campane di una chiesa vicina. Ma l’arte – dirà più avanti – è il tempo. E allora può davvero farsi verità una suggestione, si può credere all’incredibile cui la realtà si consegna con un definitivo atto di resa.

Nello spazio sotterraneo Morganti compone una scena di esili materiali, un tavolo e sedie, un crocifisso appeso alla parete di mattoni a vista, bottiglie di vino, candele e immancabili libri. A disgregare il rischio della didascalia è l’atmosfera di cui questi oggetti fanno parte, densa e magnetica, antro segreto nel segreto più grande, posto ancor più a fondo della grotta in cui siamo riuniti. Il regista è seduto e attende, Lenz è un attore (Antonio Perrone) che entra ed esce dalla scena di cui egli sembra detenere ogni avvenimento: compita il suono che si produrrà, anticipa su cosa lo sguardo andrà a posarsi. C’è in questo lavoro una ricerca in relazione con il buio intenso e mai vacuo, con una sonorità inquieta e non invadente ma avvolta in una spietata tensione, con l’ombra d’anima ch’è una mano di Rita Frongia (non casualmente collaboratrice d’opera per la drammaturgia e la tecnica) in regia – vista da nessuno – su una parete laterale alla sua postazione, alle spalle di tutti.

Foto di Rita Frongia
Foto di Rita Frongia

L’evoluzione si articola seguendo una forma quasi laboratoriale, frammentando il frammento che prima si narra e poi si cerca di rendere visivamente, sceneggiare in corso d’opera il dialogo su arte, vita, natura e artificio di fronte agli uditori. Morganti ha questa forza ineguagliata di entrare e uscire dalla bolla scenica senza che se ne avverta distacco, senza distrazione; così potrà fermare la sua rappresentazione per un finto intervallo in cui offrire vino a tutti e, per chi ne vuole, l’ampolla con la sua acqua di rose, come volesse battezzare laicamente il suo pubblico. È questo un atto determinante che segna l’importanza del suo lavoro, la cui dedizione all’opera è pari a quella verso l’uditore, coinvolto in una riflessione sull’arte in cui è celata la responsabilità di chi vi assiste. Legge sinonimi e contrari dell’aggettivo “teatrale”, scopre così che il teatro ha più affinità con i contrari che non con i sinonimi, ora chi potrà obiettare se si spingerà a dire che il teatro non è “teatrale”? Nessuno, così come nessuno tradisce il suo invito, quando alla fine ci si alza e si raggiunge l’uscita non un colpo è stato battuto, non un rumore ha squarciato il velo, nulla avrà reso teatrale il teatro.

Simone Nebbia

vai a Paso doble – A Contemporanea Festival 2013 Morganti e Nadj per un doppio Büchner

Visto al Teatro Magnolfi di Prato per Contemporanea Festival 2013

Questo articolo sarà anche sul numero Novembre/2013 dei Quaderni del Teatro di Roma.

MIT LENZ
ideazione e regia Claudio Morganti
con Claudio Morganti e Antonio Perrone
progetto luci Roberto Innocenti
assistenza drammaturgica e tecnica Rita Frongia
amministratore di compagnia Adriana Vignali
con il contributo della Regione Toscana
con la collaborazione di Contemporanea Festival 13/Teatro Metastasio Stabile della Toscana

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