HomeVISIONIRecensioniNeil LaBute alla Biennale: scrivere tra impulso e improvvisazione

Neil LaBute alla Biennale: scrivere tra impulso e improvvisazione

foto di Lisa Carpenter

“Improv For Writers: learning to write on impulse and without fear”

Tra i percorsi formativi voluti da Àlex Rigola (con Luca Ronconi, Declan Donnellan con Nick Ormerod, Claudio Tolcachir, Gabriela Carrizo), quello condotto da Neil LaBute è l’unico prettamente drammaturgico. Il virgolettato con cui comincia questo articolo è il titolo del laboratorio: ma qual è la relazione tra improvvisazione e scrittura teatrale? Cosa dovrebbe temere un giovane drammaturgo se non una vita di stenti e precarietà?

Di certo un’emozione come la paura e un processo inconscio a questa direttamente connesso, quale l’impulso, sono alla base di molti dei meccanismi individuali e relazionali che muovono i testi dell’artista statunitense.

Classe 1963, nato nello stato del Michigan, precisamente a Detroit, città che dovette abbandonare quando i suoi genitori si trasferirono a Spokane (Washington), Neil LaBute è uno degli autori più rappresentati tra Londra e New York – tanto che ormai i suoi plays vengono messi in scena quanto quelli dei suoi maestri Pinter e Mamet.

Al centro della maggior parte delle sue produzioni (nel cinema come nel teatro) ci sono uomini e donne che ciecamente vagano in balia dei propri impulsi, strappati dalla propria intimità per mano di norme o vizi sociali. L’incontro tra questi atomi perduti ed erranti è quasi sempre impossibile o comunque irto di difficoltà, soprattutto quando di mezzo si interpongono anche ignoranza, razzismo e religione. Nel vero e proprio debutto di LaBute, Filthy Talk for Troubled Times – scritto nel 1989 come lavoro finale del suo percorso di studi alla University of Kansas – assistiamo a un intrecciato susseguirsi di monologhi sulle abitudini sessuali di alcuni uomini: in scena troviamo le nevrosi, le manie e le impotenze di un branco di giovani apparentemente senz’anima. Emerge un vuoto relazionale incolmabile che sfocia nella denigrazione dell’altro sesso – celebre la battuta «I could never trust anything that bleeds for a week and doesn’t die», ripresa poi anche nel fortunato In The Company of Men.

D’altro canto nei confronti dei suoi detrattori, la reputazione di misogino LaBute l’ha conquistata proprio con il dramma del ’92 In The Company of Men, storia di uomini d’affari trentenni che abusano dei sentimenti di una donna sorda, dattilografa impiegata nel loro ufficio.

Nel film del 1998 Your Friends & Neighbours, Cary, interpretato da Jason Patric, è il più abietto dei tre personaggi: realmente misogino, altezzoso e pieno di sé. Dopo il solito allenamento in palestra con i due amici, nella sauna si abbandona a una scottante rivelazione: inquadrato in un primo piano che si stringe con l’avvicinarsi del lentissimo carrello, racconta di aver commesso da adolescente uno stupro di gruppo ai danni di un compagno di scuola. Anche in quel primo piano che scava ogni parola del protagonista nei suoi occhi scuri, incombendo a ogni passo verso gli angoli bui e sempre celati dell’essere umano, c’è gran parte del teatro e dell’arte di Neil LaBute.

Andrea Pocosgnich

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