HomeVISIONIRecensioniIl tempo perso e il tempo guadagnato: secondo giorno di Inequilibrio

Il tempo perso e il tempo guadagnato: secondo giorno di Inequilibrio

Colonia ebraica - Foto di Marianna Masselli

Il piacere dell’affresco, nasce quando l’immagine dei luoghi sa raccontarli nella maniera più opportuna e vitale, quando cioè allo sguardo sa restituire il campo semantico di una visione. Ecco allora che questo secondo giorno di Inequilibrio non può non fermarsi in un posto laterale, lontano due km appena dal Castello Pasquini eppure vivacizzato dalla presenza di artisti, lavoratori del festival, che siano tecnici o stagisti dell’organizzazione, e anche qualcuno di noi che forse è qui perché se ne dia conto: la colonia ebraica che ospita i giorni e le notti del festival, al centro di un’assolata campagna. Di questo si deve parlare oggi, perché la vitalità si trasferisce nei luoghi quando sono abitati dal pensiero e dal bisogno di condivisione. È questo che ha sempre reso questo festival esclusivo, diverso dagli altri: una volta era solo il bosco del castello, dove si poteva passeggiare e discorrere, pensare e maturare, quella densità del tempo perso che proprio perdendosi si riguadagna moltiplicato; ora invece il boschetto senza castello è fatto di fronde ombrose che separano dai campi soleggiati, di cicale imperiture che declamano il giorno, di pace silenziosa nella notte che attende.

Tagliarini/Deflorian - Foto di Marianna Masselli

Da questa finestra si vedono i campi di grano e i covoni rotondi di paglia, qui in mezzo gli alieni ci avrebbero fatto disegni, gli uomini ci hanno costruito uno spazio di comunità. Questione di priorità e inclinazioni. I pini sono molto alti ed è proprio nel mezzo che tra i tavoli e le panche ci si trova per i pasti o per non meno nutrienti atti di pensiero: ho incontrato qui, Marzena Borejczuk, traduttrice polacca del libro di Mariusz Szczygiel da cui è tratto Reality; era qui con l’attrice e co-autrice dello spettacolo Daria Deflorian ed è bastato un caffè diviso in tre perché ci perdessimo a rintracciare nell’effluvio delle parole i detriti di pensiero che scendono verso la valle della condivisione: Daria aveva letto un breve saggio, La società della stanchezza, ci diceva di quanto fosse stato importante leggerlo, scoprire l’ovvietà del proprio rincorrere il lavoro rutilante, senza pause, senza comprensione del proprio stato di lavoratore, lo sfinimento cui ci riduce l’autoimposizione di lavorare ovunque e comunque, ad ogni condizione; questa stanchezza, si ragionava, è frutto della struttura dell’uomo moderno, costruito per dimenticare i fatti riducendoli a notizie, quindi interessanti per il poco che lasceranno il passo alla notizia successiva, Marzena ha detto che la Polonia invece vive ricordando, io le ho detto che proprio questo era l’atto di dimenticare: ricordare, far funerale al ricordo riponendolo nel proprio cassetto preferito, o nel proprio quaderno come la Janina Turek del libro che ha tradotto.

Marzena Borejczuk - Foto di Marianna Masselli

Quando Daria s’è alzata e ci ha lasciato, non abbiamo arrestato anzi alimentando l’intensità del flusso: dimenticare? Non era convinta Marzena, io le ho detto che scrivere, per esempio, è il primo movimento per farlo, l’appunto inchioda al foglio l’accadimento che ci colpisce, fermarlo è fare scudo al suo intervento, tenerlo in una gabbia che – chiuso il dorso del blocco, quaderno, agenda – non sarà più visibile. Ma ben si rammenta, dove si è lasciato. Mi diceva Marzena che ci rifletterà, anch’io le ho detto, perché nulla è fermo ma il ragionamento si affascina e si modifica nel tempo della nostra biologia, ecco perché scrivere sa dimenticare: affida al tempo di continuare il ricordo in un altrove diverso dalla nostra vita che continua a far nascere e morire, cellule e pensieri. Ecco, le dicevo, dopo tanti anni penso al prima ripudiato romanzesco come forse il mezzo più sincero perché dichiara il suo artificio, sa che sta trasformando una materia e non illude d’altro. E la poesia? Ha chiesto Marzena. Ha ragione, se la poesia avesse ora quella densità della parola unica, della detonazione sul rigo, se la poesia fosse ancora quell’arma sarebbe verità e rivoluzione! Se la poesia fosse…abbiamo detto ancora. Quando Daria è tornata ci ha trovato appesi a questo coinvolgimento, lungo percorsi che da Cracovia a Roma sono passati per Castiglioncello: Marzena dagli occhi celesti che mi parla di poesia, con lei questa mattina ho scambiato stimoli e pensieri, guardando lei ho ripensato un poeta come Czeslaw Milosz che proprio a Roma, in Campo de’ Fiori dove è stato arso il filosofo della memoria Giordano Bruno che vide il trionfo del dogma sulla ragione, ragionava egli stesso sulla dimenticanza dei popoli: Finché tutto sarà leggenda / e allora dopo molti anni / su un nuovo Campo de’ Fiori / un poeta desterà la rivolta. Un poeta, sa dire rivoluzione. Ci siamo guardati un’ultima volta, io mi sono alzato con permesso perché dovevo andar via di lì, dovevo aprire questo foglio per scrivere e tutta questa intensità, per averla indietro, iniziare a dimenticarla.

Simone Nebbia

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