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Terra promessa di Marco Baliani. Storia dell’Italia dis-Unita

La storia d’Italia è una materia cui si dedicano molti anni della formazione e della crescita: dalle scuole elementari su approssimativi sussidiari fino ai più approfonditi volumi delle biblioteche universitarie, per quanto sempre più “dispensati” in fotocopie e sottili libelli. Il passaggio di stato – e di valore – nel percorso formativo è rappresentato dal salto dall’apprendimento all’interpretazione, quando cioè dei fatti siamo in grado di sostenere una nostra lettura che ne metta in relazione altri, proponendo un corpo unitario che a quella lettura conferisca credibilità. La passione e forse l’esigenza di dover “fare” ancora gli italiani dopo aver fatto l’Italia da 150 anni hanno proposto lo stesso racconto nelle forme piú svariate: dalle fiction televisive ai film mastodontici di attraversamenti epocali, dalle pellicole d’autore alla letteratura d’ogni genere, dai documentari dossier fino addirittura ai fin troppo esili dialoghi a fumetti di Enzo Biagi. Il teatro – arte che si propone conflitto e disequilibrio – ha usato nelle migliori espressioni l’idea di rappresentazione storica a fini proprio di discussione, svolgendo quel suo ruolo sia comunicativo che interpretativo per sempre fornire uno sguardo ulteriore, diverso dal già noto. Ma non è sempre così, più nelle produzioni aumentano le economie, maggiore pare la paralisi in cui incorre la possibilità di fare un prodotto che rispetti questa caratteristica del lavoro scenico. Sembra sia necessario fidarsi di modalità che riguardano altri linguaggi come la fiction o la documentaristica sopra le parti, quindi incapaci di generare un’idea di teatro che affronti questa materia con forza di penetrazione.

Questa sterilità, questa vacuità di contenuto e drammaticamente di forma teatrale – quindi di interesse alla riproposizione di una materia, proprio dalla storia immobilizzata nella sequenza degli eventi e dunque anche più bisognosa di nuova linfa interpretativa – è lo scoglio in cui si va ad incagliare l’intero progetto immaginato nell’ambito delle celebrazioni per il 150° dell’Unità d’Italia da Marco Baliani (con l’aiuto di Ugo Riccarelli e Felice Cappa): tre spettacoli lungo due stagioni che raccontino passaggi determinanti della nostra lunga e travagliata storia. Il primo è stato Piazza d’Italia, lavoro di compagnia tratto dall’omonimo romanzo di Antonio Tabucchi, del 1975, poi è La Repubblica di un solo giorno, drammatizzato da Maria Maglietta, sulla Repubblica Romana del 1849; entrambi gli spettacoli sono stati prodotti nel 2009-10 dal Teatro di Roma. Il terzo e ultimo invece è Terra promessa. Briganti e migranti, prodotto nel 2011 dal CRT Artificio di Milano, che narra le vicende del brigante Carmine Crocco, con in scena lo stesso Baliani e inserti video di altri attori in abiti d’epoca (Salvo Arena, Aldo Ottobrino, Naike Anna Silipo, Michele Sinisi), drammaturgia sempre di Maria Maglietta e regia di Felice Cappa, con le musiche di Mirto Baliani. Solo in scena, l’attore si fa narratore e conduttore insieme di un ipotetico programma televisivo che rimanda a collegamenti storici con personaggi passati; infine lui stesso penetra lo schermo talvolta, come una sorta di documentarista che passa nelle pietre del passato (un po’ alla Alberto Angela). Quest’uso dello schermo a fini proprio televisivi è probabilmente l’elemento più caratterizzante, tanto che lo spettacolo ne risente sia per stile che per contenuto.

Senza dubbio e in misura determinante già di fronte alla parola celebrazione il teatro ha smesso di essere presente nel progetto e stupisce non ci si accorga che le due parole sono antitetiche, ma è il connubio di forma e contenuto ad annientare la proposta: nei primi due lavori la resa scenica era affidata a un preoccupante uso della didascalia, una piattezza di contenuto che minava l’intero contenitore, pur tenuto in piedi da attori di rango che in quella occasione restavano come mutilati. L’uso di linguaggi da fiction televisiva e una conoscenza della materia che non si lasciava apprezzare per acume componevano due spettacoli gemellari e intellettualmente inerti (ma il secondo riesce a mantenere una certa godibilità estetica e si mostra più generoso), nei quali si riteneva opportuno fornire un quadro della vicenda immobilizzato in una visione conservativa di mero realismo rappresentativo. Questa volta si aggiunge addirittura lo schermo che, se possibile, peggiora la situazione annientando i semi di discussione, che pure dovrebbero alimentare un dibattito mai affrontato davvero: in quest’epoca sfilacciata è il teatro fra le arti che maggiormente si lancia a gridare su un silenzio disarmante, cerca di far detonare un gioco di consenso imbelle che affoga questo paese. Così ha fatto Ascanio Celestini con Pro patria (in cui il personaggio interlocutore, Giuseppe Mazzini, si tira fuori dalle celebrazioni a suo nome), l’ha fatto Daniele Timpano con Risorgimento Pop cercando nelle pieghe della retorica scolastica una nuova (o forse antica e veritiera?) chiave di lettura storica, lo fa da anni Gaspare Balsamo che mette la sua musicalità vocale al servizio di un racconto concreto e doloroso, lo fa, soprattutto al sud, tutta una schiera di artisti abituata a raccontare zone e territori che mai hanno visto davvero Unita quell’Italia. A questo punto “mettere in scena” il Risorgimento, nell’accezione più negativa della locuzione, è un intento categorico che ‘stavolta volta chiude in caselle di rappresentazione addirittura i briganti contadini che aspramente hanno combattuto per la propria terra fino a essere costretti alla migrazione. Trattato in una forma che si definisce non pacificata e non lineare, ma che sembra invece linearissima e pacificata in una ben precisa idea folkloristica, un tema già di per sé scottante e urgente finisce anch’esso imbrigliato a farsi patetica adesione a un concetto da non discutere, in cui piuttosto riconoscere la propria buona, ma retorica, disposizione d’animo.

Da pochi giorni si sono chiusi i festeggiamenti per questa Unità. Lustri e parate, alte parole di politici con la voce tremolante, grandi interpreti e comici “una volta” guerrieri (prestito distorto e sottratto a Stefano Benni) hanno ciecamente rappresentato un consenso, cui l’arte rifugge con forza pari a un uragano. Quando ce n’è, quando possiamo definirla tale. Altrimenti, appunto, la chiameremo celebrazione.

Simone Nebbia

In scena fino al 25 marzo 2012
Teatro Palladium [cartellone] Roma

TERRA PROMESSA. BRIGANTI E MIGRANTI
Uno spettacolo di Marco Baliani, Felice Cappa, Maria Maglietta
con Marco Baliani e Salvo Arena, Naike Anna Silipo, Aldo Ottombrino, Michele Sinisi
drammaturgia Maria Maglietta
musiche Mirto Balianistrong

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Simone Nebbia
Simone Nebbia
Professore di scuola media e scrittore. Animatore di Teatro e Critica fin dai primi mesi, collabora con Radio Onda Rossa e ha fatto parte parte della redazione de "I Quaderni del Teatro di Roma", periodico mensile diretto da Attilio Scarpellini. Nel 2013 è co-autore del volume "Il declino del teatro di regia" (Editoria & Spettacolo, di Franco Cordelli, a cura di Andrea Cortellessa); ha collaborato con il programma di "Rai Scuola Terza Pagina". Uscito a dicembre 2013 per l'editore Titivillus il volume "Teatro Studio Krypton. Trent'anni di solitudine". Suoi testi sono apparsi su numerosi periodici e raccolte saggistiche. È, quando può, un cantautore. Nel 2021 ha pubblicato il romanzo Rosso Antico (Giulio Perrone Editore)

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