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Atlante XVI – Fotografia e Teatro arti gemelle

Run – foto di Futura Tittaferrante

Quante volte può avere luogo la riproduzione? Come un rabdomante dell’emozione Roland Barthes s’avviò nei meandri de La camera chiara (1980), cercando di definire per sé e – facendone filosofia – per tutti, la relazione fra l’occhio e la fotografia, l’immagine che cattura un istante nel momento della sua morte, riproducendolo all’infinito vivo e morto a un tempo soltanto. Tramite questo assunto dunque è assai facile rintracciare una prossimità coinvolgente fra la fotografia e il teatro, là dove l’artificio espresso è definizione di veridicità: il vero due volte, non realistico ma trasformato in arte, impone l’affondo nella percezione e quindi nella riflessione, così che rappresentare non è porre in immagine la verità ma interpretarla, da sé stessi attraversata: solo in questo modo possiamo arrivare a dire, con Barthes, che “ciò che si vede su carta [e in scena NDA] è tanto sicuro come ciò che si tocca”, anche se e forse proprio per questo: deperibile è la carta quanto volatile è il teatro, non riproducibile tecnicamente eppure che vive della sola riproduzione.

È così che Atlante passa questa volta dalla fotografia, l’arte per eccellenza del ‘900, così vituperata in questi anni e che l’ambiente teatrale usa in maniera fin troppo sciatta, a semplice corollario di articoli fiume, solo per interrompere e ridurre la famosa colata di piombo. Ma già negli ultimi tempi sono stati molti gli spazi di condivisione: uno stimato collega, Massimo Marino, non abbandona quasi mai la possibilità di ritrarre spettacoli e festival con i suoi scatti, da un paio di anni una compagnia di Forlì, Città di Ebla, sta costruendo un progetto di raccordo con la fotografia direttamente in scena – presa diretta – per l’occhio e il corpo assieme di Laura Arlotti, sullo straordinario racconto The Dead, di James Joyce. Così anche noi, mossi da fortunati incontri, abbiamo iniziato un percorso che ne rivaluti la funzione, riportando la fotografia dove le compete: da poche settimane infatti abbiamo iniziato una collaborazione con una fotografa di scena, Futura Tittaferrante, convinti non solo che i suoi scatti potessero accompagnare meglio alcuni nostri articoli, ma che proprio l’attraversamento della fotografia potesse dar conto della scena come e più della nostra penna. Ne sono nate due pubblicazioni e altre ne verranno, di racconti fotografici col proposito di innescare una visione critica.

Orientale – foto di Futura Tittaferrante

In una casa del corso principale di Bologna – definita Maison 22, ma è quella dove lei abita – una mostra ne è stata consacrazione: gli scatti di Futura – in quelle stanze assieme alle tre immagini che la compagnia Teatro Deluxe ha rubato al suo viaggio newyorkese e che con sapiente lucidità hanno saputo cogliere l’America di oggi, lasciando di fianco ai riquadri gli oggetti con cui essi si sono autorappresentati: lo svelamento dell’artificiale che si impone per limpidezza – erano inseriti in un contesto che cercava relazione tra lo spazio fisico e quello di rappresentazione, perché entrambi muovessero lo spazio mentale della percezione. Le immagini erano dunque commisurate a un disegno più complesso: ridotte in una cornice fatta di materiale riciclato, ne debordavano oltre e così la foto di una sedia su un terrazzo a balaustra in cui una ragazza corre sfumando la sua presenza (la macchia, la firma dell’occhio che fugge dalla fotografia), finiva in scala con le sedie vere sotto la cornice appesa, allo stesso modo quella relazione trans-spaziale si avverte quando la cornice in cui un uomo anziano siede la sua scomodità esistenziale su una sedia di plastica è invece poggiata idealmente sopra un divano senza cuscini.

Ancor di più è visibile nella seconda stanza, dove la relazione sceglie le immagini di Atlante del bianco di Virgilio Sieni (spettacolo in cui a danzare è un danzatore cieco), un primo piano in cui domandarsi dove sia la cecità, se può la fotografia coglierla, al modo in cui il letto sotto la cornice, totalmente bianco, svela il suo interno nero; di fianco ad uscire l’immagine di una bambina – ossia l’occhio nella sua vita vergine – e infine uno specchio in cui riflettere e dirsi che questa volta, l’ultima foto, sono io. Ma non si esce ancora, perché attraverso di lei si dovrà passare, nella sua stanza confusa di tanti oggetti e foto disperse, nascoste nello spazio, in cui tanti sono i segni del suo attraversamento e tutto attraversa lei, tutto è dell’ambiente, della persona, che intera è anche in tutti quegli oggetti, foto comprese; “la città esplode di teatro”, è scritto, ma ciò che s’intende è che lei stessa di teatro esplode, quel che c’è attorno è l’artificio di sé, la propria rappresentazione al mondo, il proprio personale teatro. Ecco allora tornare alla prima stanza, quella foto non compresa all’inizio: sul pavimento un cumulo di terra, nel riquadro lo scatto obliquo di una propria fotografia colta nella rappresentazione di sé stessa, appesa in un’altra mostra, cercando di coglierla tra la cornice che la imbelletta e il muro graffiato che la tiene su: tra la terra e la sospensione, nello spazio fra la cornice e il muro alle spalle, si annida lo sguardo che svela sé stesso: ossia, il teatro.

Simone Nebbia

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