Ipercorpo. C’è un cartello appeso sul muro sgranato d’azzurro spento, su una parete del Deposito ATR che ospita questo festival forlivese per la prima volta, con su scritto “Attenzione alle trasmissioni”. Certo, mi dico, chi è qui alle trasmissioni fa attenzione, almeno quelle televisive della riconoscibilità coatta e del consenso indicizzato, ma poi sul consiglio rifletto e mi sembra non sia qui il punto: questo è un luogo di contagio, mi diceva tra le cose il suo direttore Claudio Angelini, e allora l’attenzione credo sia proprio a questa trasmissione, quella che stimola a una partecipazione (che non è consenso), ma l’attenzione è che avvenga, non che ne manchi il contagio.
Si fanno all’olfatto vecchi lubrificanti e carburanti rappresi nei muri, l’intonaco graffiato lascia macchie scure e ombreggia un bianco smarrito tanti anni prima, la ruggine attorno alla ferraglia lasciata senza il bisogno che il metallo fosse lucido. Sono quindici anni che è così, questo vecchio deposito di bus che ha conservato un paesaggio, in complicità con il tempo. Questo paesaggio sudato è lo stesso che vedo sugli abiti degli artisti che lo stanno attraversando, si sporcano mentre montano i loro spettacoli, le loro performance e installazioni, passano per uno spazio che risuoni dell’urlo e del silenzio – che dell’arte sono medesima voce – perché se ne attesti presenza futura. Questo è un atto politico. Prendersi responsabilità dei luoghi e tradirli a nuovo uso, il solo modo di rispettarne il senso intimo. Lasciare nei posti una scia smarginata di sé, e insieme portarseli via.
All’ora in cui non s’immagina l’ATR è già vivo, pulsa di quella che chiamerei “energia rinnovabile” (suggerito da un pensiero postumo alla conversazione con Marco Valerio Amico del gruppo nanou), sapidità dell’esperienza ch’è un sorso d’acqua di mare: rinnovabile è quel gesto che ne genera un altro, fisica applicata alle relazioni umane, scarto espressivo che dalla rugosità apparente svela un sorriso di risonanza. Tutto questo è più vero mentre Marcello Balzani, architetto direttore di Paesaggio Urbano, con Silvia Mei presenta il suo libro La malefica materia e il tradimento del paesaggio, col proposito di una nuova e più razionale urbanizzazione, che del paesaggio amplifichi le potenzialità immanenti, è vero mentre ascolto e mi guardo attorno là dove si mescolano i cartelli di divieto e di pericolo alle installazioni minute che intersecano un paesaggio da attraversare conservandone il segno e ponendolo così in relazione alla contemporaneità: c’è nel mezzo della sala un bus immobile da quel tempo antico, un’esplosione di cose nascono da lui, tutto ciò ch’è stato da allora in poi, a intervalli l’interno dei sedili si riempie di fumo, un intervento lo rinnova, come fosse un teatro classico che ad intervalli si fa contemporaneo, come un segno dell’evoluzione.
Abitare uno spazio implica una volontà di essere ed essere in un preciso luogo, ognuno che entra non sa di essere – eppure è – un corpo pulsante e reagente all’arte e allo spazio. Il teatro immaginato qui dentro è questo corpo nel corpo più grande: quattro i corpi dei Muta Imago che portano il loro Displace#1 La rabbia rossa a vibrare dentro queste sale l’inquieta duplicità del giudizio sulla società contemporanea in disfacimento, la violenta connivenza insieme all’indifesa sottomissione al male degli uomini a se stessi; un solo corpo è quello di Paola Bianchi, Erbarme Dich è il disagio, la fatica soffocante del vivere appena.
Il primo giorno mancava la corrente in alcuni spazi, l’organizzazione del festival aveva risolto con candelabri vecchio stile e candele di cera. Vecchi rimedi generano novità. Così come vecchi sono i lavoratori dell’ATR, oggi in pensione: quanti di loro si sono affacciati a quella serranda in questi giorni, curiosi sulla soglia del “loro” Deposito: è qui il segno distintivo di un’esperienza che rinnova il tempo nella continuità spaziale, viene da dire, come fosse questa la straordinaria resistenza dei luoghi al tradimento speculativo deturpante, la riconoscibilità oltre l’intervento, perché di essi non resti che lo spazio d’incontro dove l’uomo, soltanto vivendolo, l’uomo ritrova. Ecco qui, il contagio.
Simone Nebbia
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Questo contenuto è parte del progetto Situazione Critica
in collaborazione con Il Tamburo di Kattrin