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Macadamia Nut Brittle: la disperata ricerca dell’ amore in un purgatorio mediatico e consumistico

macadamiaFisicità: gli attori di Ricci e Forte sono già in scena quando il pubblico entra, in fila, uno dietro l’altro mimano la classica partitura gestuale degli assistenti di volo. Durante tutto lo spettacolo non si risparmieranno mai, recitando col fiato corto, declamando al microfono col battito a mille, rincorrendosi, sudando vivranno i loro corpi come fosse uno solamente.

Sessualità: esplicitata sin dall’inizio, sin da quando il numeroso pubblico cerca il posto nella sala del Piccolo Eliseo, il tappeto sonoro è il continuo sbattere dei corpi, l’uno sull’altro, l’eterno mugolio di due anime. Sesso come componente biologica dalla quale non si può prescindere, presente in ogni attimo della vita, sesso come approdo di un appuntamento iniziato al McDonald’s, come rifugio dalla solitudine. Sessualità raccontata nella sua meccanica, nella sua sporcizia, negli elementi liquidi.

Drammaturgia dei soliloqui: se i corpi tra di loro sono protagonisti di un di logorroico dialogo instancabilmente accelerato, la parola trova nel monologo il suo status espressivo. Non c’é dialogo, non per incapacità, o comunque non solo, dell’elemento dialogico nel rappresentare la realtà, ma soprattutto per una precisa volontà di epicizzare l’elemento narrativo.

macadamia-1Società dei consumi: siamo anime erranti chiuse in un ipermercato senza uscita, siamo dei tossici alla ricerca dell’enesima dose di serie tv, non ci bastano i 15 minuti di Warhol, vorremmo l’eternità, voremmo essere tutt’uno col plasma delle nostre maxi tv. I primi 10 minuti di questo Macadamia Nut Brittle di Ricci Forte sei lì che ti ripeti: “certo questi parlano solo di tv, fanno battute sui vip e su quel mondo così apparentemente lontano dal teatro che noi tutti i giorni viviamo”, poi capisci che è una sintassi. E’ il loro linguaggio, certo ad alcuni potrebbe suonare come banale, superficiale fino a un urticante fastidio, altri potrebbero cogliere una volontà espiativa rispetto alla parallela esperienza televisiva dei due autori. Ma non siamo sempre lì tra di noi a dirci quanto il teatro dovrebbe scuotere, quanto dovrebbe mettere in luce o alla alla berlina le distorsioni della società specialmente quando queste arrivano non da un’autentica evoluzione, altresì sono frutto di processi spinti dal solo motore economico? E allora ben venga la sovraesposizione teatrale dei marchi, dei divi incelofanati, degli stralci dei giornali nei quali rientra anche la recente contrapposizione tra Carla Fracci e il Sindaco Alemanno.

Questi solo alcuni degli elementi sensibili di Macadamia Nut Brittle spettacolo scritto da Stefano Ricci e Gianni Forte (con la regia del primo) omaggiando Dennis Cooper, in scena fino al 30 maggio 2010 al Piccolo Eliseo di Roma. Ma come non evidenziare proprio il fattore “evento” che si è creato attorno a questo spettacolo, come non considerare il fiume di spettatori in fila per un biglietto alla prima e poi a fine spettacolo di nuovo in coda per salutare o conoscere i due artisti, il lungo applauso dopo il finale con quella tragica ironia dove i 4 protagonisti ricoperti da rivoli di vernice rosso sangue si chiudono nelle proprie tende colorate indossando ognuno la maschera di un personaggio dei Simpson, e poi sempre quell’applauso che diventa un ritmico battito di mani sull’ennesima musica accattivante. Come dar loro torto, rapiti al cuore da uno spettacolo frastornante, vivo di un continuo movimento, guizzante in una scrittura che salta da iperboliche similitudini a disperanti versi di tragica poesia. Come non applaudire proprio i corpi sporchi, sudati di quei quattro attori presi nell’interpretare l’Uomo in una lancinante rete di relazioni: i rapporti di coppia furenti ed effimeri, la profonda solitudine, il cupo, nero e fobico sguardo del bel paese sull’omosessualità visto dagli autori come un coltello piantato proprio lì dove l’amore ha la sua sporca origine, dove non batte il sole sui due amanti che si aggrappano ognuno alle labbra dell’altro.

Andrea Pocosgnich

in scena fino al 30 maggio 2010
Piccolo Teatro Eliseo [Vai al programma]
Roma

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Andrea Pocosgnich
Andrea Pocosgnichhttp://www.poxmediacult.com
Andrea Pocosgnich è laureato in Storia del Teatro presso l’Università Tor Vergata di Roma con una tesi su Tadeusz Kantor. Ha frequentato il master dell’Accademia Silvio D’Amico dedicato alla critica giornalistica. Nel 2009 fonda Teatro e Critica, punto di riferimento nazionale per l’informazione e la critica teatrale, di cui attualmente è il direttore e uno degli animatori. Come critico teatrale e redattore culturale ha collaborato anche con Quaderni del Teatro di Roma, Doppiozero, Metromorfosi, To be, Hystrio, Il Garantista. Da alcuni anni insieme agli altri componenti della redazione di Teatro e Critica organizza una serie di attività formative rivolte al pubblico del teatro: workshop di visione, incontri, lezioni all’interno di festival, scuole, accademie, università e stagioni teatrali.   È docente di storia del teatro, drammaturgia, educazione alla visione e critica presso accademie e scuole.

28 COMMENTS

  1. se qualcuno vuol parlare con me di questo spettacolo e ha il mio numero non esiti a chiamarmi. Certo, era meglio subito dopo la visione. Ora son tranquillo e rilassato. Ma magari qualcosa di divertente mi torna su dallo stomaco. Baci e abbracci e complimenti.

  2. Non posso pronunciarmi pubblicamente, sono un po’ un personaggino pubblico anch’io, no? son passati i tempi in cui ci si poteva permettere la piena sincerità. Posso dirti che miè piaciuta molto la scena finale e molto la scena dello scuoiamento del coniglio (anche se l’ho trovata un po’ rovinata dalla successiva volontà di esplicazione, nella scena che segue, una delle tante in cui qualcuno dice cose poco interessanti ma ben scritte al microfono), che è tutto molto bello, anche se un po’ troppo lungo ed eccessivamente monocorde, quanto a tematiche, che l’ho trovato sotto sotto un po’ puagnucoloso e moralista, nonostante l’eccesso di sangue e sperma possa far pensare il contrario, che da venerdì non riesco a guardare in faccia nessuno senza immaginarmelo coperto di liquidi spermatici, il che non mi fa piacere, che complessivamente mi ha un po’ irritato, perché bastava pochissimo per farne uno spettacolo che – personalmente – avrei potuto amare anch’io e molto, e invece (pur con tutta la stima e l’affetto e la curiosità a venire) ho sofferto come raramente si può soffrire giù in platea. D’altronde non mi piace nemmeno Cooper, che trovo un po’ infantile e adolescenziale (in senso negativo), quindi di certo è un problema mia di sessuofobia. Quindi invece di parlar degli spettacoli sessuocentrici degli altri farò meglio a cominciare ad andar dall’analista, anche se mi sembra una cosa tanto demodé… hai da consigliarmene uno bravo?
    Per dettagli o per un esaustivo pamphlet non ti resta che chiamarmi. Giudica tu sulla pubblicabilità di questo mio post un po’ severo..

  3. Sul moralismo.
    Non sono scandalizzato (e da che? dall’orgia FINTA?), se no sarebbe per loro una mezza vittoria su di me, creare scandalo nel piccolo borghese Timpano, no no no, è proprio che l’operazione spettacolare è di un profondo moralismo (anche se si potrebbe parlare anche dell’amoralità di certe scelte accattivanti, nell’utilizzo delle musiche ad esempio: la canzoncina dei Queen etc) che si presta benissimo a discorsi ridicoli e banalizzanti su queste generazioni di giovani senza valori, infelici, poverine, ossessionate dal sesso e da facebook, dagli sms etc. Poi, quanto al resto, se avessi mille cappelli me li toglierei tutti quanti per rispetto e mi inginocchierei in ginocchio sui ceci a chiedere perdono per le mie povere critiche psicotiche…

  4. Ho visto ieri sera Macadamia Nut Brittle e sono ancora sconvolta. L’ho amato davvero moltissimo nella sua semplicità e nella sua ricerca di azzeramento attraverso il “consumo”. Uno sguardo di poesia diretta che uncina il cuore sbriciolandolo in polvere.

  5. Che ti devo dire, Giovanna… non sono d’accordo, ma purtroppo non siamo tutti uguali, le sensibilità posson esser diverse, e anche le psicologie e le esperienze. Sei una ragazza fortunata 🙂

    • Di sicuro quello che dice Daniele è vero: Macadamia agisce in molteplici modalità sulla pelle dei vari spettatori e forse anche questa è la cosa positiva. Ovvero, quanti spettacoli che non ci sono piaciuti poi non ci hanno neanche stimolato una briciola di ragionamento? Questo invece ci riesce, stimola la discussione e il dibattito per tanti motivi, se poi trova uno spettatore che per una sua sensibilità si trova maggiormente predisposto ad abbandonarsi a quel sistema comunicativo ed emozionale allora il gioco è fatto.

      Poi subentrano anche altri condizionamenti che a mio avviso però non sono psicologici come invece dicevi nel tuo caso, ma probabilmente riguardano più che altro il nostro rapporto con l’arte contemporanea e quella degli anni passati, ovvero la nostra anagrafica artistica. Intendo tutte le esperienze che abbiamo avuto rapportandoci con una performatività simile. Vi faccio un esempio: qualche giorno fa parlavo con un tuo collega Daniele, non faccio nomi a meno che non venga lui stesso a partecipare alla discussione, e confrontandoci proprio sulla questione Macadamia lui mi diceva di non esserne rimasto colpito più di tanto perché quella teatralità la vedeva come il solito cliché usato fin dagli anni ’70 per cercare di scandalizzare le platee. Forse è anche vero, per questo dico che conta anche l’anagrafica, la mia generazione molte di quelle esperienze se l’è perse…

      La forza dello spettacolo è innegabile, la presa su gran parte del pubblico è sintomatica… magari ogni serata a teatro finisse con la festa di applausi e gente in delirio come nel loro caso!

  6. la prima volta che ho visto Macadamia Nut Brittle ne ho provato fastidio, all’amica che era con me, e che tanto entusiasticamenente mi aveva portato a teatro non ho saputo rispondere se ciò che avevo visto mi fosse piaciuto o no.
    vedo tanto teatro, tutto quello che riesco a non perdere, da 30 anni. Ho visto l’evoluzione della drammaturgia italiana contemporanea, la ricerca, la provocazione dei Grandi. Penso di potermi reputare una fruitrice attenta. Ultimamente devo riconoscere che è difficile per me trovare uno spettacolo che, a fronte dei 10/20 euro pagati per l’ingresso, mi dia da portare via con me, qualcosa in più rispetto alla ricevuta stropicciata di un biglietto.
    Macadamia Nut Brittle, la prima volta che l’ho visto, mi ha fatto dono di un fastidio, che è durato oltre il tempo della pizza dopoteatro, e si è ripresentato la mattina dopo e quella dopo ancora. dopo due giorni ho deciso che dovevo rivederlo, da sola.
    Il mio fastidio non era causato dalle scene volutamente provocatorie, ma dal sentire che quella, lì sul palco, non era la storia di qualcun’altro, ma la mia. Io, ultraquarantenne figlia del boom anni sessanta, cresciuta con la speranza e ricapitolata ad un nichilismo che non è della mia generazione ma che vivo in apparenza come se lo fosse. Io che non riesco più a disfarmi di una corazza fatta di illusioni se non quando la vita mi mette alle corde davanti ad una sofferenza che DEVO gestire razionalmente per non farmi risucchiare dal baratro della depressione. Io che quando incontro un amore, una passione, una qualsiasi cosa in cui credere mi ci butto con tutta me stessa diventando a volte cieca e sorda alle percosse, alle violenze che io stessa permetto.
    Mi avevano preparato a questo spettacolo dicendomi che il gruppo sta diventando un’icona del teatro omosessuale, e vedendolo capisco perchè, ma io, donna eterosessuale, ringrazio questa parentesi che mi ha saputo ritrarre, in quanto donna, essere umano, madre, in tutte le mie debolezze, ma anche nella bellezza di poter ancora soffrire, di poter ancora palpare un’emozione che non mi fa sentire giudice ma neanche giudicata.
    In questo credo consista la grandezza dei due autori, nel saper spiatellare la società senza assurgere al podietto da cui lanciare di sotto la merda, nel non approfittare dell’ora e un quarto a disposizione per dire quanto si è migliori degli altri. Noi siamo gli altri, e mai come in questo spettacolo gli altri, quelli che non ci piacciono, che appaiono in televisione nei talk show da quattro soldi, gli opinionisti, le attricette drammatiche, le veline, i politici, sono, di fatto il nostro specchio.
    Io penso, senza pudore, che Macadamia Nut Brittle sia un capolavoro, e penso che ricci/forte siano spietatamente e generosamente gli autori più capaci che il teatro italiano possa vantare in questo momento di confusione intellettuale. Bravi tutti gli attori, che non si risparmiano e regalano se stessi con una maestria impressionante, tutti, i tre ragazzi bellissimi e inquietanti nella contraddizione tra il loro aspetto puro, a tratti angelico, e la violenza di cui sono capaci, e bravissima Anna Gualdo, meno giovane, mia coetanea, strepitosa interprete della mia generazione, da oggi un mito.
    grazie, per avermi donato qualcosa che non sapevo fosse così necessaria, che non pensavo potesse arrivarmi mai e poi mai dal teatro, che non credevo potesse scuotermi così profondamente, che non…

  7. dopo tantissimi anni che faccio teatro ancora non riesco a capirne alcune logiche: questo spettacolo di Ricci/Forte è un buono spettacolo dove però non c’è un’idea che non abbia già visto abbondantemente nei tanti ambiti di “ricerca” o nuova drammaturgia frequentati da dieci quindici anni a questa parte. Nulla di nuovo, nulla di sconvolgente. Non che la novità debba essere un valore, tutt’altro, ma il clamore critico che ha accompagnato questo spettacolo mi dava aspettative evidentemente esagerate e abbondantemente tradite. Insomma, bravi, bello, divertente, profondo, ma nessuna giustificazione a tanto vociare.
    Inizio a pensare seriamente che il teatro di ricerca italiano sia l’unico ambiente dove gli eterosessuali abbiano qualche possibilità in meno degli omosessuali

  8. che poi mi rendo conto che il mio giudizio non dà il giusto merito allo spettacolo. Nel senso che ero stato troppo predisposto al “capolavoro assoluto” dalla grande quantità di iperboli utilizzate dal pubblico e dalla critica. Se l’avessi visto quindici anni fa sarei anch’io tra gli entusiasti ma oggi…
    Trovo che sia stato costruito con una struttura spettacolare splendida, con una partenza in sordina ed un finale davvero maestoso. Per il resto, la drammaturgia non mi ha colpito particolarmente (ma so di tante competenti persone che sono rimaste a bocca aperta), nel senso che la definirei “ovvia”, ben fatta ma anche scontata. Le parti a monologo mi sono sembrate noiose. Decisamente più interessanti i dialoghi, ben diretti e ben armonizzati col movimento scenico. Infine… mi scusino gli autori se sono troppo duro, ma le scene di sesso erano inguardabili. Chissà? Forse era proprio questo che volevano? Ridurre ciò che un tempo era la naturale esplicazione dell’amore ad un atto brutto, frettoloso e consumistico? In questo caso ci sono riusciti, ma la cosa per me non funziona perché prima di dissacrare il sesso in scena occorrerebbe sacralizzarlo, ed è un’operazione che ancora non ho mai visto fare da nessuno.

  9. Anch’io penso che la novità non sia un valore in sé, anch’io riscontro il clamore un po’sproporzionato ma – essendo in effetti, nonostante tutto, un bello spettacolo -non ingiustificato, però non penso che il problema sia strettamente l’omosessualità o meno e la sua utilità nel demimonde del teatro (e perché, in quello della televisione?), a me il problema invece sembra proprio il funzionamento di questi “clamori critici” (e peggio ancora degli analoghi e ben più importanti “passaparola degli operatori”). Il clamore critico crea l’evento, ma anche lo certifica, e l’evento non strettamente ha a che fare con la sua intrinseca eccellenza, l’evento è l’evento. Basta sia un buon lavoro. Se è un buon lavoro come questo di Ricci/Forte o come quelli dei Babilonia non mi indigno più di tanto. O non mi indigno. Molti spettacoli di quelli che ho visto negli ultimi 10-15 anni penso sinceramente che potessero ambire a destar entusiasmi in un pubblico più largo, o nella critica, o tra gli operatori. Spesso così non è stato, o molto limitatamente. Quanti peli nell’uovo magari son stati trovati in tanti lavori, chiudendoli fuori da un riconoscimento di “eccellenza” (una parola orribile che sento spessissimo sulle bocche di operatori e critica, che di solito equivale a dire che il prodotto può vendere), viceversa su quante piccole furberie e mediocrità si è chiuso l’occhio pur di condedere lo stesso riconoscimento a qualcun altro?
    Vabbè, come direbbe un mio amico, che cripticamente cito non a caso:
    “Comunque…”
    A presto, buone discussioni, vado a guadagnarmi un po’ di pane.
    Baci pudici e casti, senz’ombra di sesso. Mr Pene l’ho lasciato da Ricci e Forte. Addio.

  10. L’HO VISTO LA PRIMA VOLTA AL BELLI E L’HO AMATO ANCORA DI PIU’ ALL’ELISEO. DIVERTITO E COMMOSSO. MI HANNO TRASCINATO DENTRO LA MIA VITA “DISPERATA”: GRANDIOSO LO SPETTACOLO E GRANDIOSI GLI ATTORI CON IN VETTA WONDER WOMAN!

  11. Io sono d’accordo con Timpano. Lo spettacolo è funzionale dal punto di vista di alcune immagini, ben costruite, di riflesso Latelliano/Emma Dantiano/Raffaello Sanziano…ma incapaci di stare assieme in qualcosa di unico (e lungo) come uno spettacolo. Gli attori sono formidabili. L’orgia è un troppo che sporca (per carità, senza scandali, anzi pure grottescamente divertente!) e la scena del sangue è formidabile. I monologhi sono fantastici. Così come i microfoni. Mi aspettavo qualcosa di più innovativo, invece è già (sigh) tutto quasi visto.

  12. Ho visto lo spettacolo. Penso che siamo di fronte all’ennesimo fenomeno teatrale portato avanti da una certa critica e da un pubblico digiuno di teatro che si impressiona per performance di vecchia avanguardia. Dateci qualcosa di veramente nuovo! Basta ricicli, o se dovete proprio ispirarvi ad una tipologia almeno rendetela propria e onesta!

  13. Sono Antonio e, per collegarmi al messaggio precedente di Fabio, sono eterosessuale e contemporaneamente pazzo dei lavori di Ricci/Forte, incluso l’emozionante Macadamia. Non conosco le abitudini sentimentalsessuali dei gruppi di ricerca ma francamente preferisco fermare la mia attenzione su altro. Non credo che sia indicativa di possibilità la sessualità ma la pochezza (o la presenza, come in questo caso) di talento. Faccio centinaia di chilometri per vederli, come quando sono andato al festival Castel dei Mondi in Puglia e mi sono entusiasmato per il loro kolossal, 100% Furioso, che per me resta attualmente insuperabile.

  14. a me è piaciuto, leggo chi lo critica in questo blog e penso:
    1) non sono uno digiuno di teatro eppure non riesco a capire dove sarebbe in ricci/forte il riciclo… garcia? vi riferite a garcia? perchè io ci trovo delle attinenze, ma non sicuramente un riciclo, sappiate essere più onesti, perchè dire che una cosa non è originale senza dire a cosa secondo voi attinge e ruba, non è corretto.
    2) vecchia avanguardia. chi ne parla in questo blog mi da l’idea che l’abbia solo studiata dai testi universitari. Una cosa va detta, la vecchia avanguardia parlava della visione dei giovani negli anni 70/80, così il lavoro di ricci e forte parla della visione dei giovani anni 00/10. in questo c’è un’attinenza, ma i tempi non sono gli stessi e il modo di affrontare la questione pure. parlare di vecchia avanguardia è inappropriato
    concludo dicendo che tra i vostri commenti c’è tanto fastidio per un lavoro dove il sudore e la bravura degli attori era più che evidente, c’è tanto fastidio per il successo che il pubblico a fine spettacolo ha dimostrato. preferite dire che quel pubblico è settario, ignorante, stupido e modaiolo, piuttosto che farvi da parte e rodere in silenzio.

  15. caro B side, rodere non ho mai roso, non so se han roso altri degli autori di questi interventi ma sono affari loro, il rodere di un successo altrui può anche essere, e nel caso sarebbe anche cosa piccina e disdicevole, ma si puà anche rodere e criticar nel giusto, argomentare abbastanza, quel minimo da non essere zittiti e tacitati da uno che dice minchiatine come quelle che hai scritto tu nell’ultimo capoverso. Per parte mia, il poco o tanto che ho detto ho cercato di argomentarlo, e ribadisco che nessuno toglie nulla a loro e al loro ottimo lavoro. Se uno spettacolo va letto con attenzione, anche le critichine e le polemichette su un blog dovrebbero esser lette con altrettanta attenzione.Per quanto riguarda me, in relazione ai tuoi punti: 1) Garcia è senz’altro attinente, come in qualche modo la Societas che ha citato Pocosgnich, anche se non parlerei mai di riciclo e comunque non è, almeno secondo me, MAI l’originalità un valore più importante degli altri, e infatti le mie critiche non vertevano su questo.
    2) Perlomeno Franceschelli, nel parlare di vecchia avanguardia, parla di cose che ha visto e non letto sui libri. Poi il discorso sui giovani che fai a mio parere non è particolarmente interessante, con argomenti come questi puoi arrivar pure a difendere il musical di 3metri sopra il cielo e Ricci e Forte comunque meritan di più, restan comunque persone intelligenti e di talento 🙂

  16. Ad Andrea b-side.
    Che ci sia o meno un riciclo, per me non è importante. Reciclare idee, o addirittura copiarle, non lo trovo sbagliato, tutt’altro. Ho evidenziato la presenza in Ricci/Forte di cose già viste solo perché tutti me ne parlavano come il loro lavoro fosse una novità assoluta. Tutto qui.
    Vuoi dei nomi? Senza entrare troppo nel dettaglio parlerei di Socìetas, Valdoca, Motus, in parte anche Big Art Group e Jan Fabre. E anche gli “odierni” Babilonia e i “vecchi” Artefatti.
    Per quanto riguarda l’ultima parte del tuo post, nessuno ha scritto che il pubblico che ama Ricci/Forte è stupido o ignorante. Non è stato scritto né esplicitamente né implicitamente. Forse ti riferisci a qualcun altro. Io stesso ho evidenziato cose che mi sono piaciute molto.
    Ma è mai possibile che non ci si può permettere una (anche piccola) critica senza essere tacciati di invidia o fastidio? Che palle!!!

  17. cito: Penso che siamo di fronte all’ennesimo fenomeno teatrale portato avanti da una certa critica e da un pubblico digiuno di teatro che si impressiona per performance di vecchia avanguardia
    scrive Andrea, non Timpano e non Franceschelli. fondamentalmente rispondevo a questo post.
    caro Franceschelli, tu puoi vedere tutti i riferimenti che vuoi, ma drammaturgicamente siamo lontani da tutto quello che citi. La scrittura di ricci e forte è bella. questa, a parer mio, e non solo mio, leggendo la quantità innumerevole di articoli usciti, è la vera novità, rispetto ad un teatro che difficilmente riesce a coniugare estetica a drammaturgia. Se ne sono accorti anche fuori dai confini romani, e ti dirò di più, se ne sono accorti anche in francia, in inghilterra, in romania.
    caro Timpano, capisco tutto quello che scrivi a parte il discorso di tre metri sopra il cielo. non ho bene inteso se ti riferisci al riscontro popolare o a cos’altro. Comunque io che conosco il tuo lavoro e ti stimo professionalmente non credo che a te farebbe schifo un riscontro popolare, e sarebbe anche giusto che tu riuscissi ad averlo.
    In generale, e quindi non in riferimento a Timpano e Franceschelli, mi da noia la parrocchietta romana del sìdetto “teatro indipendente” mi sta antipatica proprio la concezione, non le singole persone. il fatto che ricci e forte pur essendo romani non ne facciano parte, e anzi, siano anche un po’ invisi a questa parrocchietta di cui sopra, me li fa diventare anche simpatici, così come gli artefatti, è più forte di me. il rodimento infatti l’ho sentito tra le voci nel sagrato della parrocchietta, durante teatri di vetro e non in questo blog, che comunque, forse sbagliando, associo a questa realtà. chiedo venia, sono stupido.

    • No ragazzi…rimaniamo sul pezzo, vi prego, non tiriamo fuori le parrocchiette. Si stava sviluppando un dibattito interessantissimo non limitiamolo a fazioni o squadre di calcio.

      L’opinione che hanno Timpano e Franceschelli non è così solitaria quanto tu credi Andrea. Dunque come vanno rispettati coloro che hanno acclamato Ricci Forte (e tra quelli, anche se in forma più distaccata e oggettiva c’ero anch’io, dalla recensione si capisce) battendogli le mani a ritmo e facendo la fila per conoscerli, roba che io ho visto solo con Antonio Rezza per intenderci, così vanno rispettati e ascoltati coloro che non hanno avuto quelle emozioni o se le hanno avute le hanno percepitete solo esteriormente.

      Facciamole crescere le discussioni, non minimizziamole. Cerchiamo di capire ad esempio quanto è importante in una forma d’arte performativa come il teatro il fattore novità. A mio avviso è importante ma non può divenire una cartina di tornasole, come però è vero che comunque uno spettacolo va visto in un contesto artistico più ampio relazionandolo con opere più o meno contemporanee. Mi permetto una cosa: tra i tanti nomi che sono usciti, qualcuno ha tirato fuori i Babilonia, non ricordo in quale commento, non vi sembrano, esteticamente, anni luce lontani? Ovvero si avvicinano solo contenutisticamente al mondo di Ricci Forte, per quello che riguarda l’accusa alla società dei consumi e alla Tv, ma come lo fanno è totalmente diverso secondo me.

      Ok, questi erano semplicemente un paio di spunti, poi fate voi.

      Andrea

  18. Concordo con Andrea P., lasciamo da parte le parrocchie e soprattutto suggerisco di lasciare da parte le antipatie/simpatie. Credo sia doveroso esprimere un giudizio opinabile quanto si voglia ma “neutro” in quanto a umori personali. E spero anche che la discussione, se continuerà, non si incanali in un derby tra fan e detrattori. Io non appartengo né agli uni né agli altri. Macadamia mi è piaciuto molto in alcune cose e molto poco in altre. Tutto qui.
    Quello che mi lascia perplesso è il fattore “novità drammaturgica”. A dire il vero ho sentito tante persone, che so essere competenti, affermare proprio questa cosa: “la vera novità di Ricci/Forte è la drammaturgia”. Che dire? Rispetto la loro opinione ma per quel che mi riguarda, da drammaturgo quale sono (scrauso quanto vi pare ma sempre drammaturgo), la mia opinione è “no”. Non ho trovato alcun elemento di novità nel testo di Macadamia. Certamente ben scritto, forse anche ottimamente scritto ma dove sarebbe la novità? Forse nel teatro italiano contemporaneo o addirittura in quello estero non ci sono drammaturgie all’altezza di Ricci/Forte? Ma dai.
    Piuttosto suggerisco una possibile strada interpretativa che è quella che si potrebbe definire come “format drammaturgico”. Macadamia critica (bene) la contemporaneità segnata dalle forme televisive ma, consapevolmente o inconsapevolmente, lo fa abbracciando in pieno le stesse identiche forme. La “mediazione” teatrale che dovrebbe veicolare il distacco critico dell’autore/regista era (almeno per me) assente. Forse ai giorni nostri è inevitabile che sia così, ma per chiarire ulteriormente il mio pensiero direi che al Piccolo Eliseo quella sera c’era poco odore di teatro e tanta puzza di televisione.

  19. Esattamente come dice Pocosgnich i lavori vanno visti relazionando il percorso degli artisti nel contesto generale.
    D’accordo che qualcuno possa ritenere la loro drammaturgia poco efficace (de gustibus) ma forse, prima di sparare sentenze (che sono cosa diversa dalle piccole critiche definite da qualcuno) bisognerebbe conoscere l’ombra di chi è giudicato ma soprattutto dei giudicanti: borbottii contro la voce chiara di critica, pubblico, docenti di Storia del Teatro (c’ero io la sera che all’Eliseo davanti a me era seduto il mio insegnante Franco Ruffini) che apprezzano le indubbie qualità di un gruppo che sta rendendo un ottimo servizio anche fuori dall’Italia, contribuendo a maggiori scambi internazionali e quindi anche ad un’agevolazione per tutti gli altri artisti italiani.
    Anche quegli stessi che per l’intera durata di Teatri di Vetro hanno continuato a minimizzare, nonostante il coro nel foyer o in sala girasse esclusivamente intorno a “sei andato a vedere ricciforte?”
    Questo, aggiunto al fatto che il contradditorio nato sul gruppo proprio in questo sito è diventato il più commentato, si riassume in una singola riflessione: riconosciamo il percorso di artisti che procedono da anni e non sono fenomeno del momento, come qualcuno vuole far intendere. Nel 2000 (navigare per credere!) vincevano già il premio Hystrio alla drammaturgia, prima ancora di tanti altri illustri colleghi. E forse dieci fa, i fantastici Babilonia, che sono un’altra mia passione, non erano ancora nati…?!

  20. Ecco, ci sono anch’io.
    Credo che la questione sia relativa allo status “novità drammaturgica”, che rivendica originale quel che originale non è. Lo spettacolo a me è piaciuto molto, ma non ho riscontrato originalità, per il semplice fatto che la ritengo impossibile all’epoca moderna: ormai credevo fosse chiaro che l’invenzione non esiste, ma esistono semmai induzione e deduzione (senza la scoperta dei numeri e della capacità di conto anche Einstein non avrebbe mai parlato di relatività…e altri assieme). Quanto all’uso del posticcio, che temevo solo estetico, mette invece in discussione l’eccesso e lo fa da dentro, dall’eccesso, quindi per me meritori di rispetto perchè non fanno come tanti artisti che si mettono dietro il loro dito puntato: loro sono i primi responsabili di quel che denunciano. Così da comprendere, forse, che lo siamo anche noi. Un nodo che invece mi pare da indagare è: ma senza la conoscienza dei riferimenti legati alla società dello spettacolo il gioco risulta abbastanza efficace? Posso permettermi di guardare questo spettacolo senza conoscere uno qualsiasi dei nomi-status symbol citati? Qui mi pare si debba discutere, perchè è qui che – come Franceschelli e Pocosgnich dicono – si rischia di cadere nel proprio stesso tranello.

  21. novità, originalità, esclusività… sono d’accordo con Simone Nebbia che oggi non c’è possibilità di vederne, e questo non solo nel teatro, in tutto, e penso che la musica sia l’esempio più eloquente, è la realtà del tempo presente.
    Nessuno di noi dice cose nuove, e anche nella nostra quotidianità siamo ripetitivi, in teatro questo si traduce in una drammaturgia a volte molto noiosa nella forma e nei contenuti. Ancora più noiosa se scaturisce da chi forte della propria intellettualità, rinnega la realtà mediatica che ci circonda, spegne la televisione, non legge i rotocalchi, ignora il ciarpame, distaccandosene. Questo spirito intellettuale, elevato e mosso da sani principi, mal si coniuga con la novità, e questo perchè crede di essere originale quando denuncia la realtà in cui viviamo (e che la maggior parte delle volte si ritrova anche solo nel telegiornale) e rimane solitario a raccontare questa realtà a platee semivuote (o semipiene o anche pienissime come nei casi degli eventi/spettacolo alla Travaglio per intendersi) di pubblico, intellettuale anch’esso, che si riconosce e riconosce in quelle parole la sua stessa protesta. Tutto muore li, tra platea e palcoscenico, niente di nuovo, appunto, rispetto allo spirito che ci muoveva prima di assistere a quello spettacolo. Nella migliore delle ipotesi la noia viene sovvertita da argomenti e temi interessanti, e alla fine ci sentiamo meno soli nelle nostre lotte, più carichi dei nostri ideali, con più speranza per il domani. E’ un attimo. Potrebbe anche andar bene, e non lo giudico in linea di massima in maniera negativa, pur con la consapevolezza che non mi servirà a lungo, che dovrò rinnovarlo a breve. Sin’ora, chi mi ha trasmesso questo messaggio in maniera forte e chiara è riuscito a convincermi che un teatro sociale, civile,socialmente utile, non avesse bisogno di una particolare cura nella messa in scena, e neanche di una particolare capacità interpretiva da parte degli attori. con le dovute eccezioni naturalmente: Pippo del Bono ed Emma Dante sono due di queste, ma inevitabile sia nell’uno che nell’altro caso sentirsi si spettatori partecipi, ma anche un po’ estranei alla realtà che rappresentano, Pippo per la sua esperienza con la diversità ed Emma con la rappresentazione di un contesto sociale (o mentale) anche in questo caso diverso dal mio.
    In cosa vedo l’originalità di ricci e forte? nel loro raccontare attraverso stereotipi popolari, facilmente riconoscibili da tutti qualcosa che è più di una semplice riflessione intellettuale. Nel vivisezionare quello stesso stereotipo scardinandolo dall’interno, mostrandone l’illusione, la pericolosità, ma anche l’innegabile utilità per chi come tanti ha bisogno dell’happy ending per continuare a sperare. L’originalità sta nel fare questo riconoscendo di starci dentro, tutti sino al collo, perchè magari nostra mamma ha seguito una Soap di successo, e nostro padre la sfotteva e poi prima del TG veniva rapito dal quotidiano quiz a premi, e per un attimo anche lui sognava una vita diversa, fatta di vincite milionarie, e magari nostra sorella, o la nostra amica di infanzia si incolla davanti ad Un posto al Sole, o a X_Factor, o a un reality qualsiasi, e nessuno di noi che magari schifa questa realtà, si è trovato a provare vero schifo o vergogna per chi si vuole bene, e se riflettiamo, anche noi, in modo diverso, una volta, nella nostra vita, all’happy ending ci abbiamo creduto.
    Ricci e Forte a parer mio sono riusciti in maniera del tutto originale a parlare della disperazione più profonda dell’umanità occidentale civilizzata, la mancanza di amore per la vita e di responsabilità, e il pretesto è la morte del personaggio più amato della nostra personale serie televisiva, in certi casi nostra madre, in certi altri noi stessi, nell’obbligo, ad un certo punto, di abbandonare la nostra vita di figli, eterni adolescenti, e fare qualcosa, agire, prendere in mano le sorti del finale.
    La conoscenza del linguaggio televisivo ha aperto una connessione con tanta gente diversa, anche pubblico digiuno di teatro, anche orde di gay (ma anche no), anche a una generazione che si da via, senza scrupolo, senza neanche la possibilità dell’happy ending. Hanno vinto perchè sono riusciti ad istigare lo spettatore a dialogare con se stesso su temi che di solito siamo abituati a trattare in modo distaccato, quasi impersonale. Hanno vinto perchè sono dei veri professionisti, gli attori sono interpreti fantastici, la messa in scena è curatissima, e i soldi spesi non sono sicuramente quelli a disposizione di Emma Dante o Pippo del Bono, in nessun momento hai la sensazione che si siano risparmiti, tutto è ad un livello molto alto, lontano anni luce dagli allestimenti amatoriali che tante volte si vedono in giro anche tra le compagnie che amatoriali non sono.
    per rispondere a Simone Nebbia, credo che non ci sia nessuno che non conosca almeno un nome degli status symbol citati, io per esempio conoscevo solo Bambi, Biancaneve, e kenny di south park, anche in questo credo siano stati molto attenti.

  22. Immettersi in una discussione tanto lunga, generica e al tempo stesso articolata, per tentare di sollevare un velo di coscienza critica che vada un gradino oltre il mero parere personale, si presenta sempre come un’impresa ardua e presuntuosa. L’atteggiamento migliore, forse, sarebbe rintracciabile nel mantenimento di una distanza altrettanto generica e approssimativa, capace di restituire un clima di gentile critica alla “pizza e fichi” (con questo rivelo anche la mia romanità) in cui ogni considerazione “de gustibus” verrebbe a configurarsi come lecita e definitiva. Se vero è che l’arte, in parte, si nutre di un personalissimo senso valutativo, che le dona un dinamismo interno a garanzia dell’eternità del linguaggio artistico stesso, vero è anche che di fronte alla crisi relativista in cui quotidianamente stiamo sprofondando, tracciare delle linee chiare e oggettive risulta doveroso o quantomeno tentativo auspicabile, per recuperare un genuino spazio di un confronto.
    Si è detto tanto e di tutto relativamente a Macadamia Nut Brittle, creando un parossismo tale da comportare l’annullamento stesso di ogni forma di analisi valutativa. C’è chi grida allo shock, chi allo scandalo, chi alla pornografia scenica, chi all’adorazione più estrema, chi alla banalità del suo messaggio e chi, anche, alla banalizzazione del suo messaggio, distinzione sottile ma di sostanza.
    Bene, tutte queste considerazioni, dettate da uno slancio emotivo o da un rigurgito organico che sia, non sono altro e non possono, purtroppo, essere altro che fiacchi orpelli decorativi a scapito di un velo di confusione circa la possibilità o meno di un contenuto obiettivamente necessario.
    Premetto, a mia discolpa, di appartenere alla fronda pro-Macadamia, anche squisitamente per un mio, per l’appunto, personalissimo giudizio…elemento che proprio alla luce delle premesse sopra esposte, non può e non deve essere un motivo di valutazione .
    Penso che in primo luogo potremmo tutti concordare nel tralasciare a vera superficialità la questione relativa ad un linguaggio drammaturgico innovativo.
    Non perchè, come viene ritenuto negli altri interventi, non esista la possibilità di sperimentare o sia attualmente impossibile avere un esito positivo a riguardo: “Sono quel tipo di cose che s’imparano dopo la seconda festa a tema. Tutto è già stato sperimentato” (T.Kushner – Angels in America). Ma piuttosto per una problematica presente nel linguaggio contemporaneo stesso, nel suo essersi disgregato in una forma trascendente lo stesso concetto di ambiguità. La lingua, le parole, appartenenti all’uomo, generate dall’uomo stesso, lo configurano all’interno di una realtà sensibile: lo mettono in relazione, lo rendono conoscibile come “cosa”, come corpo sensibile e per questo definibile, argomentabile. Ma in un’epoca in cui la personalità di ogni singolo individuo è messa a tal punto a rischio di smaterializzazione, di trasfigurabilità in un perimetro incerto e progettabile, anche nelle sue linee essenziali, secondo un minuzioso lavoro a tavolino; le parole, il linguaggio stesso, non possono che slittare su di un piano incerto, informe, che permetta la fluidità del proprio Io. Siamo la società più libera che la storia abbia mai conosciuto, capace di sfuggire ad ogni tentativo di costrizione identitaria. Siamo avatar in continuo aggiornamento, siamo un’ immagine pixelata e compressa nello spazio di un file jpeg, che si augura di avere il peso minore possibile per una maggiore agevolazione di scambio. Non c’è più una tradizione orale o scritta che sia. I mezzi di comunicazione hanno doppiato in una corsa irrazionale la capacità stessa di comunicare. Cinema, televisione, blog, intrattenimento digitale, social network…tutto in funzione di una ri-programmabilità, di una seconda chance. Per questo non si può credere in un’innovazione drammaturgica in senso ampio,dal momento che il linguaggio stesso ha perso la sua organizzazione e perdendola ci ha reso nebulosi, ci ha privati di un corpo, quel corpo così esibito, lacerato come un abito passato di moda, demolito a colpi di percosse e di silenzi, così PRESENTE nello spazio scenico. Siamo marziani nel nostro stesso mondo. In questo, ritengo, sia la grandezza di Macadamia Nut Brittle, parlare l’unica lingua davvero globale: la lingua della contaminazione. È così che, allora, serie televisive esplodono aeree sulla sinfonia funebre di un “requiem eternam”, petardi di un capodanno al tritolo tra le rughe di un’esistenza che scivola via, ingannati da quello stesso progresso che non ci evolve ma che impietosamente consuma, in una tempesta iperproduttiva e mercificatoria. Messaggeria telefonica, improvvisazione scenica (quella stessa improvvisazione che sta alla base della menzogna sociale che ci ospita, che ci crede uniti in uno sconfinato spazio assente…comunità virtuali in vece di una comunità politica che ci rifiuta, che ci nega la nostra stessa singolarità, che ci abbrutisce nello spazio di un ID number o che trova ragione di ruolo solo sul numero di un conto bancario di società che rovinano realmente su un’economia calcolabile solo virtualmente!) a mostrare le sconclusionate vie d’accesso a una speranza più antica dell’uomo: l’opportunità di un amore. Una scopata stanca rimediata sulla piazza del quotidiano mercato globale (persone alla stregua di un letto di Ikea, identico a se stesso e accessibile a chiunque con un click del tasto sinistro del mouse) si presenta come l’occasione per una redenzione precotta, un filetto di platessa congelato e messo a cuocere in un forno nucleare. I codici si accavallano, si scavalcano, compenetrano irrispettosi sui monologhi individuali. È lo stupro del singolo sul suo prossimo e del singolo su se stesso. L’apoteosi della solitudine. Seppur globalizzati non siamo inglobati da niente. Per questo i quattro attori rimbalzano come camere d’aria in un compulsivo amplesso orgiastico, canto del cigno di una penetrazione a fondo perduto, non perché Ricci/Forte vogliano scandalizzare ad ogni costo, o peggio ancora tratteggiare il percorso dell’unico teatro innovativo, erigendosi a roccaforte di una sperimentazione mai tentata; ma per dimostrare l’inconsistenza di quattro carcasse mute, riecheggianti solo del silenzio del proprio affanno. L’epidermide che sfrega paonazza, unica voce in quel deserto nudo. Non c’è niente di scandaloso in un corpo in movimento. L’unica pornografia accettabile è situata nella disperazione del nostro sguardo, nella nuda risposta all’appello in quell’aula teatrale – quello che è strano,via! – dove, sin dall’inizio, tre stuart trasudanti ci permettono di localizzare vie di fuga che comunque non accetteremo (non credo che mai nessuno abbia prestato ascolto al monito e sia fuggito appena messo piede in sala). Il discorso pornografico, perciò, cambia anch’esso nel linguaggio, come d’altronde l’intera scena che viene a destrutturarsi nella forma, degenera nei ritmi, nei corpi che strappati non sono più sufficienti ad affermare neanche sé stessi. Quel fracasso sordo di ossa schiantate sono tamburi di guerra di un’umanità senza riparo, nemmeno in tre casette di infantile tenerezza, lenzuola di nylon per pelli sanguinolente: l’innocenza non è traducibile in un soffice “io non c’ero”. Ricci/Forte richiamano con un appello generale a porsi di fronte a una quotidianità epica, tragica in senso ellenico, dove l’umano si ritrova eroico nella sua misera sopravvivenza, in una tragedia senza divinità, senza interventi soprannaturali a motivare la grandezza del dolore. Lo fanno schiacciando la tridimensionalità degli spazi con luci abbacinanti che spogliano l’inganno, annullano gli angoli, i punti di fuga, polverizzano le quinte. L’attore, che smette di essere tale, è costretto per un’ora e mezza ad esserci, ad esistere, a consumarsi insieme alla scena ed insieme all’ultima icona pop, archetipo di un tempo senza più memoria. Questa è la vera pornografia: la dimostrazione di una legge “economica” che ci rivela come merce di libero scambio. E cosa può importare se due uomini, maschi, uomini di cazzo, si baciano sulla litania di una donna liquida, esposta come una paralitica eucarestia domenicale? Come si può parlare di una fisicità gratuitamente esibita, lì dove il corpo si fa simulacro di tenerezza? “Per secoli in teatro è invalsa la tendenza a mettere l’attore su una piattaforma, a grande distanza dal pubblico: incorniciato, decorato, illuminato, truccato, calzato, per far credere all’ignorante che l’artista era sacro, che la sua arte era sacra. Ma era espressione di venerazione? O nascondeva il timore che qualcosa avrebbe potuto essere messo a nudo se le luci fossero state troppo forti o l’incontro troppo ravvicinato?” (Peter Brook – Lo spazio vuoto).
    È bulimia, quella di Ricci/Forte. Bulimia occidentale, linguistica, di segni, di contenuti, d’amore. È una richiesta esorbitante, un coagulo di domande che non trovano risposta e non pretendono di darne (al contrario di molte critiche che insistono sul privatissimo mantra del “non sono d’accordo, la mia vita non è così!” – ennesimo errore di valutazione tra personale e politico, sociale), è ologramma dell’eccesso globale, della sovrapproduzione del sottosviluppo. Quella di Ricci/Forte è un’indagine sul contemporaneo, un’estetica al servizio dell’etica. NON DELLA MORALE. “E’ la verità del momento presente che conta, l’assoluto senso di convinzione che può apparire solo quando un’unione lega interprete e pubblico. Appare quando le forme temporanee sono servite al loro scopo e ci hanno portato in quest’unico, irripetibile istante in cui una porta si apre e la nostra visione si trasforma” (Ferruccio Marotti – Prefazione a Lo Spazio Vuoto).
    È un tassello importante per il teatro italiano. Un checkpoint. Tenersi a distanza di sicurezza, comodi nell’intrattenimento culturale dilagante, escludersi da una riflessione sui temi sollevati in questo lavoro, diviene un grave segno di disinteresse nei confronti del futuro. È la cura di un orticello privato, sterile, provinciale, anacronistico. Questo atteggiamento, senza ombra di dubbio, può essere additato come AMORALE.
    “Forse amare il prossimo non è un elemento di base dell’istinto di sopravvivenza, ma neanche l’amore di sé, scelto a modello di amore per il prossimo, lo è” (Zygmuth Baumann – Amore liquido).
    P.s. È un articolo lungo, ma, fortunatamente, ancora non è stata approvata la Legge Bavaglio.

  23. Sono appena passati da Milano. Ho già detto parole contro corrente su Hamlice. Mi permetto di farla fuori dal vaso anche questa volta.

    Quando sento citare Nina Moric, Gheddafi, Moira Orfei, Fukushima mi rendo conto che per condurre il pubblico a queste risate da cinepanettone de sinistra gli autori dovranno rincorrerlo senza posa, in futuro costretti a metterci dentro riferimenti ammiccanti alle future imprese del Trota o di Matteo Renzi. Ciò che molti prendono per forza devastante è solo un’imitazione delle montagne russe, una furba mescolanza di lirismi esibiti e compiaciute incursioni nel sesso e nella violenza. Questo sfacciato avere a che fare con il disgusto e con il pericolo è ciò che affascina l’uomo medio anestetizzato, richiamandolo in massa e costringendolo ad un applauso liberatorio alla fine della performance, nella quale viene messo al muro e sfidato a resistere, ad accettare sempre di più. Non conta l’illuminazione della realtà, non dobbiamo riflettere su ciò che accade, non c’è tempo, cibiamoci di scuoiamenti di conigli e umiliazioni, di orge a quattro e coltelli che escono dalle natiche, immaginette audaci e sedicenti scandali. La pornografia lascia tutto come prima, concede sensazioni momentanee e fugaci, non aspira alla catarsi né alla denuncia. Lo spettatore si lascia scioccare al momento per poi farsi acquietare da un monologo moralistico sulla sofferenza della solitudine; dunque: il colpo ci fa saltare, ma poi c’è il poeticismo spinto che redime tutto. Si tocca il pop per deriderlo e avere l’abbraccio del pubblico che va a teatro, poi si usa l’indubbia capacità letteraria per fare uno svolazzo, nulla di più, lontani dalla melma degli istinti animali e dell’adolescenza perpetua. In attesa del nuovo tuffo. Niente di più consolatorio di quest’estetica del mero scuotimento.

  24. Avendo ripostato la critica allo spettacolo leggo solo ora questa vecchia discussione e trovo che l’ultimo post di Pisacane sia di una lucidità e chiarezza nell’evidenziare il fenomeno davvero notevoli.

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