Cordelia - le Recensioni

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AHMEN (Collettivo Cromo)

Le migrazioni sono uno dei temi centrali di questa nostra epoca, ma la questione viene sempre discussa nel fuoco di un dibattito securitario, numerico (quanti sbarchi ogni anno? Quanti rimpatri?). Non si discute mai di accoglienza, dei termini che la regolano, di come vivono o sopravvivono gli extracomunitari che lavorano in Italia, anche quelli in regola. Interessante dunque il lavoro della giovane Collettivo Cromo, per la regia di Tommaso Burbuglini: con un’idea strappata dalla realtà, grazie all’incontro avuto con Asim, racconta la storia di un lavoratore pakistano e della suo odissea quotidiana per riuscire a ottenere il ricongiungimento familiare con la moglie. Ha debuttato a Carrozzerie Not dopo un lungo tempo di gestazione (e i passaggi a Powered by Ref e Forever Young della Corte Ospitale) portando in scena pochissimi ma funzionali oggetti: una vecchia e sporca lavatrice, un appendiabiti che farà da separè e poco altro. La discesa del protagonista negli inferi kafkiani della burocrazia avviene tramite il dialogo, da una parte c’è Valerio Sprecacè - che impersona tutti i ruoli con cui viene rappresentata la nostra società respingente (i clienti del negozio di lavaggio in cui lavora il protagonista, i dipendenti dell’ufficio immigrazione, ecc.) - e dall’altra c’è Andrea Perotti. Il suo più che essere un personaggio è una sorta di avatar muto, una maschera silente in grado - con un lavoro minimale di gesti, sguardi e mimica - di restituire una profondissima partitura emotiva: l’ingenuità, l’incomprensione, il sorriso per il minimo passo in avanti, la disperazione trattenuta di fronte al dipendente pubblico per una mancanza nella documentazione. I contorni della messinscena divengono sempre più surreali, fino a quando nell’epilogo la realtà torna a connettersi con la scena, in video appare il vero Asim e un testo proiettato ci aggiorna sulla situazione presente: la fatica per ricongiungersi con la moglie continua. Ahmen di Collettivo Cromo deve ancora raffinarsi, rendendo più nette certe scelte registiche, però apre un discorso importante, politico, su una realtà che facciamo finta di non vedere.

Visto a Carrozzerie Not:Una produzione Cromo collettivo artistico IDEA E SOGGETTO Cromo collettivo artistico REGIA Tommaso Burbuglini DRAMATURG Eleonora Pace CON Andrea Perotti e Valerio Sprecacè VOCE REGISTRATA Asim Javed TUTOR Romaeuropa Festival Eva-Maria Bertschy Progetto selezionato Powered by REf 2023 spettacolo finalista del bando Forever Young 2024 de La Corte Ospitale con il sostegno di Atcl_circuito regionale del Lazio

AMARA TERRA (di Luca Pastore)

Prima dell’inizio dello spettacolo, nel foyer, il pubblico riceve personalmente delle vecchie cartoline, spedite minimo una cinquantina di anni fa: gli inchiostri sbiaditi, i timbri postali che hanno perso la loro definita ufficialità come la posa che lascia il bicchiere sul mobile; le calligrafie indecifrabili alcune, altre impeccabili tanto da sembrare stampate. Sono messaggi brevi volti a testimoniare quello che rappresentano, dei saluti dall’Italia. Quello che colpisce sono i destinatari, la maggior parte famiglie, mai persone singole, ma gruppi, realtà collettive. Le famiglie sono il materiale dal quale si sviluppa Amara Terra di Luca Pastore una sequenza di quadri che uniscono da Nord a Sud un paese fatto di amenità e amarezze, differenti storie, la maggior parte drammi, tramite le quali a essere portata in scena è la storia orale custodita dai nostri genitori e nonni. Questo racconto dei racconti popolari cucito insieme da Pastore e dal cast compone un corredo antropologico a rischio sparizione se non se ne recupera la memoria. Forse quella dei Millennials, e a ben sperare quella della Gen Z, sono le ultime due generazioni che potranno ancora salvare questo patrimonio, e incorporarlo come fanno Miriam Messina, Martina Caronna, Ludovica Avetrani, Claudio Filardi. In una scena riempita di sedie e stoffe e vestiti come a ricreare una camera di famiglia, le attrici e l’attore - alternando con destrezza il polilinguismo dei dialetti della penisola ma con meno rigore il cambiamento dei molteplici registri che vanno dal comico al tragico al grottesco - interpretano diversi ruoli di passate e diverse storie filiali che però ci riguardano da vicino, anche in virtù di una riconoscibile stereotipia. Sono le tracce che ereditiamo, modelli sociali e tare che, se trasmessi criticandone gli aspetti più crudi come fa il testo di Pastore, possono fungere da bagaglio socioculturale per il futuro. (Lucia Medri)

Visto a Fortezza Est: testo e regia Luca Pastore; con Miriam Messina, Martina Caronna, Ludovica Avetrani, Claudio Filardi; musiche e suoni Mattia Yuri Messina; una produzione I Cani Sciolti. Foto Simona Albani

DANCER OF THE YEAR (di Trajal Harrell)

In che modo agiscono i riconoscimenti sulle personalità artistiche? Un premio è solo un premio o diventa scintilla di indagine, esercizio di consapevolezza? È un gesto di cuore, muscoli e animo la risposta a queste domande che Trajal Harrell - Leone d’argento della Biennale di Venezia 2024 – ci dona, letteralmente come un regalo, nel solo Dancer of the year, presentato in prima nazionale durante il festival Equilibrio 2025. La coreografia suddivisa in 5 parti per la drammaturgia di Sara Jansen ha commosso il pubblico in un’unione armonica di emozioni. Dopo essere stato definito dancer of the year dalla rivista tedesca Tanz nel 2018, Harrell ha deciso di venire a patti con questa definizione creando una performance lirica e autobiografica che ci offre in tutta la sua luccicante spontaneità. Come dichiarato nell’incontro post spettacolo condotto dal direttore di Equilibrio Emanuele Masi «è un lavoro artigianale con cui ho voluto mostrare l'interno di me, tirando fuori quello che ho dentro, tutto quello che posso fare, anche le cose più brutte». A sostenere la semplicità strutturale dei movimenti, è una danza emotiva che si sviluppa bidimensionalmente, lungo un tappeto rosso poggiato su una grande stuoia quadrata, ed è accompagnata da altrettanti movimenti sonori. Questi, musicalmente parlando, possiedono una qualità sentimentale che aderisce alle partiture, all’incedere e evolversi di questo Pierrot che incendia, vivificandolo, il gesto coreografico, come nelle dirompenti sequenze di Twenty Looks or Paris is Burning at The Judson Church. Se la danza è sempre stata esaltazione della forza, Harrell vuole invece esprimere della danza le sue fragilità; un linguaggio che - erede del voguing newyorkese, della postmodern dance e del butoh giapponese – vuole innazitutto tenerci insieme, regalarci il calore che sta dietro un abbraccio, l’energia di un bacio. «I’ve tried to bring you together», dirà alla fine Harrel con gentile e composta onestà.

TOTENTANZ, MORGEN IST DIE FRAGE (di Marcos Morau)

È incredibile come Marcos Morau sia riuscito a rendere noiosa la morte (e senza nemmeno riuscire a esorcizzarla). Tutta la retorica possibile del e sul caro estinto non è mancata nel suo Totentanz, Morgen ist die Frage (stage version) per La Veronal al Festival Fog della Triennale di Milano. Tra il solito dispendio di fumo e tanto buio, il neon effetto obitorio da far altalenare nell’aria (o a effetto croce per terra per rituali sempre un po’ così-così), e con sul palco tanto di barelle per dissezioni anatomiche e cadaveri/manichini/spettri da agitare per aria che però impressionano pochissimo. E poi suoni d’organo che montano e minacciano, pure le campane che toccano a morto, la solita bandiera nera sventolata a li mortacci tua, e i noiosi cluster continui tutti orchestrati sui movimenti inesausti, prevalentemente a scatti, dei quattro performer (bell* & brav*), come in un insopportabile videogioco. Quel che ne risulta insomma è un clima più da risibile fumetto che da carnevale «di una disperata vitalità». Quali segreti sulla fine qui si svelano? Nessuno, tranquilli. Davvero non ho mai avuto la percezione di sapere dove la performance volesse o potesse andare a parare. Nel mezzo, un video mix degli orrori e degli squartamenti di ogni tipo e tempo, coi volti dei cattivi della nostra storia, in una temporalità talmente veloce da non creare mai un vero caso. L’orrore esposto come in vetrine viste in corsa. Poteva già bastare. E poi il finale, in una sorta di rave poco credibile, molto fuori luogo. Morau è artista dal forte immaginario visivo, molto organizzato in termini espressivi ma pochissimo coreografico, per cui io credo abbia bisogno di drammaturgie forti e chiare, solide e vorrei anche scrivere necessarie. A questo giro tutto è sembrato senza idee, sforzato in una soluzione produttiva impropria e soffocante, un poco acchiappacitrulli. Morau dovrebbe fermarsi, e riflettere, su cosa è più necessario per lui, come poter chiarire la sua ricerca, se ne ha una, e come impedire che la sua identità diventi merce di pronta cassa pei mercanti nel tempio, ossessionati dall’iperproduttività d’oggidì. (Stefano Tomassini)

Visto alla Triennale Idea e direzione artistica: Marcos Morau Direzione di produzione: Juanma G. Galindo Coreografie: Marcos Morau in collaborazione con gli interpreti Con: Ignacio Fizona Camargo, Valentin Goniot, Fabio Calvisi, Lorena Nogal Drammaturgia: Roberto Fratini Direzione tecnica e gestione del palcoscenico: David Pascual Progetto sonoro e musiche originali: Clara Aguilar Video design: Marcos Morau, Marc Salicrú, Marina Rodríguez, Albert Pons Design dei costumi e degli spazi: Marcos Morau

VAUTOURS (AVVOLTOI) (di Roberto Serpi)

Vautours è il testo di debutto di Roberto Serpi, selezionato dal progetto Mezz'ore d'autore di Teatro Due nel 2022, oggi riproposto con una regia condivisa dallo stesso Serpi e degli altri rinomati interpreti della pièce, Sergio Romano e Ivan Zerbinati. All'avvoltoio, rapace che si nutre per lo più di carogne, Serpi associa il mondo del lavoro e della competizione tra ultimi. Ultimi sono i personaggi, necessariamente tre, che abitano lo sgombro e anonimo scantinato di una qualsiasi e anonima grande azienda. Un rapporto, se non di amicizia, almeno di vaga solidarietà nella condivisione del disagio disoccupazionale, che si trasforma ben presto in una vicenda di inganni, menzogne e prevaricazione, nel tentativo di raggiungere a ogni costo un unico irrinunciabile obbiettivo: un posto in azienda. Il rapporto tra i tre e il palco nudo con le sue tubature e porte di servizio ci suggeriscono atmosfere beckettiane, ovviamente, ma anche quelle dei cortili scimoniani; così come l’idiota onesto interpretato con raffinatezza da Zerbinati non può che suggerirci l’insuperabile Lennie Small di Steinbeck. Mentre il plot talvolta inciampa nell’indecisione tra assurdo e verosimile, l’elegante, ritmato, denso testo vuole rimettere alla prova - a occhi attenti forse ingenuamente - un teatro di situazione che rinuncia all'azione, alle scene e agli orpelli per sorreggersi sulle dinamiche relazionali e sull'abilità attoriale; che non manca, ma che soffre della mancanza di una visione registica unitaria ed esterna che sappia mettere ordine in una dinamica drammaturgica a volte discontinua, e che si prenda cura dei pochi, quindi cruciali, elementi scenici; come l’iconico bigrigio Siemens62, unico oggetto costantemente presente e con un ruolo affatto secondario nello svolgimento della vicenda, che, tuttavia, con la sua patina vintage ci porta irrimediabilmente indietro nel tempo in un'epoca che cozza con l'immaginario, pure astratto, che ci siamo fatti della grande azienda e del grande direttore al piano di sopra, così come con i costumi, semplici e senza tempo, di Elisabetta Zanelli. (Angela Forti)

Visto al Teatro Due: di Roberto Serpi; interpretato e diretto da Sergio Romano, Roberto Serpi, Ivan Zerbinati; luci Luca Bronzo; costumi Elisabetta Zinelli; produzione Teatro Due.

LA COLLEZIONISTA (di M. Barile, regia M. Lorenzi)

Un teatro che si fa museo. È questa la scena che attende l’ingresso degli spettatori prima che inizi La Collezionista, testo di Magdalena Barile che Marco Lorenzi dirige sul palco del Teatro Elfo Puccini. Siamo nella casa della Marchesa Doris (Ida Marinelli), la grande collezionista in cui rivivono l’opera-vita di Peggy Guggenheim e al contempo la passione di Luisa Casati Stampa per l’arte. Troviamo la donna nella sua casa-museo di Venezia, alle prese con le proteste degli attivisti e con i costi altissimi della gestione, l’impossibilità burocratica di dedicare più all’arte il lusso del vuoto, lo spreco intellettuale, lo scopo della provocazione; attorno a Doris è Marcel, un assistente/amante (Angelo Tronca) che cerca di mantenere l’equilibrio tra la donna e ciò che rappresenta il suo museo, cercando allo stesso tempo di accogliere l’innovazione di due artisti antitetici tra loro ma, forse, nel bene e nel male complementari: Lux (Barbara Mazzi) e Andy (Yuri D’Agostino), forse entrambi immaginari, ma capaci di interpretare la provocazione portandola oltre un limite apparentemente invalicabile. La scena di Marina Conti e le luci di Giulia Pastore definiscono il bianco vorticoso delle pareti e dell’abito che ingloba, disperde lo sguardo e fa apparire le opere esposte nella loro solitudine, proprio la stessa di Doris; poi, quando il bianco cede luce, lo spazio si ammanta di un’atmosfera più calda, in cui prevalgono il giallo tenue e il rosa, un crescente presagio che penetra ogni angolo al punto da far emergere una domanda: chi vive in una casa-museo finisce poi per farne parte? La Marchesa – una Marinelli che passa tra le opere come anche lei fosse tale – è poi disgiunta dall’arte cui ha dato lustro? Il discorso attorno all’arte è lucido, il testo di Barile denso di stimoli urgenti, tuttavia la regia di Lorenzi manifesta un impeto che sembra poco funzionale perché emerga al meglio, tutta l’energia in eccesso innesca una recitazione a tratti scevra di modulazioni avvolgenti, cadenzate, il cui risultato è raffreddare una riflessione invece vivace con cui l’arte dovrà, presto o tardi, fare i conti. (Simone Nebbia)

Visto al Teatro Elfo Puccini. Crediti: di Magdalena Barile; regia Marco Lorenzi; con Ida Marinelli, Barbara Mazzi, Yuri D'Agostino, Angelo Tronca; scene Marina Conti; costumi Elena Rossi; luci Giulia Pastore; suono e video Gianfranco Turco; effetti scenici Tommaso Serra; assistente alla regia Giorgia Bolognani; assistente alla regia stagista Alessio Boccuni; foto proiettate sulla scena: Guido Harari e Armin Linke (dall'archivio del teatro); foto di scena dello spettacolo Laila Pozzo; produzione Teatro dell’Elfo, Ama Factory

SECONDO PIANO (di Andrea Giovalé regia Michele Eburnea)

Non diremmo giovani perché sarebbe fare loro un torto. Ormai la categoria - fiaccata dalla retorica escludente dei bandi, dal finto interesse della politica, dalla delusione degli adulti – merita invece di eclissarsi nel suo stato e goderselo finché dura senza che glielo si ricordi. Andrea Giovalé, Michele Eburnea e Sara Mafodda sono innanzitutto tre professionisti che hanno debuttato lo scorso weekend all’Altrove Teatro Studio con Secondo Piano un testo agile ma rigoroso, scandito da tempi comici matematici che, conservando l’impostazione di un esercizio registico- drammaturgico lo porta alla sua maturità completandolo con una scrittura complessa e a più livelli (ipotizziamo anche a più mani). Dopo i titoli di testa che ricordano molto le sitcom degli anni 80’-90’, sul divano appaiono Mumu (Eburnea) e Muma (Mafodda): si definiscono un duo artistico ma non lo sanno fin quando un funzionario (Giovalé) si inserisce nella loro bolla duale – efficace la scelta dei costumi blu in tinta con il divano – e inizia a fare loro delle domande su cosa sono, cosa pensano, cosa vogliono. Ed è proprio davanti a uno di questi interrogativi che la loro solidità viene scalfita da un “sì” dato al posto di un “no”. Del resto le relazioni è così che finiscono, quando diamo risposte diverse a domande inattese. In una drammaturgia ipertestuale ibridata dal linguaggio televisivo, da riferimenti alla slapstick comedy, tra gag e colpi di scena, i tre raccontano un divorzio consensuale in quattro appuntamenti: dalla separazione, alla stipula, fino alla fine. Senza quel rallentamento del ritmo dato da un superfluo intermezzo metateatrale e forse stemperando lievemente il pathos del finale, Secondo Piano crea empatia - Mafodda e Eburnea sono tanto uguali quanto diversissimi - coinvolge per verosimiglianza al tema riuscendo però a creare degli slittamenti di senso, a guardare da fuori i nostri sentimenti con intelligenza umoristica. È un attento uso del mezzo teatrale che non dimentica le logiche della scena, pur contaminandole proficuamente con riferimenti che spaziano dalla tv al cinema alla musica. (Lucia Medri)

Visto all’Altrove Teatro Studio: di Andrea Giovalè; Sara Mafodda; Michele Eburnea; Con Michele Eburnea; Sara Mafodda; Regia Michele Eburnea; Foto di Grazia Menna

BOCCONI AMARI – SEMIFREDDO (di Eleonora Danco)

Lo chiamano istinto filiale in psicologia, quell’attaccamento che si esplicita nella tessitura dei rapporti e anche, soprattutto, nelle nevrosi. Eleonora Danco - che più passano gli anni e più rende affilata, perturbante, imprevedibile la sua ferocia – eleva questo istinto alla sua degenerazione in Bocconi amari – semifreddo, visto al debutto al Teatro Vascello. Una pièce minimale e animale, grigio bluastra come i costumi di scena, che, nella concitazione di un ritmo scenico impeccabile sin dalle prime battute, mette in scena, divorandolo, il dramma borghese di una famiglia romana. In un salotto che sembra di cemento, livido e asettico, il padre Franco (Danco), la madre Maria (Orietta Notari), la figlia Paola (Beatrice Bartoni), i figli Luca (Lorenzo Ciambrelli) e Pietro (Federico Majorana) si riuniscono per il compleanno della madre e attorno alla tavola iniziano a scannarsi. L’interpretazione attoriale e i suoi movimenti si incastrano alla perfezione in un meccanismo di alzate, sedute, silenzi, rimbrotti, imprecazioni e qualche carezza: la madre è insoddisfatta, il padre la difende, la figlia è autolesiva e i figli frustrati. Due attrici mature – Danco e Notari – incontrano due attori e un’attrice più giovani ma non c’è alcuna differenza o paternalismo attoriale, al contrario il livello di onestà scenica uniforma il cast e livella i vari gradi di esperienza. Il primo atto si conclude con la morte della madre, il secondo si apre con il compleanno del padre; sono passati vent’anni e tutto è peggiorato. La crisi economica ha allargato le ferite, i problemi sono incancreniti, ma è qui che la scrittura di Danco lenisce la violenza inserendo dei soliloqui che rifuggono il cinismo del reale, tramite i quali i personaggi si staccano dalla crudeltà dei loro corpi, invecchiati, piegati, indolenziti, plastificati, per evadere nei ricordi d’infanzia, dove c’è ancora aria per il desiderio, reso scenicamente da una danza sollevata sotto una pioggia di fogli di carta, piani di vita effimeri, mai realizzati. Ingoiamo allora il boccone, ma non sappiamo se riusciremo a mandarlo giù. (Lucia Medri)

Visto al Teatro Vascello: scritto e diretto da Eleonora Danco, con Eleonora Danco, Orietta Notari, Federico Majorana, Beatrice Bartoni, Lorenzo Ciambrelli; Costumi Massimo Cantini Parrini; Assistente costumi Jessica Zambelli; Scenografia Francesca Pupilli e Mario Antonini Luci Eleonora Danco; Musiche scelte da Marco Tecce; aiuto regia Manuel Valeri e Maria Chiara Orti; regia Eleonora Danco; produzione La Fabbrica dell’Attore/Teatro Vascello – Teatro Metastasio di Prato.

GISELLƏ (coreografia di Nyko Piscopo)

Audace, per niente scontata, pur non senza qualche lentezza (nella parte iniziale), è la versione di Gisellə del giovane coreografo (sempre un po’ rannuvolato ma anche spesso mordace e gioioso e curioso e dio solo sa cos’altro) Nyko Piscopo del gruppo Cornelia. Visto in prima assoluta nella bella stagione di danza del TPE al Teatro Astra di Torino. È tutto un atto bianco, sembra la vendetta di un ex-ballerino di fila che spazientito tira un secchio di vernice su tutto quanto, ma invece è un atto d’amore per ciò che ancora è capace di restanza. Molto semplicemente: ogni forma dell’amore. La scena è frugale ma funzionalissima: essenziali strutture lignee sono le capanne del villaggio (del primo atto) ma nella loro radicale semplicità sembrano segni presi in prestito da dipinti di Klee. Il suono, pieno anche di silenzî, sembra musica concreta ma quella bella anni 70 (composta oggi da Luca Cianciello). Vi sono almeno due intuizioni intriganti e ben pensate: Gisellə quando si scopre tradit* si frizza, letteralmente muore per congelamento (e qui Leopoldo Guadagno dà il suo meglio: è una immobilità rabbiosa epperò sofferta, come una rediviva Straccia-capelli-Fracci); lui, Albrecht, il farabutto traditore (Nicolas Grimaldi Capitello maturato e in grande forma) tenta di riscaldarl* ma invano, il corpo gli si spezza proprio fra le braccia; segue un lutto collettivo che è una grottesca gran cagnara (ma la splendida Eleonora Greco, qui Batilde poi suora/badessa che dirige il funerale, mi rassicura: «a Napoli, quando muore qualcuno, facciamo sempre così») poi, per la parte delle Willi, Mirta è nel primo piano di uno Yul Brinner circondato da casalinghe in forma di spettri che sciabattano in uno spazio video, e che dal video (il filmato è il lago del secondo atto) martorizzano il corpo vivo del farabutto traditore manipolandone i gesti (il virtuale insegue e opprime, come nei sogni, il reale); il maledetto verrà salvato, nuovamente. I bellissimi costumi sono pensati quasi come corpi di uno spettacolo a parte, anch’essi tutti costretti in questo ingegnoso, difficilissimo bianco. (Stefano Tomassini)

Visto al Tpe Teatro Astra Nyko Piscopo sound design e musiche originali Luca Canciello scenografia Paola Castrignanò costume design Daria D’Ambrosio costume design (video) Pina Raiano video artist Andrea de Simone aka Desi danzatori Mimmina Ciccarelli, Nicolas Grimaldi Capitello, Leopoldo Guadagno, Eleonora Greco, Raffaele Guarino, Francesco Russo, Sara Ofelia Sonderegger, Matilde Valente danzatori (video) Marina Iorio, Giuseppe Li Santi, Samantha Marenzena, Rita Pujia, Chiara Saracco foto Serena Nicoletti management Vittorio Stasi produzione Cornelia co-produzione Scenario Pubblico – Centro di Rilevante Interesse Nazionale per la danza supporto ATERBALLETTO – Fondazione Nazionale della Danza; Asti Teatro, Officine San Carlo

HO RAPITO PAOLO MIELI (di Diego Frisina)

Il teatro d’autore ha difficoltà ad immergersi nella realtà dei personaggi e della cronaca contemporanea, il racconto teatrale ha bisogno di una serie di filtri, temporali, poetici e artistici in generale per potersi accostare a qualcosa che trova posto nei giornali o nelle trasmissioni televisive. Storicamente il palcoscenico è stato anche il luogo della satira, oggi però a parte qualche tentativo della stand-up comedy la satira sembra essere stata inglobata nei linguaggi comici dei social tra meme e citazioni televisive. Interessantissimo dunque questo tentativo più che riuscito di Diego Frisina, diretto insieme a Mario Pizzuti (lo spazio di Torpignattara figura anche come produttore dimostrando quanto un luogo indipendente possa fungere da incubatore): Ho rapito Paolo Mieli, racconto apparentemente strampalato (già il titolo dice molto dell’assurdità radicale dell’ autore) in cui lo stesso Frisina, sul palco con ottime dote da attore, è il protagonista di una vera epopea morettiana (per l’ironica analisi politica), e nella quale alcuni protagonisti del mondo mediatico-intellettuale devono vedersela con guerre e politici senza scrupoli come in un fumetto che potrebbe ricordare le scorribande di Zerocalcare. Tutto parte da un invito nel famoso programma di Lilli Gruber, Otto e Mezzo, solo che invece della puntata in cui Frisina avrebbe dovuto parlare delle ragioni del suo mestiere di attore gliene tocca una in cui viene invitato a commentare un dibattito sulla guerra. Qui nascono gli interrogativi: come può oggi qualcuno che si definisce pacifista impegnarsi attivamente per la causa? La risposta sta in un geniale ribaltamento comico, la costituzione di un gruppo armato pacifista, con tanto di bandiera arcobaleno sulla quale campeggia un Kalašnikov. Il racconto prenderà sempre di più svolte surreali, come appunto il rapimento del famoso giornalista, e in un paio di occasioni sarà supportato dalla proiezione di suggestive illustrazioni. Ho rapito Paolo Mieli è una bellissima e coraggiosa sorpresa, si spera in tante altre repliche. (Andrea Pocosgnich)

Visto al Teatro fortezza Est. Crediti: di e con DIEGO FRISINA regia di MARIO PIZZUTI e DIEGO FRISINA sound design ALLESSANDO SCORTA e GIANLUCA FRADDOSIO animazioni MARINA ANGELUCCI co-prodotto da FORTEZZA EST

AMADEUS (Ferdinando Bruni e Francesco Frongia)

Salieri. Di spalle alla platea e rivolto verso la propria storia, riverso al passato come l’Angelus Novus di Paul Klee narrato da Walter Benjamin. Salieri il compositore glorificato da Dio, almeno finché Dio non si accorse che la musica aveva un altro nome: Wolfgang Mozart, detto Amadeus. È questo il titolo dell’opera di Peter Shaffer, al cinema per l’omonimo film di Milos Forman, in prima nazionale sul palco del Teatro Elfo Puccini per mano di Ferdinando Bruni e Francesco Frongia, con i sontuosi costumi di Antonio Marras. Salieri (lo stesso magnetico Bruni) ormai vecchio e cadente – forse pentito? – ripercorre a ritroso l’itinerario che va dall’incontro con il giovane Mozart (sfrenato e pure incisivo Daniele Fedeli), nella Vienna di fine Settecento, alla morsa stringente che lo porterà alla depravazione del genio, prima, e poi alla morte, del corpo e non dell’arte. Tra gli stucchi della dimora dell’imperatore Giuseppe II (Umberto Petranca che ne interpreta una divertente alterazione), Salieri e Mozart si trovano come rappresentanti di uno spartiacque decisivo: il vecchio compositore di tragedie epiche che esaltano un passato forse ormai tronfio e cadente, il giovane che possiede il tocco dell’arte e sembra giunto per rompere con tutta la musica precedente, guardando al classico e al contemporaneo con occhi nuovi, pronto a raccogliere il testimone per gettarlo in un pozzo; nel sogno musicale di Mozart è il mondo intero che si apre a lui con evidenza vibrante e, infine, schiacciante, le sue opere destano scandalo perché vere, prive di affettazione, definitivamente moderne. Bruni e Frongia, scegliendo una messa in scena classica, raffinata e solo lievemente ampollosa, compongono un labirinto entro cui Salieri – nel film e nell’immaginario erroneamente responsabile della morte del giovane – prepara il proprio particolare veleno, ossia portare Mozart al disfacimento, trascinare il suo genio a specchiarsi in un mortale confronto con la propria ombra. Ma la storia, nel quadro di Klee e in questa vicenda, osservata alle spalle ha il corpo rivolto al futuro, il tempo, ogni giorno, rinnova il mondo, ogni ritmo che batte un cuore vivo glorifica Mozart e dimentica Salieri. (Simone Nebbia)

Visto a Teatro Elfo Puccini. Crediti: di Peter Shaffer; uno spettacolo di Ferdinando Bruni e Francesco Frongia; costumi di Antonio Marras; con Ferdinando Bruni: Antonio Salieri; Daniele Fedeli: Wolfgang Amadeus Mozart; Valeria Andreanò: Costanze Weber, moglie di Mozart; Riccardo Buffonini: Venticello, procuratore di informazioni e pettegolezzi; Matteo de Mojana: Barone Gotrfried Van Swieten, prefetto della Biblioteca Imperiale; Alessandro Lussiana: Venticello, procuratore di informazioni e pettegolezzi; Ginestra Paladino: Contessa Johanna Kilian Von Strack / Katharina Cavalieri, cantante; Umberto Petranca: Giuseppe II, Imperatore d'Austria; Luca Toracca: Conte Franz Orsini-Rosenberg, direttore dell'Opera Imperiale; luci Michele Ceglia; suono Gianfranco Turco.

SCENE DA UN MATRIMONIO (di I. Bergman, regia R. T. Vogel)

Partire da uno dei capolavori di Ingmar Bergman non è mai un compito facile. Il rischio di creare un feticcio è alto, come quello di appiattire l’acutissima l’introspezione psicologica che da sempre ha caratterizzato le opere del noto regista. Partire da Ingmar Bergman con due attori come Sara Lazzaro e Fausto Cabra richiede uno sforzo registico anche maggiore: la capacità di integrare in scena due spiriti camaleontici e dalla forza comunicativa prorompente, di far sì che entrino nei personaggi senza fagocitare bulimicamente la trama di cui sono protagonisti e di far respirare il teatro in un’opera cinematografica di cinquant’anni fa è tutta del regista Raphael Tobia Vogel, che già nei suoi lavori precedenti aveva dimostrato di aver consapevolezza nel gestire l’intricato complesso dei sistemi relazionali, delle dinamiche di coppia. Vogel collabora con Alessandro D’Alatri per l’adattamento teatrale e Nicolas Bovey per la realizzazione della scenografia – che si rivela fredda, nordica per ispirazione nei suoi toni grigi, asfittici e di una linearità disarmante – mostrandosi regista fedele all’originale ma anche generoso nelle scelte attoriali. Sara Lazzaro è Marianna, una donna “pre-impostata”, che non sa definirsi se non in rapporto alla sua funzione o ruolo sociale. Madre, moglie, figlia, il suo disorientamento esistenziale è apatico e la sua tonalità vocale sempre tendente verso l’alto, come se si aprisse costantemente al dubbio. Fausto Cabra è il marito Giovanni, un uomo meschino e spesso ubriaco che le è infedele, e che dimostra così, attraverso il tradimento, l’incapacità a comunicare l’insofferenza per la coppia, logorata dalle abitudini vuote e dalla falsa apparenza. L’illusione di una famiglia felice. Nell’allontanamento dal nucleo famigliare, Giovanni perde se stesso ma pone le basi per il riscatto di entrambi, la separazione non è più solo cesura ma motivo di ricerca interiore, la possibilità ultima di fuoriuscire dal proprio rigido incasellamento. Si ritrovano, alla fine di tutto, e si confessano come chi ha capito d’essere realmente cambiato. “Alla fine – ammettono – siamo riusciti a diventare umani”. (Andrea Gardenghi)

Visto al Teatro Franco Parenti. Crediti: di INGMAR BERGMAN, traduzione italiana Piero Monaci, adattamento teatrale Alessandro D’Alatri, regia Raphael Tobia Vogel, con Fausto Cabra e Sara Lazzaro, scene Nicolas Bovey, luci Oscar Frosio, musiche Matteo Ceccarini, costumi Nicoletta Ceccolini, contenuti e montaggio video Luca Condorelli, produzione Teatro Franco Parenti

RADIO ARGO (regia Peppino Mazzotta)

Avete mai avuto voglia di riprendere un abito dall’armadio che non indossate da molti anni, solo per vedere se vi sta ancora bene? Deve essere accaduta qualcosa del genere a Peppino Mazzotta che, sulla scena con Radio Argo di Igor Esposito già tredici anni fa, decide oggi di tornare al Teatro India in questa riscrittura dell’Orestea per voce sola, ma con un habitat sonoro maestoso (da cui il suffisso suite) curato da Massimo Cordovani, autore ed esecutore delle musiche (tastiere, synth, handpan, chitarra elettrica, glockenspiel), sulla spoglia scena insieme a Mario Di Bonito (batteria, xilofono). Un uomo teso come un fusto che dal suolo si erge verso l’alto, nello spazio che si direbbe occupato proprio dagli umani, tra la terra dove poggiano le loro azioni e il cielo dove solo possono gli dei. Ma nell’antica Grecia, gli uni e gli altri potevano forse concorrere unisoni, le scelte degli umani dagli dei determinate, le ire di questi ultimi confluite nei destini del mondo terrestre. Le voci, in una sola, che Mazzotta inarca verso l’ascolto di una platea più ampia di quella solo teatrale, sono quelle dei protagonisti dell’opera di Eschilo, ma intrecciate in confessioni che giungono come arringhe oltre le scelte compiute, o subite: Ifigenia bambina va incontro a un tradimento che si chiamerà sacrificio, Agamennone reo e re amato e al contempo inviso ai propri sudditi, Clitennestra moglie che non sopisce la vendetta, Egisto usurpatore di trono, Cassandra uccisa ed esule due volte, la cui memoria trascina l’onta da Troia fino in Grecia, infine Oreste che attende, compie per sé ed Elettra un destino che da sempre conosce, agisce sia pur agito dagli eventi cui mai potrebbe sottrarsi. Ognuno di essi, nell’ambiente che la musica edifica attorno alla vicenda e soprattutto nella scrittura preziosa, vibrante e anche tenera di Esposito, esprime i meriti e le bassezze, le colpe e le pene cui la giustizia divina li chiama, raccogliendo una domanda terribilmente contemporanea: che ne è, dopo, della carneficina? Ne resta memoria? Oppure il sangue, nel tempo, attenua l’urgenza del proprio colore? (Simone Nebbia)

Visto al Teatro India. Crediti: di Igor Esposito; con Peppino Mazzotta; musiche originali di Massimo Cordovani eseguite dal vivo con Mario Di Bonito; regia di Peppino Mazzotta; post produzione live dei suoni a cura di Andrea Ciacchini; responsabile tecnico Jacopo Andrea Caruso; Produzione Teatro Rossosimona

VACANZE DI GUERRA (di I. G. Barba regia F. Ceriani)

La bulimia di onnipotenza e di opulenza è tale che non ci stupiremmo se le agenzie di viaggio iniziassero a programmare dei viaggi nelle zone di guerra per vivere esperienze uniche nella vita, sconvolgenti, cariche di emozioni. Questo è un ipotetico futuro immaginato in Vacanze di guerra dal drammaturgo Ignasi García Barba – i cui testi posso essere scaricati gratuitamente a questo link – e portato in scena nell’adattamento diretto da Ferdinando Ceriani e interpretato da Valentina Martino Ghiglia. La protagonista Berta si rivolge sin da subito al pubblico presente trattandolo come fosse un gruppo di villeggianti in trepidante attesa di esperire sulla propria pelle cosa si prova a stare in un conflitto. Montata in scena una tenda, ricoperta da un tappeto di foglie per mimetizzarsi, Berta entra ed esce da quello spazio per dare indicazioni utili al soggiorno: distribuisce volantini, impartisce ordini e sciorina raccomandazioni. La sua però è una postura nolente, preoccupata, infastidita; lei per prima è consapevole della boriosità egoistica di un simile viaggio ma è costretta a portare avanti questo lavoro perché a casa la aspettano un figlio piccolo, e un marito nullafacente, e poiché lei è stata licenziata da una casa editrice, non ha altre alternative se non questa. La drammatica semplicità del testo, la sua schiettezza nel dispiegarsi senza eccessiva retorica ma con screziature ciniche e tragiche, potrebbe essere supportata da un’interpretazione più densa e sfaccettata, meno bidimensionale e meno ripiegata sull’aspetto più commiserevole del carattere di Berta. È infatti attraverso di lei che sperimentiamo l’assurdo e l’orrore del viaggio ed è tramite di lei infatti che esprimeremo nel finale il lato peggiore della nostra natura. (Lucia Medri)

Visto all’Altrove Teatro Studio: di Ignasi García Barba, traduzione Valentina Martino Ghiglia, con Valentina Martino Ghiglia, drammaturgia sonora Diana Tejera, elementi scenici e costume Carlo Sala, assistente alla regia Isotta Tomassini, regia Ferdinando Ceriani

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