Cordelia - le Recensioni

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OGNISSANTI (di S. Petyx, regia E. Vetrano e S. Randisi)

Le mani, prima di tutto. Si agitano nello spazio conteso tra la luce e il buio, ossute ma non meno eleganti tagliano l’aria come si vedesse, come fosse tangibile, percorrono sentieri di azioni e li distendono, sembrano liberarli dagli ostacoli, perché ci possano star sopra le parole. Non va via questa immagine dal palco di Ognissanti, le mani sono di Enzo Vetrano, là alle sue spalle sulla parete c’è Stefano Randisi, immobilizzato dall’arte e dalla storia in egual misura, il teatro è il Fabbricone di Prato per l’ennesimo lavoro riuscito nella stagione ideata da Massimiliano Civica. Ci sono due santi, in questo testo di Sabrina Petyx scritto apposta per i due attori, sono raffigurati in due dipinti contigui, appesi alla parete di un possibile museo, tesi in posizioni evocative di una beatitudine da nobiltà religiosa, che lasciano intuire le azioni per cui hanno raggiunto in vita l’imperitura memoria ultraterrena. Eppure, chissà, saranno due santi anonimi? Sono loro stessi a dirlo quando, forse nella solitudine di un museo chiuso, iniziano a muoversi e parlare tra di loro. Vetrano compie il gesto di uscir fuori, sfonda i contorni del proprio riquadro e acquista la terza dimensione, quella della relazione con lo spazio e il tempo, mentre l’altro santo resta dentro, tiene lo scranno del proprio alto grado; ecco che le luci di Max Mugnai, forti e nette a battere tra il buio e il rosso cardinalizio, disegnano due piani in dialogo tra loro, un dentro e fuori non dalla scena ma dal dipinto. Ma sono poi davvero, questi, due santi? O forse solo due modelli di allora che la smemoratezza della finzione ha così dipinto? C’è un’impostazione pirandelliana in questi due personaggi in cerca d’autore, o meglio, in cerca di comprendere se il tempo abbia reso santi questi due inquisitori morti ammazzati o sono ancora due poveracci come allora. La regia di Vetrano e Randisi, sostenuta dalle musiche di Gianluca Misiti che sceglie un percorso classico, evolve con qualche lentezza nell’ascesa del climax, ma governa la commistione tra un comico da marionetta e il tragico con pazienza e maestria. Santi oppure no, “chiunque – dicono – darebbe la vita per una cornice dorata”. (Simone Nebbia)

Visto al Teatro Fabbricone. Crediti: di Sabrina Petyx; interpretazione e regia Enzo Vetrano e Stefano Randisi; scene e costumi Mela Dell’Erba; luci Max Mugnai; musiche originali Gianluca Misiti; produzione Teatro Metastasio di Prato

L’UOMO DEI SOGNI (di Giampiero Rappa)

I personaggi che appaiono nei nostri sogno sono nostre creature, pezzi sparsi di un subconscio palpitante che si scatena durante la notte. Al povero Giovanni vengono a fare visita strani individui, i quali, subito dopo l’apertura del sipario addirittura invocano diritti sindacali, come in una moderna versione dei personaggi pirandelliani in cui questi sono dei lavoratori che reclamano una vita dignitosa. Ma nel caso de L’uomo dei sogni scritto e diretto da Giampiero Rappa, la causa non è la “servetta fantasia” come per il genio agrigentino (o almeno non solo), qui è la depressione ad aver aperto la porta a uomini neri e fantasmi di altro tipo che appaiono durante la notte scavandosi un buco nella rete del sonno come avviene con le parasonnie. In una scena semplice, ovvero l’interno di una casa pronto ad adattarsi grazie a luci e tende nei luoghi dell’incubo o nel corridoio di un aereo, Nicola Pannelli è generoso e profondo come sempre, il suo Giovanni è un fumettista, accanto a lui Elisabetta Mazzullo, una figlia volitiva, diretta, ma anche amorevole, tornata dall’altra parte dell’oceano per stare vicina al padre. Funambolici Andrea Di Casa ed Elisa Di Eusanio nel dare vita, carattere e voci agli inquilini della mente e a un socio di Giovanni, Guido (che ha buone colpe sulle frustrazioni del protagonista) e a una vicina che allevierà la solitudine dell’uomo. Lo spettacolo riesce a mescolare una piacevole leggerezza con momenti di riflessione, è un gioco per attori e attrici che tiene la platea in una attesa ricettiva, anche grazie alle ottime idee registiche con cui Rappa deve gestire i complessi piani del racconto e le suggestive intersezioni tra il mondo reale e quello onirico. Nel finale si ribalterà la situazione e Giovanni dovrà salire su un aereo per andare in aiuto della figlia: ma ormai sogno e realtà saranno diventati un'unica verità tangibile, quella del teatro, in cui tutto è possibile. (Andrea Pocosgnich).

Visto al Teatro Sala Umberto. Scritto e diretto da Giampiero Rappa Con Andrea Di Casa, Elisa Di Eusanio, Elisabetta Mazzullo, Nicola Pannelli Costumi: Lucia Mariani Musiche: Massimo Cordovani Disegno luci: Gianluca Cappelletti Assistente alla regia: Michela Nicolai Direttore di scena: Davide Zanni Scene: Laura Benzi Organizzazione Rosi Tranfaglia

COME UN ANIMALE SENZA NOME (di Lino Musella)

A sinistra, difronte Luca Canciello ai suoni (fischi, distorsioni, battiti in loop) e alle spalle, in quinta, Igor Esposito, che di Come un animale senza nome cura la drammaturgia. Musella si siede con davanti un microfono. Così perché in un teatro che fa da camera amplificatoria si senta Pasolini, usando la premessa di Poeta delle Ceneri come tronco biografico da cui diramare rime e pagine (da Pietro II a Il pianto della scavatrice, da La ballata delle madri a Gli italiani) a brandelli perché tolte agli artigli dell’oblio. Ne vengono l’eco indistruttibile d’una vita e una chiamata coscienziale dagli inferi perché si ridesti in noi la rabbia, che «se ti guardi intorno ti accorgi della tragedia», che aspetti? Dunque Bologna, il padre-nemico, la madre che fa la serva, Roma, le borgate, il fazzoletto rosso dei contadini, gli ordini delle madri all’origine dei compromessi del presente («Covate nel petto la vostra integrità d’avvoltoi!»), il fascista cui, senza farsi illusioni, chiede di amare i poveri, i nomi di chi mise le bombe o sporca l’Italia ogni giorno (abuso di denaro pubblico, uso illecito degli enti, «distribuzione borbonica di cariche agli adulatori»: intendiamoci, riguarda anche il teatro). Che così fa un’intellettuale: solo, e che non ha nulla da perdere. Ma il valore di Come un animale senza nome oltre che nel testo è nel corpo: Musella sempre di profilo, a rifiutare la frontalità dell’interpretazione mascherale. Mani alle ginocchia, busto ritto, capelli con la fila, occhiali, il volto scarnificato da una luce: Pasolini s’intravede solo come fosse l’orlo o l’ombra della pelle. Il rap di Le ceneri di Gramsci, Siamo tutti in pericolo in crescendo – come per la lettera di Eduardo a Tupini in Tavola tavola, chiodo chiodo… – perché sia uno schiaffo. Già, Eduardo. Morto Pasolini Musella ci guarda: «Non li toccate quei diciotto sassi» messi a difesa di una voce altissima. Li levigherà il vento, la pioggia li farà lucenti, «non li toccate». Così disse il Maestro, ossuto, tremando. (Alessandro Toppi)

Visto a Sala Assoli. Crediti: testi di Pier Paolo Pasolini, un progetto di e con Lino Musella, musiche originali di Luca Canciello eseguite dal vivo, drammaturgia Igor Esposito, produzione La Fabbrica dell’Attore, Teatro Vascello Cadmo

MADRI (di D. Pleuteri, regia A. Sinigaglia)

A leggerlo il testo del ventisettenne Diego Pleuteri potrebbe trarre in inganno facendo pensare alla necessità di una struttura registica corposa, di un solido immaginario dal punto di vista della costruzione scenica e dunque dell'invenzione teatrale. Alice Sinigaglia, che d’altronde rispetto all’autore ha solo un paio di anni in più, mostra invece una evidente fiducia nel testo e negli attori. Riuscire a far emergere il mondo che si nasconde dietro le parole di Madri, non c’è molto altro in questo allestimento eppure è tantissimo. In una scena che articola lo spazio tra tavoli, microfoni, sedie, leggii e scatoloni Valentina Picello e Vito Vicino (il secondo è straordinario per come tiene il passo di un’attrice fenomenale per ricchezza tecnica e inferiore) cominciano con una sorta di lettura, qui Sinigaglia si diverte a giocare metateatralmente sulle diverse possibilità sceniche: come se la realtà del primo dialogo tra madre e figlio dovesse trovare un corrispettivo nella realtà del teatro, nella relazione tra attrice esperta e giovane interprete. Lo spettatore potrebbe pensare di avere avuto la sfortuna di assistere a una mise en scène, ma poi tutto cambia, i fogli del copione torneranno in seguito, con quel rumore di sottofondo che sarà il corrispettivo sonoro delle blatte tanto presenti nel testo, i brani registrati, e quell’atmosfera onirica che lentamente si prenderà la scena, in maniera sottile e quasi lynchiana. Il testo di Pleuteri (che nonostante la giovane età può vantare anche una collaborazione con Leonardo Lidi) svela con grazia - e tutto nel dialogo - i caratteri e fragilità: i due personaggi «hanno la testa bucata, i loro pensieri fuoriescono senza sosta», spiega Sinigaglia nelle note di regia,  la madre interpretata da Valentina Picello è intelligente e ironica, ma è alle prese con un buco interiore che difficilmente si ricuce, anzi forse nonostante le visite del figlio si allarga lasciando intravedere stati depressivi e problemi di memoria. Si parla di cose apparentemente piccole e futili, di una parola dimenticata in un articolo, di doveri genitoriali disattesi e non c’è bisogno del dramma, ché questo già brulica nel silenzio di una solitudine che riconosciamo nei giorni neri di questa nostra epoca. (Andrea Pocosgnich)

Visto al Teatro Biblioteca Quarticciolo. Di Diego Pleuteri con Valentina Picello e Vito Vicino regia Alice Sinigaglia sound designer Federica Furlani scenografo Alessandro Ratti luci Luca Scotton produzione La Corte Ospitale coproduzione SCARTI Centro di Produzione Teatrale d’Innovazione con il contributo della Regione Emilia-Romagna con il sostegno del MiC e di SIAE, nell’ambito del programma “Per Chi Crea”

TRE GIORNI (di Federico Malvaldi)

Di fronte al pubblico di Fortezza Est una file di sedie, quelle della sala d’accoglienza degli ospedali, o di altri luoghi e uffici pubblici, c’è seduto un uomo, giovane, la testa è coperta da un copricapo, una larga felpa di pile lo avvolge. Dietro di lui un set di luci che ora illuminano di verde l’atmosfera, una melodia orecchiabile accompagna la sofferenza dell’uomo, il volto si contrae e poi le mani vanno lì in basso, a coprire la vergogna. Perché il corpo non controlla più certe sue funzioni durante la malattia, a causa dei tanti farmaci. Rob fra tre giorni dovrà essere operato, gli è stato diagnosticato un tumore alla spina dorsale; non vuole dirlo alla madre e ha un amico che quotidianamente verrà per tentare di convincerlo a mangiare. Quando lo spettacolo scritto e diretto da Federico Malvaldi si apre al pubblico siamo già nel mezzo di relazioni maturate in giorni di ospedalizzazione, Rob se la prende con tutti, compresa un’infermiera premurosa e una tirocinante, Emanuela, futura dottoressa con la quale stabilirà un rapporto speciale. La messinscena è semplicissima - la fila di sedie rappresenta anche il letto, dietro vi è un carrellino per gli effetti personali e un’asta porta flebo - e gioverebbe forse una minore frontalità: è pur vero che le entrate e uscite sempre laterali e dalle quinte degli altri personaggi sono sensate nella visione in soggettiva del paziente ospedalizzato ma sarebbe interessante vagliare alternative registiche. Questo giovane gruppo di attori (Daniele Paloni, Francesca Astrei, Veronica Rivolta e Luca Carbone) punta tutto sulla naturalezza, attraverso un tema che rischierebbe facilmente di prestare il fianco alla retorica o a rassicuranti sdolcinatezze. Eppure il testo resiste pur nella sua immediatezza quotidiana, anzi tocca momenti divertenti e alti, la riflessione sulla morte è prima sottotraccia e poi esplicita, senza peli: poche ore prima dell’operazione Rob vorrebbe fuggire tanta è la paura e una notte aveva tentato anche di trovare conforto - senza riuscirci - nella preghiera; quel 50% di possibilità di salvarsi è una spada di Damocle sui suoi pensieri. (Andrea Pocosgnich)

Visto a Fortezza Est. Scritto e diretto da Federico Malvaldi Con Daniele Paloni, Francesca Astrei, Veronica Rivolta e Luca Carbone Costumi di Marta Montanelli Suono di Leonardo Raspolli Assistente alla regia Alice Casagrande Una produzione Compagnia Mauri Sturno In collaborazione con Remuda Teatro E.T.S.

ANNA CAPPELLI (di A. Ruccello, regia R. Chiocca)

Al Cometa Off la platea spiovente, che permette un’ottima visuale all’intero pubblico, finisce molto vicina alla scena: siamo lì, pronti a scrutare ogni minimo segnale, ogni espressione attorale, ché tutto si amplifica in quello spazio. La Anna Cappelli di Giada Prandi entra ed esce da uno spazio quadrato reso tridimensionalmente attraverso un semplice telaio bianco, idea esteticamente funzionale ma meno efficace dal punto di vista drammaturgico dato che l’attrice vi rimarrà chiusa chiusa solo nel finale, in una sorta di prigione immaginaria, soluzione tra l’altro un un po’ telefonata rispetto al finale post omicidiario. E qui d’altronde sta il problema dello spettacolo: il testo di Annibale Ruccello è un classico della drammaturgia in grado di scandagliare le profondità dell’animo di una giovane donna durante il boom economico. Siamo nei ‘60, Anna lavora, è indipendente ma deve comunque avere a che fare con i tabù sociali che la vorrebbero sposata e non convivente con il suo Tonino, il percorso drammaturgico però è semplice: Anna si innamora, va a convivere con un ragioniere conosciuto in ufficio e viene poi lasciata dall’uomo, l’azione sanguinaria finale va letta non come una vendetta ma come una volontà di possessione sovrumana sull’uomo con cui condivideva l’amore. Nella visione registica di Renato Chiocca però è già tutto amplificato, Giada Prandi usa una voce poco più alta della sua voce naturale (per poi abbassarla all'improvviso in alcuni momenti), in gran parte monotona, che racconta di una certa ingenuità del personaggio, e poi però gli occhi sbarrati a evidenziare gli eccessi di follia con quel “mio, mio, mio…” a sottolineare le ossessioni di possessione. Da una parte l’interpretazione soffre di una certa esteriorità e dall’altra anticipa da subito la follia rendendo tutto meno interessante, tutto già prestabilito (si guardi al contrario la recente lettura di Tolcachir e Picello) e stereotipato, come nel finale in cui Anna si scaraventa sul corpo di tonino per mangiarlo, ma a terra non c'è nulla.  (Andrea Pocosgnich).

Visto al Teatro Cometa Off. Con Giada Prandi Di Annibale Ruccello Regia di Renato Chiocca Scena : Massimo Palumbo –Costumi : Anna Coluccia Luci : Gianluca Cappelletti – Musiche Originali : Stefano Switala Tecnico luci : Luca Carnevale

ZORRO (di Antonio Latella e Federico Bellini)

Un’illusione collettiva che si incarna in un simbolo per trasformarsi in un’idea di giustizia. È questo l’eroe mitico che Antonio Latella e Federico Bellini smontano fin dalle radici, fin nella sua essenza, in Zorro, andato in scena al Piccolo Teatro Grassi di Milano. Per farlo, la regia di Latella parte dall’esasperazione di forme e contenuti: paillettes, costumini aderenti sgargianti, luci luccicanti e suoni disturbanti – curati rispettivamente da Simona D’Amico, Simone De Angelis e Franco Visioli – sono motivi grotteschi, al limite del surreale, che vengono costantemente punzecchiati da risate sguaiate, cactus “mobili” e personaggi eroici inadatti che si rincorrono e azzuffano, si cimentano in canti e balletti e pronunciano parole sconclusionate in un linguaggio che vuole rivisitare costantemente se stesso. Sono questi i quattro personaggi – il povero, il poliziotto, il muto e il cavallo – che si muovono in un paesaggio scenico pop di eccessi e ipocrisie. Animatori di platea come di un villaggio turistico, cercano di interrogarsi sul senso (della povertà, della cittadinanza, delle carceri e dei migranti, dei morti, di tutto) ma finiscono, per carenza di focus e spessore sia nella scrittura sia nelle intenzioni stesse della pièce, a interrogarsi sul nulla. Michele Andrei, Paolo Giovannucci, Stefano Laguni e Isacco Venturini scambiano invece abilmente ruoli e maschere: aspettano e continuano per 3 ore ad aspettare qualcuno o qualcosa che non verrà, in un gioco repentino di trasformazioni e citazioni che deride l’illusione del cambiamento, per frantumare l’eroismo romantico di un’intera generazione e rivelarne il vuoto abissale che lo sottende. Qui, il mito si sgretola. L’ingiustizia resta. L’eroe si dissolve nella risata ridicola del fallimento, accolta da molti in platea. E il tratto della Z rimane, inciso nella pelle, ma come un segno che non ferisce davvero, non interroga e genera soltanto un insistente prurito. (Andrea Gardenghi)

Visto al Piccolo Teatro Grassi di Milano. Crediti: di Antonio Latella e Federico Bellini, regia Antonio Latella, scene Annelisa Zaccheria, costumi e simboli personaggi Simona D’Amico, suono Franco Visioli, luci Simone De Angelis, movimenti coreografici Alessio Maria Romano assistente alla regia Paolo Costantini, con Michele Andrei, Paolo Giovannucci, Stefano Laguni, Isacco Venturini produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa

BEHIND THE LIGHT (di Cristiana Morganti)

L’ironia è la scelta stilistica preponderante nella drammaturgia degli spettacoli autobiografici di Cristiana Morganti, storica danzatrice del Tanztheater Wuppertal Pina Bausch, che prendendo le mosse da lì si mostra al mondo con spiazzante intimità. Come era accaduto già in Moving with Pina (2010) e Jessica and me (2104), pezzi fondamentali del percorso di Morganti “dopo Pina”, l’interazione col pubblico e la negazione della sua aspettativa, fa della performance qualcosa che va al di là del puro mostrarsi, assimilabile più a un estratto del suo diario personale. Ancor più che in passato c’è il desiderio di interrompere la fluidità della danza: interessante l’intervento dei video di Connie Prantera in cui Morganti risulta quasi grottesca mentre affronta scene di vita quotidiana cercando di non annegare nella disperazione per la malattia dei genitori, il divorzio e le nuove condizioni lavorative imposte dalla pandemia ai danzatori. Mai come questa volta il corpo, di cui ha fatto manifesto, ci appare più onesto. E in questa sua capacità falsaria, nell’ottica di un genere teatrale che dice e poi nega, che mescola la verità e l’invenzione, noi siamo la chiave di tutto. Il pubblico osannato e deriso, vantato e deluso, siamo noi a cui non si vuole più obbedire. I rumori disturbanti, la lunghezza prolungata delle scene, lo sfondamento continuo del limite del proscenio, la rabbia urlata, la conversazione diretta, sono tutti elementi stilistici che sembrano concorrere a distrarci dalla mitologia del Tanztheater. Ma questa intenzione viene puntualmente contraddetta dalla bellezza gestuale di Morganti e della sua coreografia in cui ci sembra sempre di ritrovare un’emozione antica che risale come un’onda alla nostra riva. Insieme alla performer ci sentiamo fragili e potenti, ricchi e annientati, siamo in continua mutazione. Behind the Light, presentato post-pandemia, risuona senza fatica in questo nuovo periodo storico oscuro in cui è necessario tenere sempre una luce accesa.

Visto all'Arena del Sole coreografia, drammaturgia e interpretazione Cristiana Morganti regia Cristiana Morganti e Gloria Paris disegno luci Laurent P. Berger creazione video Connie Prantera assistente di prova Elena Copelli datore luci Matteo Mattioli audio/video Giovanni Ghezzi produzione esecutiva Lisa Cantini

MILLENOVECENTO89 (Le Cerbottane)

Millenovecentottantanove. Una data, in principio. Ma una data che è pure una fine. La storia, per come la conosce chi è nato e si è formato nel Novecento, conclude in anticipo il secolo proprio in quella data. E non è soltanto per la caduta del Muro di Berlino, per la trasformazione del PCI via via in un covo di boyscout, a generare questa convinzione è la diffusa sensazione di vertigine che coglie il passaggio da un mondo definito, chiaro, a un altro che invece adotterà il caos e la velocità, sua sorella, come nuovi miti del presente. Lo spettacolo che Le Cerbottane - Laura Pizzirani e Francesca Romana Di Santo – hanno portato sul palco dell’Angelo Mai ha per titolo proprio questa data, o meglio: Millenovecento | 89, il secolo intero e il numero in coda che lo fa detonare. Le due attrici sono in scena due bambine che raccolgono il cambiamento epocale per il riflesso che porta nella loro vita, in parte consapevoli mutuando le parole dei grandi, in parte prese da uno smarrimento che emerge e si diffonde grazie agli squarci nel tempo, che riportano alla luce un certo modo di osservare e considerare la società, la preminenza della politica nel dibattito dentro e fuori la famiglia, ma allo stesso tempo anche la lassità di una classe dirigente creduta indissolubile e invece fagocitata da vanità e vigliaccheria. Squillano i telefoni della sede di partito, Marx si collega e prova a capire cosa sia accaduto, nessuno – e non solo le bambine – sa darsi una spiegazione eppure a breve, dopo un paio di mesi appena, sarà già il 1990, l’inizio dell’epoca successiva che getterà una coltre di soubrette e televendite su quella appena trascorsa. Pizzirani e Di Santo, due bambine immerse nella palude di fine secolo ma che forse volevano solo diventare Jem e le Holograms, costruiscono uno spettacolo per quadri divertenti e al contempo profondi, fanno teatro politico con pochi e solidi mezzi, soltanto nel tentativo di alleggerire una materia grave si avverte ci sia ancora un’indagine da svolgere, come se il punto non fosse ancora raggiunto e la verità più nuda su quel che siamo stati fosse, inequivocabile, in quel che ora (non) siamo. (Simone Nebbia)

Visto all’Angelo Mai. Crediti: Testo e messa in scena Laura Pizzirani e Francesca Romana Di Santo; Tecnica Camila Chiozza; Organizzazione e promozione Veronica Arietto; Una produzione Le Cerbottane; in collaborazione con AtelierSì , Angelo Mai e POLIS Teatro Festival

VIRO (Abbondanza/Bertoni)

«Ciao X, anche tu da queste parti?/ Chi, io?/ hai voglia di farmi compagnia?/ Chi io?...» X e Y se ne tornano da dove sono venuti, camminano verso il nero fondale mentre la voce off, di quelle tipiche da automa, scandisce queste frasi, i due performer aprono la bocca di tanto in tanto, come in un sogno rallentato. È una chiusura ironica, ma è anche l’epilogo in cui le due entità devono riunirsi; d’altronde nelle note di accompagnamento di Viro (ultimo spettacolo della compagnia Abbondanza/Bertoni visto al Palladium per Orbita e Equilibrio Festival) si parla di «apnea creativa» che «diventa la chiave per un nuovo stato di coscienza gemellare». Ai due gemelli viene concessa la parola solo dopo poco meno di un’ora di partiture gestuali, fisiche senza sosta che corrono veloci sulla musica techno di Olaf Bender, aka Byetone. Gesti apparentemente semplici, che «appartengono a un istinto collettivo», scrive la coreografa Antonella Bertone parlando di un codice nel quale è la «mascolinità minuscola» ad essere esposta (dopo il precedente Femina). Cristian Cucco e Filippo Porro - che non si risparmiano e non mollano un beat -,  capelli grigi con una riga al lato e t-shirt nera performano un campionario di stereotipi del maschio medio, fatto anche di mossette e mimica facciale, sempre ancorati all'incedere percussivo e rumoristico della musica: si aggiustano la maglietta, le mani sull’inguine, una spolverata ai pantaloni, i palmi battuti sul petto con il volto pronto a ringhiare, le mani in tasca, il sesso come un ginnastica. Si fatica nella parte centrale dello spettacolo, dove la coreografia non stupisce e per arrivare alla durata di un’ora ci vorrebbero idee più nette con le quali illuminare una tematica un po’ esausta. Pensiamo ad esempio ai nuovi maschi, a quelli che si definiscono femministi, a quelli che hanno riscoperto tenerezza e lacrime, Viro non riesce a fare quel salto in più di pensiero che permetterebbe di colpirci con qualcosa che non sappiamo, e invece nei cinquanta minuti di sudore e tecnica possiamo al massimo confortarci di essere tra quelli bravi, tra quelli che sanno riconoscere gesti e movenze del maschiaccio tipico.

Visto al Teatro Palladium. Di: Michele Abbondanza e Antonella Bertoni Coreografia: Antonella Bertoni Regia: Michele Abbondanza Con: Cristian Cucco E Filippo Porro Disegno luci: Andrea Gentili Direzione tecnica; Claudio Modugno Musiche: Byetone – Death Of A Typographer Sound Design; Giacomo Plotegher Consulenza musicale: Marco Dalpane Organizzazione, strategia e sviluppo: Dalia Macii Amministrazione e coordinamento: Francesca Leonelli Comunicazione e Ufficio Stampa: Francesca Venezia

TANTO VALE DIVERTIRSI (Uno e trio)

Il fondale chiuso da un sipario di pesante velluto, ai lati il retro delle quinte, al centro una cornice imperlata di lampadine che è insieme specchio di camerino e centro della scena di questa scheggia di metatetralità divertita e, insieme, funesta. Siamo dietro le quinte di un teatro di vita e di morte, dove tre comici ridicoli e irrimediabilmente malinconici mettono in prova un improbabile Amleto in salsa di avanspettacolo. Il duo iniziale (Antonella Carone e Loris Leoci) consegna il presagio della sventura, l’ingresso del terzo personaggio (Tony Marzolla) fa virare il tutto sul tono del varietà rasoterra, pregno di doppi sensi, equivoci di facile presa ma anche una sopraffina esecuzione per contrabbasso e terzetto vocale. Ma la vicenda nasconde il negativo del divertissement: in sottofondo riverbera forte e chiaro il canto del cigno di chi si sta giocando tutto per sopravvivere. Nel 2016 Antonella Ottai (già docente di teatro alla Sapienza Università di Roma) dava conto, in Ridere rende liberi (Quodlibet) della triste sorte di certo cabaret mitteleuropeo finito a far da intrattenimento ai gerarchi nei campi di prigionia nazisti, in cambio di qualche ora di vita in più. A questa vicenda si ispira Tanto vale divertirsi, fatica autoprodotta dal gruppo pugliese Uno e trio, scavalcamontagne attraverso l’Italia giunta a Roma in un teatro di quartiere, che rende un omaggio commosso e riconoscente. Con qualche debito di ritmo a una prima parte troppo dilatata, i toni della slapstick comedy più spudorata ed eclettica si mescolano a una sottile operazione di suspense che lascia emergere poco a poco la tragedia celata dietro al maquillage della farsa, concedendosi una raffinata escursione in macabre videoproiezioni dove un cartoon fa danzare gli scheletri e lascia poi il posto a un epilogo/commiato fuori maschera, di rara crudezza. Grande è l’agio di questo trio di mestieranti devoti e sinceri, in grado di fare della commedia uno strumento documentale e della Storia un dilaniante grimaldello di sensibilità, mai suddito della retorica e sempre attento a una vocazione popolare. E così, sembra abbia detto Bakunin, «una risata ci seppellirà». (Sergio Lo Gatto)

Visto al Teatro di Tor Bella Monaca Progetto, Regia e Interpretazione: Antonella Carone, Tony Marzolla, Loris Leoci; drammaturgia: Damiano Nirchio; scenografia e costumi Pier Paolo Bisleri; disegno luci Giuseppe Pugliese; arrangiamenti canzoni e vocal coach Isabella Minafra; arrangiamenti musicali strumentali Vito Liturri; supervisione ragtime Dino Parrotta; assistente alla regia Rossana Suriano; sarta Angela Gassi; prosthetics Marcella Zito; montaggio video Nicola Galluzzi; tecnico Gianni Colapinto; foto di scena Alessio Gernone

QUELL’ATTIMO DI BEATITUDINE (di e con Christian Di Filippo)

Rapsodico, imprevedibile, un po’ diabolico, sicuramente nevrotico: N si presenta con la giacca e i capelli pettinati all’indietro, cammina deciso dal fondo, entra in luce, ha qualcosa da dirci: N non ha niente, non ha casa e famiglia, non ha un gatto, ha solo Diana, la Citroën gialla parcheggiata all’incrocio con Via Istria, nella quale vive. Questo è il suo punto d’osservazione della realtà e punto di contatto con la società. Della macchina, tiene puliti i vetri con lo sgrassatore affinché possa guardare la tv, quella però della famiglia del palazzo di fronte. Al dialogo, N preferisce scrivere delle lettere, quasi delle invettive che appunta sul suo taccuino nero, contro K. la vicina “gattara”, contro il traffico, contro il condominio, contro tutto. Un giorno, quella sua veemenza, dopo essere stata scagliata contro Dio, si trasforma in incendio. Quell’attimo di beatitudine è il monologo scritto e interpretato da Christian Di Filippo che porta Noi, pubblico, a contatto con N, l’individuo solo e isolato – perfetta nella sua plasticità, la smorfia consapevole di disgusto che si palesa sul volto dell’attore quando parla degli «esclusi». N potremmo essere Noi se un giorno dovessimo perdere e perderci e, per il reato di incendio doloso, entrare in carcere. In cella, N diventa una sorta di santone a cui il resto delle persone recluse si rivolgono, riceve pure la stima del direttore dell’istituto penitenziario, incontra persino il Papa. Il testo di Di Filippo, in cui si può cogliere un riferimento a The Lady in the Van di Alan Bennett, è un’appuntita disamina sociale che, senza ridondanze moralistiche o pietà filosofeggianti, riesce a scandagliare tutte le temperature dei sentimenti umani tramite una lente verista. Il testo, l’attore e la regia non si prendono mai troppo sul serio ed è un pregio funzionale a far emergere, degli aspetti antropologici trattati, la loro variegata gamma di buone intenzioni e meschine contraddizioni. (Lucia Medri)

Visto a Fortezza Est: di e con Christian Di Filippo; Musiche Elio D’Alessandro; Aiuto regia Viola Carinci; Assistente alla regia Celeste Tartaglia; Foto Luisa Fabriziani; Produzione AMAranta Indoors. Spettacolo Vincitore della XXIII edizione del Palio poetico musicale teatrale ErmoColle

CATHEDRAL (Marcos Morau / Ballet Junior de Genève)

Il balletto cosiddetto Junior di Ginevra è una sorta di incubatore di talenti per la danza, ed è stato un piacere assistere alle performance di questo giovane ensemble che si è esibito sul palcoscenico della Sala Petrassi dell’auditorium romano intitolato a Ennio Morricone. Il cartellone ovviamente è quello di Equilibrio, occasione unica per la danza a Roma che ora si intreccia anche con le ospitalità di Orbita. Nel doppio programma, che prevedeva due lavori coreografici, i giovani interpreti hanno dovuto attraversare due mondi lontanissimi tra loro, due esempi dell’arte coreica di oggi, pensati da Marcos Morau e Alessandro Sciarroni. Il catalano è autore di una spettacolarità totale incentrata sul dato visivo, teatrale e ama lavorare su un piano di subconscio in cui i personaggi umani si mischiano con i pupazzi, le maschere e gli oggetti di scena in grado di narrare frammenti di realtà. Cathedral, il primo dei due pezzi (di mezz'ora ciascuno), sfoggia tutte le caratteristiche mostrate in questi anni da Morau, che però qui rischiano di trasformarsi in un certo manierismo (si guardi a tal proposito alle parole di Tomassini da Milano proprio su Morau). È bellissimo e suggestivo l’incipit: tutto l’ensemble è in fila,  alla destra degli spettatori, lentamente si avvicina alla sinistra del palco dove parallelamente alla fila di interpreti c’è un lungo tavolo alle cui estremità due performer sussurrano in francese al microfono. Il tavolo verrà spostato al centro e la musica percussiva (di Arvo Pärt) lentamente si aprirà a note più ariose e armoniche, qui l’ensemble alternerà i tipici movimenti scattosi dei singoli (il linguaggio denominato Kova dall'autore) alle partiture collettive con i soliti effetti ottici dati degli unisoni sfasati che creano delle onde con i corpi dei danzatori e delle danzatrici, anche questa modalità l'abbiamo vista nelle coreografie del recente Notte Morricone. Sul finale compaiono due pupazzi che però non colpiscono per le fattezze troppo neutre rispetto alla ricchezza espressiva usata solitamente dall’artista della Veronal. Lo spettacolo sembra essere un estratto dal più complesso lavoro in scena in questi giorni a Rotterdam e basta dare un'occhiata alle immagini per misurare la distanza dallo show completo.

Visto all’Auditorium Parco della Musica / Equilibrio 2025: Coreografia Marcos Morau, rimontata da Valentin Goniot/Assistente Alma Munteanu Musica Arvo Pärt Luci Mårten K. Axelsson Scene e costumi Silvia Delaugnea Marionette Christopher Kiss danzatori Maxim Detouillon Dandreu, Blandine Janthial, Bailey Kager, Carolina Lopes, Saraï Martens, Aris Papaioannou, Anastasia Pavliuk, Anton Pontet, Marie-Lou Pivoteau, Zoé Raoul, Ivo Santos, Mafalda Soares Costa, Nina Vanhout, Spyros Zikos

TURNING (Alessandro Sciarroni / Ballet Junior de Genève)

Il secondo autore della serata, che ha prestato le proprie coreografie al Ballet Junior de Genève è Alessandro Sciarroni: un artista che ha creato il proprio segno coreografico attorno alla ripetizione, alla dilatazione del tempo, tentando sempre di inserire un elemento di umanità purissima, di comunicazione empatica nella precisa geometria delle sue partiture. Qui il coreografo marchigiano, ormai riconosciuto internazionalmente, riprende un suo lavoro di qualche anno fa dispiegandolo sui corpi dei giovani interpreti dell’ensemble svizzero. Sono schierati sul palco occupando tutto lo spazio: camicie azzurre a varie fantasie, pantaloncini blu o marroni, calzettoni e una fascia rossa o blu, immobili guardano verso il pubblico. Una di loro lentamente comincia ad animarsi, prima con la testa e poi con il corpo, in un atto di rotazione che in pochi minuti diverrà atto di adorazione totale per il movimento; ruotano e guardano il pubblico, il quale restituisce sguardo ed energia, perché altro non si può fare di fronte a questi sortilegi di Sciarroni, vero e proprio stregone del tempo e dello spazio. Qualcuno accenna un sorriso, altri non lasciano trapelare nulla, quasi a cercare uno svuotamento in questa piroetta totalizzante; ognuno interpreta a proprio modo il percorso dentro il movimento, ce n’è uno ad esempio che non nasconde la gioia, la felicità di potersi esprimere in quel contesto, un altro è invece serissimo, un metronomo, non sembra subire la fatica. Qualcuno ha bisogno di rallentare per poi riprendere: il corpo gira su se stesso e allo stesso tempo disegna una traiettoria circolare, non si può non pensare alle traiettorie dei pianeti e degli astri. Piccoli cambiamenti si innestano nella ripetizione: un braccio si alza, un altro va dietro la testa, fino a vere e proprie rotazioni sulle mezze punte. La musica come sempre puntella emotivamente la prova atletica e umana dell’ensemble e l’effetto, come spesso accade con Sciarroni, è quello di scoprire una commozione che improvvisamente, e forse inaspettatamente, ci sorprende.

Visto all’Auditorium Parco della Musica / Equilibrio 2025: TURNING_MOTION SICKNESS REMIX – PRIMA ITALIANA NUOVA VERSIONE 31 MAGGIO 2024 PER JUNIOR BALLET DE GENÈVE DURATA: 30 MINUTI Coreografia Alessandro Sciarroni Styling Ettore Lombardi Luci Sébastien Lefèvre Consulente alla drammaturgia e preparazione fisica Elena Giannotti. Danzatori Maxim Detouillon Dandreu, Bailey Kager, Carolina Lopes, Saraï Martens, Aris Papaioannou, Anton Pontet, Zoé Raoul, Ivo Santos, Mafalda Soares Costa, Nina Vanhout, Spyros Zikos

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