ARTE
Tre pareti, o meglio, il profilo luminoso di tre pareti, separa gli ambienti nei quali vivono rispettivamente Serge, Marc e Yvan. Tre amici con differenti vite e vedute, le quali si incontrano e si scontrano nell’ambiente disposto al centro della scena. Qui campeggia un dipinto bianco, completamente bianco, che Serge ha comperato a un prezzo spropositato. L’acquisto diviene il detonatore di asti a lungo sepolti nel silenzio: Arte di Yasmina Reza (premio Moliére nel 1994), per la regia di Alba Maria Porto, pone a nudo le spesso ipocrite dinamiche del vivere sociale. Gli attori interpretano persone facilmente riconoscibili, nelle quali è facili immedesimarsi, tra approvazione e ostilità. Elio D’Alessandro, nei panni di Marc, è un ingegnere caustico e a tratti brutale, efficace tanto nell’ironia quanto negli scatti d’ira. Mauro Bernardi è un Yves svampito ma buono, divertente nelle sue esternazioni più immature. Alessandro Cassutti, nei panni di Serge, è il dermatologo sensibile all’arte informale, ma forse la sua interpretazione è quella meno convincente. Comunque sia, l’attenzione del pubblico è stata costante e in qualche modo partecipe: le elucubrazioni dei protagonisti, tratteggiati come individui comuni, sul valore di un’arte per molti sfuggente, sono certo suscettibili di interessante dibattito. La storia che i tre raccontano è una vicenda verosimile, utile a sollevare riflessioni: se ne sente il bisogno. (Tiziana Bonsignore)
Visto al Teatro Libero, Palermo. Crediti: di Yasmina Reza, nuova traduzione Luca Scarlini, regia Alba Maria Porto, con Mauro Bernardi, Alessandro Cassutti ed Elio D’Alessandro, scene e costumi Lucia Giorgio, Asterlizze Teatro, Torino
DAL SOGNO ALLA SCENA
Per ricreare l'idea di un'enorme pagina biaca sul palcoscenico buio, Daniel Pennac ha bisogno solo che la penna nella sua testa ne trascriva le parole. La sua presenza è motivata solo dal gusto dell'immaginazione, e il sogno ne alimenta le immagini. Le parole, con un giro vorticoso, da idea si fanno testo drammatico, corpo attoriale e apparato scenico. Il momento del teatro diventa, per un meccanismo di sola evocazione, piacere genuino per il raccontare, quando niente esiste se non viene prima nominato; ed è solo l'impossibile a venir richiamato. Lo zio Federico Fellini che spiega al piccolo Daniel e al fratello che i dinosauri si sono estinti perchè hanno trattenuto delle scoregge non è reale, ma diventa vero. Maradona, ormai spirito semidivino in Purgatorio, per davvero ha recuperato all'Inferno l'anima persa della moglie di un pescatore conducendola in Paradiso. La maestria narrativa prende corpo nello spazio vuoto che resta tale finché non viene reificato dall'agire dai compagni di racconto che si prestano al gioco dell'immedesimazione e, come per scherzo, si fanno personaggi (Pako Ioffredo e Demi Licata intensi e vividi, davvero due personaggi da racconto onirico). Il sistema è immediato: c'è una rapida successione tra ciò che viene espresso in francese dall'autore e poi tradotto dagli attori in italiano e in gesti. Il processo creativo, tanto del romanzo quanto del teatro, così disvelato diventa un esercizio di stile, un espediente narrativo, una lettura ad alta voce. (Valentina V. Mancini)
Visto a Teatro Nuovo, Napoli; Crediti Di Clara Bauer, Pako Ioffredo, Daniel Pennac; Con Pako Ioffredo, Demi Licata, Daniel Pennac; Mise en space Clara Bauer; Musiche di Alice Loup e Antonio Urso; Coproduzione compagnie Mia – Mouvement International Artistique e Ente Teatro Cronaca Vesuvioteatro
LA NONA (DAL CAOS AL CORPO)
Nel silenzio dei primissimi tempi, prende avvio la Fede: un corpo solo produce movimenti iconici di tensione verso l'alto; i movimenti si riproducono in sequenze ordinate, sempre le stesse, e diventano rito: a ogni nuovo passaggio vi si aggiunge un adepto e un unico enorme corpo, fatto di numerosi sospiri, si ammassa imponente. I segni delle religioni, un crocefisso e la Mano di Fatima, si impongono come monolitiche e irremovibili guide. Dal silenzio scuro della Fede si eleva opposto e forte la n°9 op. 125 di Ludwig Van Beethoven come attitudine dello spirito alla libertà. Gli accoliti riprendono la scena, non più corpo unico ma corpi in relazione: ancora, la partitura di movimenti si compone di pochi frammenti che si ripetono in sequenze caotiche le cui combinazioni producono variabili nella solitudine e nelle relazioni. Ognuno, abbandonati gli abiti civili quotidiani e indossati quelli spirituali (arancioni, evocativi del Movimento Hare Krishna), segue la propria vocazione e si immerge nel mondo con gli altri. Il caos delle individualità o dei minimi incontri trova talvolta l'ordine in un sentimento condiviso, che diventa segmento corale, per poi disfarsi nuovamente nell'accidentale e nel sempre nuovo. Il conflitto, in una simile impostazione, non si manifesta mai se non nell'apparato simbolico che ne fa da cornice: forse anche l'eccesso didascalico del sistema simbolico è una visione estremamente pacificata. Per paradosso, la visione che si richiama fieramente laica riproduce quel sistema manicheo nei valori umani che sono proprio dell'estremismo religioso che tanto rifiuta. (Valentina V. Mancini)
Visto a Teatro Bellini, Napoli; Crediti Coreografie e regia Roberto Zappalà; Pianisti Luca Ballerini, Stefania Cafaro; Controtenore Riccardo Angelo Strano; Soprano Marianna Cappellani; Musiche Ludwig Van Beethoven Sinfonia n°9 op.125
AL SUO POSTO
Una piccola sala da tè, quattro sgabelli, un nutrito servizio di porcellane, tazzine, piattini e cucchiaini sono lo sfondo di una scenografia tintinnante e minimale, luogo protagonista del lavoro diretto da Marianna Esposito Al posto suo. Lo spettacolo, semifinalista al Premio Teatrale Dante Cappelletti, è andato in scena alla Fabbrica del Vapore ospite di ACEA Odv, ente che si occupa di contrastare la violenza di genere. In scena, è il 2021. Siamo in un bar. Qui, quattro amici si riuniscono periodicamente per organizzare, con largo anticipo, il giorno in cui si rivedranno alle terme. La decisione della data è il pretesto per innescare una dimensione confessionale; invece di una narrazione imprigionata negli stereotipi maschili, il testo di Esposito ne rovescia con ironia i termini della relazione, attraverso la buffa storpiatura dei vocaboli (“quote blu”, “La Madrina”, entrando anche all’interno di un dibattito non poco attuale). Non si tratta di «uomini che parlano di donne o che fanno le donne - viene spiegato nelle note di sala – ma uomini che si calano, letteralmente, nei loro panni» per raccontare abusi spesso taciuti, ignorati, minimizzati. È l’uomo a lamentarsi della violenza fisica subita dalla moglie, è l’uomo a giustificare quella psicologica, l’uomo che si sente a disagio al lavoro. Gli anni si susseguono a ritroso, improvvisamente è il 2016, ai fatti di scena si mischiano quelli di cronaca. Il suono di una radio ne scandisce il ritmo, ma le ellissi temporali ci rivelano che la storia è ancora una volta sempre la stessa. (Andrea Gardenghi)
Visto alla Fabbrica del Vapore di Milano. Crediti: testo e regia Marianna Esposito, con Alberto Corba, Alessandro Cassutti, Giulio Federico Janni, Leonardo Tacconella sostituito da Diego Paul Galtieri, assistente regia Francesca Ricci, scenografie Stefano Zullo. Ph Emanuele Limido
NEL GUSCIO
Amleto, il principe, torna in famiglia quando tutto è già compiuto, era lontano e trova una condizione su cui non ha più capacità d’azione se non quella dei reietti, dei folli, dei visionari. Ma se Amleto avesse invece visto tutto e sapesse, da un punto privilegiato d’osservazione? Parte da questa suggestione, velata e non certo dichiarata, il testo Nel guscio di Ian McEwan che Cristina Crippa porta in scena e che rivela la molteplicità del talento di Marco Bonadei: è sospeso, letteralmente, ad una fascia che scende dal soffitto, un feto nel guscio che attende di nascere e conosce fin troppo, scorge con i propri sensi in via di compimento un mondo già troppo crudele con il quale misurarsi, da cui presto dovrà difendersi. La madre, Trudy, che lo ospita per la gestazione inscena il tradimento più brutale con Claude, fratello del marito e padre, un poeta senza soldi ma colmo di bontà; insieme ordiscono la sua morte per avvelenamento, ma il feto sa tutto, nessuno saprà che lui ha visto, udito, toccato con mano la pena della propria discendenza. Con una potente capacità descrittiva, la visione che il feto ha del mondo attorno è ferocemente critica, il delitto vi appare a deturpare la purezza del senso che emerge, dopo il dolore, dopo la giustizia, a macchiarsi già del peccato più atroce. La regia di Crippa esprime tinte ora fluttuanti ora tetre, fosche, attraverso le luci e i suoni profondi d’organismo, come il battito del cuore; Bonadei raccoglie e vince la difficile sfida di mettere in scena un personaggio grottesco e tragico ad un tempo, cui dona ogni sfumatura del proprio bouquet d’attore, gestendo i colpi di scena con qualità estrema. E, sia detto a suo vantaggio: senza mai uscire da una placenta. (Simone Nebbia)
Visto al Teatro Elfo Puccini. Crediti: di Ian McEwan; regia Cristina Crippa; con Marco Bonadei; scene e costumi Roberta Monopoli, luci Michele Ceglia, suono Luca De Marinis
COME TU MI VUOI
È un gioco di incastri irrisolti la definizione di ciò che siamo. È un gioco di incastri irrisolti ciò che siamo davanti agli occhi degli altri. Il gruppo teatrale Invisibile Kollettivo porta in sala gli interrogativi della questione identitaria negli stessi ruoli femminili/maschili del cast, per indagare il confine liminale tra realtà e finzione. Lo fa con una reinterpretazione del classico pirandelliano Come tu mi vuoi, attraverso un co-produzione del Centro Teatrale Bresciano e del Teatro dell’Elfo. Del testo diviso in tre atti, il gruppo cura la scenografia espressionistica e l’adattamento drammaturgico in un’ottica metateatrale, che fatica inizialmente ad ingranare: si vedrà la scena di una Berlino notturna a luci rosse, luogo di seduzione e di piaceri, dove s’incontrerà Elma, una femme fatale che gingilla compiaciuta alle attenzioni dei compagni che la contendono. In lei verrà riconosciuta Lucia, la moglie di Bruno scomparsa dopo l’invasione austriaca in Friuli; Elma tornerà nella villa patrimoniale di Udine e tenterà di aderire all’imposto stereotipo sociale per riconoscersi in Lucia (nello sdoppiamento ben interpretata da Elena Russo Arman e Franca Penone). Ma cosa le rimane della propria identità, nell’ immagine frammentata dal desiderio dello sguardo altrui? Apparenza e menzogna finiranno per scontrarsi con il reale, ne diverranno agenti trasformanti, mentre l’adesione al canone verrà messa sotto scacco da una nuova verità, fittizia come le altre, offrendo alla donna la possibilità di tornare ad essere chi, forse, un tempo era stata, o chi, forse, non avrebbe potuto essere mai. (Andrea Gardenghi)
Visto al Teatro Elfo Puccini di Milano. Crediti: di Luigi Pirandello, adattamento, scene e costumi, regia e interpretazione Invisibile Kollettivo: Nicola Bortolotti, Lorenzo Fontana, Alessandro Mor, Franca Penone, Elena Russo Arman, consulenza costumi Bruna Calvaresi
GIULIO
Con guizzo fantasioso, un po’ disordinato e ancora da rodare ma impavido, Giulio di Anonima Teatri è una riscrittura di Aleksandros Memetaj e Yoris Petrillo del Giulio Cesare di Shakespeare, all’insegna della stravaganza e dell’intrattenimento e dalle molteplici sfumature, forse un po’ troppe in alcuni passaggi tanto da far perdere di incisività l’equilibrio tra le dinamiche personali dei protagonisti e quelle politiche. La storia è raccontata dal punto di vista di Giulio (di una maturità monella e sensibile l’interpretazione di Beatrice Fedi), servo ciabattino di Bruto che, a tre giorni dalle Idi di marzo, deve preparare i sandali che indosserà Cesare per andare in Senato. Alla base vi è un corposo studio sul testo originale e sui testi storici collaterali, e un denso lavoro che parte dall’improvvisazione e giunge a creare una movimento interno alle scene. La danza unita alla prosa “porta le parole” su di un piano immaginifico ordinato dalla regia di attori e di attrici, notevole quella di Fabio Pagano nel ruolo di Antonio, mentre la gestualità di Caroline Loiseau ci restituisce una Porzia ineffabile. Ensemble affiatato in cui ciascuno/a è pedante nella tipicizzazione dei caratteri, sarebbe infatti opportuno distaccarsi dai ruoli quel tanto che basta giusto per non rischiare la caricatura. La goliardia e l’inebriante fame di potere rilevano delle relazioni la loro precarietà: la grande storia potrebbe cambiare se si tornasse all’umile tensione a fare del bene? (Lucia Medri)
Visto allo Spazio Rossellini: liberamente ispirato al Giulio Cesare di W. Shakespeare, di Aleksandros Memetaj e Yoris Petrillo, con Beatrice Fedi, Caroline Loiseau, Fabio Pagano, Guido Targetti, Valerio Riondino e Umberto Gesi, produzione Anonima Teatri, con il sostegno di Twain Centro di Produzione Danza, Dance Project Festival, con il contributo di Regione Lazio Spettacolo dal Vivo. Foto di Valeria Tomasulo
CENERENTOLA REMIX
I sogni son desideri… ma no, i sogni sono roba concreta e Cenerentola, la favola di Perrault che vanta numerosi tentativi di imitazione, arriva a scoprirlo, suo malgrado, attraverso il dolore e la sopraffazione. C’è un guardaroba sul fondale, tutto è visibile in questa versione “remix” firmata da Fabio Cherstich e Tommaso Capodanno; una struttura metallica è casa della nuova famiglia della protagonista, vi scorgiamo all’interno la malvagità della matrigna e delle sorellastre, la fragilità del padre rimasto vedovo, la sua solitudine che misura il tempo che passa attraverso un orologio enorme appeso al collo, per non dimenticare mai la propria madre. È una versione immaginifica e plastica, che punta alla vivacità espressiva su note graffianti e nulla concedendo alla dolcezza patinata da confetto della nota versione disneyana: in questa Cenerentola la fata è una spassosa vecchina che parla dialetto romanesco da un water immondo, il principe è un nerd misogino che non accetta la morte della madre e regala una scarpa alla giovane ignota, il ballo un mix di valzer e suoni da videogioco, la matrigna una donna che, in nome dell’estetica ipertrofica di questa epoca in cui la giovinezza si crede eterna, vuole sostituire le figlie nella ricerca del principe; Cenerentola vincerà perché è l’unica a dire la verità, in una storia piena di menzogne. È una lettura lucida quella di Cherstich, divertente e aggressiva, che sviluppa ciò che delle fiabe spesso resta fuori, una storia in cui la vanità è sconfitta e la modestia valorizza l’umanità, in cui la superbia sarà umiliata e i sogni, se non sono motivati dalla concretezza delle azioni, sono turpi imbarazzanti equivoci ridotti alla miseria umana. Tutt’altro, che desideri. (Simone Nebbia)
Visto al Teatro India. Ispirato alla favola di Charles Perrault, ideazione e regia Fabio Cherstich; musiche Pasquale Catalano; con Julien Lambert, Giuseppe Benvegna, Annalisa Limardi, Alessandro Pizzuto, Evelina Rosselli, Giulia Sucapane
ROLLERCOASTER
Prendete una sala sotto i cento posti, riempitela di un pubblico di giovani - probabilmente molt* alliev* artist* della scuola di circo Materia Viva -, programmate un artista altrettanto giovane, ma già un fenomeno riconosciuto nei circuiti, il trentaduenne Wes Peden ed avrete una serata da tutto esaurito, piena di energia, applausi e viva attenzione; come quella di ieri (10 dicembre) in chiusura della rassegna Battiti al Teatro Furio Camillo. Per creare Rollercoaster il juggler statunitense (con base a Stoccolma) ha attinto alla propria memoria di infanzia, alla passione per le montagne russe: in scena grandi gonfiabili azzurri e componibili, il protagonista con scarpe arancio fluo come i capelli e poi gli oggetti del mestiere, palline, clavette, cerchi, scatole piene di accessori da far volare sopra la testa. Wes Peden sembra riuscire a lavorare con qualsiasi cosa: una giovane spettatrice che mi siede accanto sussurra a un altro spettatore: «i piatti cinesi… sa usare anche quelli!». Con una voce fuori campo, di quelle da sintesi vocale computerizzata, Peden occupa lo spazio del riposo con piccole riflessioni o ricordi ironici sulle montagne russe, l’intrattenimento da luna park ritorna anche nelle forme dei “numeri”, nell’uso di un lungo tubo in cui far scorrere le palline, nella progressione delle difficoltà e del ritmo con cui si dipana lo spettacolo. Rollercoaster però non è solo un fenomenale susseguirsi di esercizi di giocoleria è anche una poetica danza tra uomo e oggetti, c’è qualcosa di commovente e dolce negli occhi di questo colorato juggler in grado di sfidare la gravità. (Andrea Pocosgnich)
Visto a Teatro Furio Camillo, Battiti - Rassegna Internazionale di circoteatro. Crediti: di e con Wes Peden
RIDING ON A CLOUD
Libano, 1987. Un giovane uomo sta per iniziare l’università, ma si trova all’improvviso a dover tornare all’asilo. Sullo schermo dell’auditorium del Maxxi vediamo le immagini delle sue pagelle scolastiche. Più che un palco, una predella con una scrivania e, seduto, l’uomo che dà in pasto allo schermo tracce audio e video tramite un mangianastri. Il suo sguardo ritratto nel perimetro della scrivania, il suo silenzio rimediato da quell’archivio di memorie, comunicano la solitudine impenetrabile di una sparizione improvvisa. L’uomo è Yasser Mroué, fratello di Rabih, regista, performer, drammaturgo, artista visivo libanese di stanza a Berlino, fra le voci più intense e complesse a portarci testimonianza della storia moderna del paese mediorientale. Riding on a cloud porta in scena la storia del fratello, sopravvissuto ad un proiettile al cervello, sparato da un cecchino appostato sui tetti di Beirut, lo stesso giorno che il nonno dei due, dirigente del partito comunista, venne assassinato. La guerra come forma di dolore senza storia, ma anche la storia come forma di rappresentazione sono ossessioni per Rabih Mroué, che qui porta la riflessione al grado di una scansione magnetica nel corpo-biografia del fratello, privato della parola per un certo periodo dopo il terribile incidente. Nell’afasia, Yasser ha costruito un rapporto nuovo con le immagini, strumenti alternativi per indicare gli oggetti che il trauma ha reso estranei al linguaggio. In quello iato fra parola e immagine sta un dissidio profondo, che per i Mroué racconta, in modo misterioso ma potente, la guerra stessa. (Andrea Zangari)
Visto all'Auditorium Maxxi, Romaeuropa Festival: Performance di Rabih Mroué Scritto e diretto da Rabih Mroué con Yasser Mroué In collaborazione con: Sarmad Louis
MENEGHINISSIMA
Meneghinissima, preziosa mostra allestita alla Casa della Memoria di Milano, vuole restituire l’importanza storica del personaggio di Meneghino non soltanto nel teatro dei burattini, bensì nel teatro tout court così come nella stessa società. Meneghino nasce nel 1695 per mano di Carlo Maria Maggi, ma solo nell’800 diviene protagonista dei palcoscenici lombardi nelle interpretazioni dei maggiori attori, come testimonia la commedia Gli italiani a Massaua con Meneghino prode caporale dei bersaglieri (1890 ca); se il prode è l’autore Ferravilla, nel cast, tra gli altri, si leggono Salvini e Duse. Un viaggio nella storia d’Italia e del suo nord, dall’incontro fraterno con il piemontese Gianduja, al Meneghino fascista che bombarda le terre africane, a quello che diventa il titolo di giornali di satira e non solo. E proprio per la sua popolarità di personaggio drammatico, Meneghino ben volentieri venne adottato dai burattinai lombardi: ce ne mostrano l’evoluzione gli splendidi burattini dei maestri burattinai, da Benedetto Ravasio a Riccardo Pazzaglia, da Giacomo “Fiaca” Onofrio a Romano Danielli, fino, ovviamente, all’ideatore della mostra, collezionista e studioso, affermato burattinaio Valerio Saccà (Compagnia Burattini Aldrighi). La mostra, tuttavia, vuole non soltanto commemorare il passato ma anche proporre un Meneghino dei giorni nostri perfettamente immortalato nelle fotografie di Alvise Crovato, che ha seguito burattinaio e burattino nelle diverse atmosfere milanesi, così come nel lontano Oriente degli Emirati Arabi, e che ci restituisce l’umanità e la potenza di Meneghino e del burattino come strumenti contemporanei in un vivido racconto per immagini. (Angela Forti)
Visto ala Casa della Memoria di Milano. Crediti: La mostra è visitabile fino al 4 dicembre 2022. Un progetto di Valerio Saccà – Burattini Aldrighi e Alvise Crovato; mostra a cura di Gigliola Foschi; fotografie di Alvise Crovato.
IL MESSAGGERO DELLE STELLE
Se il senno di Orlando è volato sulla luna, perché non immaginarla residenza per le menti più eccelse del pianeta? Un aldilà dove non esiste coerenza temporale, di modo che il dibattito sulle grandi scoperte scientifiche prosegua instancabile, non avulso da vizi e virtù terrene. Questa la semplice e affascinante intuizione di Francesco Niccolini, autore de Il messaggero delle stelle, portato in scena dalla Compagnia del Sole per la regia di Marinella Anaclerio. Storia, letteratura, astronomia e filosofia trovano la sintesi poetica e ironica, mai didascalica, in questa pièce in rima: Flavio Albanese è un Astolfo un po’ cavaliere un po’ astronauta, brillante e trasognato, pronto a prestare voce e corpo a Copernico, Keplero, Newton, Bruno e soprattutto Galileo. È quest’ultimo il Virgilio di questa esplorazione lunare che percorriamo attraverso gli occhi colmi di stupore di Astolfo d’Inghilterra. Albanese con fluida agilità presta la sua voce a caratterizzazioni e guizzi linguistici, immediati per i più giovani, profondi e sferzanti per il pubblico più adulto. Per troppo senno gli errori più grossolani furono compiuti. Ma l’errore è il segreto! Ognuno con i suoi peccati, percorriamo la nostra esistenza per qualche breve scintilla di tempo. Tanto vale liberarsi del troppo senno che teme l’errore, origine di ogni meraviglia, di ogni stupore. Ecco che il teatro e la scienza si danno la mano e danzano insieme. (Sabrina Fasanella)
Visto al Teatro India. Flautissimo Festival. Crediti: di Francesco Niccolini, con Flavio Albanese, regia Marinella Anaclerio, consulenza scientifica Prof. Marco Giliberti, co-produzione Compagnia del Sole, Accademia Perduta/Romagna teatri, Fondazione TRG Onlus, con il patrocinio di INAF – Istituto Nazionale di Astrofisica
A CHE SERVONO QUESTI QUATTRINI
I soldi non fanno la felicità. Da quando esiste il denaro come regolatore degli affari sociali c'è qualcuno che ne canta le doti contrarie: il denaro svilisce, rende disumani e porta con sé un peccato originale, il lavoro. Parascandolo lo sa, lo ha sperimentato e ora lo professa come una sorta di religione cialtrona. Tutto farà pur di dimostrare le sue tesi - anche del bene, a chi forse non lo merita. Metterà in piedi un teatro fatto di menzogne dolci come illusioni, per dire quanto insensata sia questa convenzione chiamata denaro. Al teatro Sala Umberto è andato in scena un classico della commedia napoletana, A che servono questi quattrini, che debuttò ottantadue anni fa in un altro teatro romano a qualche isolato da questo, il Quirino. Antonio Parascandolo era Eduardo De Filippo, il testo è di Armando Curcio, figura celeberrima della cultura e dell’editoria italiana. Nella versione di Andrea Renzi la scena è semplice e minimale: una parete di fondo grigia cambia con il cangiare delle luci e basta un drappo dall’alto per trasformarla nell'interno di una ricca casa borghese. Va detto che nella ripresa dello spettacolo per questa stagione il ruolo dell’abile Marchese Parascandolo, detto il Professore, è interpretato da Nello Mascia in sostituzione di Giovanni Esposito; nella prima a cui abbiamo assistito l’attore dimostrava di avere bisogno di qualche replica di rodaggio per entrare del tutto in un meccanismo corale molto preciso (supportato dalle prove notevoli di Valerio Santoro e del trasformista Gennaro Di Biase), ma già erano visibili il piglio aristocratico e il distacco sagace conferito dal portamento. (Andrea Pocosgnich)
Visto al Teatro Sala Umberto. Crediti di Armando Curcio scene Luigi Ferrigno costumi Ortensia De Francesco luci Antonio Molinaro coproduzione La Pirandelliana Durata 2 ore (compreso intervallo) regia di Andrea Renzi. Con nello Mascia, Valerio Santoro, Salvatore Caruso, Loredana Giordano, Fabrizio La Marca e Ivano Schiavi
ERA MEGLIO CASSIUS CLAY
Ci sono spettacoli che fanno del disorientamento, della dissimulazione, della deviazione dall’idea iniziale entro la quale si è condotta l’immaginazione e lo sguardo di chi vi ha assistito, la propria cifra costitutiva. Era meglio Cassius Clay è uno di questi. Nato dalla scrittura (drammatica e registica) di Rita Frongia, lo spettacolo è andato in scena al Centrale Preneste nell’ambito della rassegna Puro Teatro, curata da Angela Antonini, in scena assieme a Gianluca Balducci e Stefano Vercelli. I personaggi sono tutti stati qualcosa che non sono più; c’è un ex pugile, Jimmy, che ora è figura muta, sbigottita e però fervido piano d’ascolto; Tex, ex promessa del pugilato ora sembra trovarsi soltanto come carezzevole mano e parlata biascicata. Fa il suo ingresso Clara, ex attrice e ora animatrice per bambini; se i primi due sembrano trovare una quadra in una passione in comune ora traslata in un rapporto di mutua interdipendenza (l’uno non esisterebbe senza l’altro), è proprio la figura femminile il primo elemento dissonante. Toni, azioni, proposte, costumi mostrano subito un atteggiamento fuori luogo; non sono bambini quelli davanti a sé, non sono le parole quelle adatte all’inaspettato uditorio. Eppure, qualcosa sembra tornare: “the show must go on”, parrebbe dire la società. Tocca resistere e adattarsi, anche di fronte a qualcosa di inaspettato, o così parrebbe; e allora se si hanno giochi per le mani, che si giochi. Fintanto che il caso non ci mette davanti a quella risata – amara, irreparabile, che qui ha il colore di una polvere blu – dalla quale non ci si può più tirare indietro. E allora, forse, smettiamo di ridere. (Viviana Raciti)
Visto al Teatro Centrale Preneste Rassegna Puro Teatro, Roma | Crediti: drammaturgia e regia Rita Frongia, con Stefano Vercelli, Gianluca Balducci, Angela Antonini, luci Fausto Bonvini, produzione Artisti Drama APS
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