Cordelia - le Recensioni

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X-MACHINE

Nel vivace spazio di AtelierSì di Bologna è passato un esperimento minuzioso e audace dal titolo x-machine, firmato da Federica Amatuccio e Andrea Gianessi (Teatro dei Servi Disobbedienti, qui un'intervista recente). La regia/scenografia di una e la direzione musicale/sound design dell’altro usano come reagente un terzetto di performer e musicisti composto da Federica Furlani, Jacopo Giacomoni e Marco Puzzello. Note e dissonanze di viola, sax e tromba sono tutt’uno col corpo di queste tre abili figure, che invadono, attraversano, distruggono e ricreano uno spazio affollato di sedie. Gianessi – acuto ierofante dietro alla consolle – raccoglie il suono catturato da un microfono ambientale per costruire una grammatica macchinica in grado di portare sulla scena un’attendibile immagine del funzionamento interno di uno qualsiasi dei dispositivi che quotidianamente usiamo. «Un dispositivo – si legge nei materiali – è una relazione di forze, di saperi e di poteri». La mediologia della performance raccoglie il più ampio ragionamento sui media come minacciosa interfaccia del mondo. Nomi come Walter Benjamin, Jean Baudrillard, José Ortega y Gasset, hanno nutrito Byung-Chul Han e i teorici della filosofia digitale, che guardano alla materialità del medium come sorgente di una nuova razionalità digitale. La scena può farsi campo d’analisi privilegiato per nuove prospettive sulla progressiva scomparsa della realtà. Uno studioso come Vincenzo Del Gaudio, scomparso troppo presto, aveva raccolto alcune premesse in un luminoso volume, Théatron, e sarebbe rimasto affascinato da questo esperimento. La drammaturgia di movimenti e gesti, tra cluster di note, dissonanze e inaspettate armonie sciolte nella totale incomunicabilità dei corpi, compone un doloroso e frastornante apologo didattico: in un flusso performativo, l’essere umano (occupi scena oppure platea) si perde tra algoritmi misteriosi e la sua individualità si frantuma contro un muro di suono, che fa perdere la capacità stessa di pensare. (Sergio Lo Gatto)

Visto ad Atelier Sì, Bologna; crediti regia e scenografia Federica Amatuccio; direzione musicale e sound design Andrea Gianessi; musiche: Federica Furlani, Jacopo Giacomoni, Andrea Gianessi, Marco Puzzello; costumi: Martina Mondello, con la collaborazione di Solidea Colussi e Pinuccia Marchisio

TANGO DELLE CAPINERE

È una festa di capodanno quella che accoglie il pubblico del Teatro Biondo al termine delle vacanze natalizie. Una coppia di anziani, tra tremolii, colpi di tosse e pillole si agita, sul palco, ricercando momenti di un’intimità ancora non sopita. Così Emma Dante decide di portare sulla scena Il tango delle capinere, momento isolato dal Ballarini della sua Trilogia degli occhiali. Manuela Lo Sicco e Sabino Civilleri offrono il proprio corpo e la propria voce a una storia semplice, ripercorsa a ritroso grazie ai souvenir recuperati da un baule. Tra questi, un carillon e un paio di scarpe rosse da ballo che, come la madelaine proustiana, riportano i protagonisti a un tempo ormai esaurito. Il loro viaggio è un fatto puramente gestuale, corporeo, nel quale la parola si riduce a verso e la scena ad atmosfera brillante ma malinconica. Il catalogo di tormentoni, provenienti dai juke box di ogni decade passata, è la colonna sonora di una storia in fondo quotidiana, che non punta ad alcuna esemplarità per illuminarsi nelle piccole, divertenti soluzioni messe in atto dagli interpreti. Nel finale, che corrisponde al momento in cui i due si conoscono per la prima volta, interviene il dialogo a raccontare qualcosa di sé; ma per il resto, la performance è una vibrazione consumatasi nella fisicità e nelle espressioni di Civilleri e Lo Sicco. In questo Tango si alternano momenti di tenerezza passionale, poco più che accennata, e quell’aggressività rabbiosa e spezzata, cifra della regista. Ma, in fondo, sembra che qui Dante abbia voluto anzitutto, in contrasto, deporre il conflitto, per offrire una vicenda semplice e godibile. Come mai tornare proprio su Ballarini? «Intanto guarda lo spettacolo, me lo dirai tu stessa». La risposta non l’abbiamo trovata. Comunque sì, la ripresa a distanza di questa festa a celebrare una fine, all’inizio dell’anno, può aver avuto un proprio senso. La nostalgia è quello che resta. (Tiziana Bonsignore)

Visto al Teatro Biondo, Palermo. Crediti: di Emma Dante; regia Emma Dante, interpreti: Sabino Civilleri e Manuela Lo Sicco, luci: Cristian Zucaro; produzione Sud Costa Occidentale in coproduzione con Emilia Romagna Teatro ERT - Teatro Nazionale / Teatro di Roma -Teatro Nazionale / Teatro Biondo Palermo / Carnezzeria / Théâtre des 13 vents, Centre Dramatique National Montpellier / MA Scène Nationale - Pays de Montbéliard. Foto Carmine Maringola

AGNELLO DI DIO

Agnello di Dio è la prima drammaturgia dello scrittore Daniele Mencarelli, già premio Strega Giovani. Il motore del testo è l’attenzione verso il malessere delle nuove generazioni, mista ad una sorta di confessione di impotenza: un’autoaccusa generazionale che si serve dello sguardo giovanile, ma non riesce a dargli voce. Samuele (Alessandro Bandini) è un diciassettenne di buona famiglia schiacciato dalle aspettative del suo contesto sociale. Iscritto alla prestigiosa scuola cattolica che frequentò anche suo padre e dove il suo futuro sembra già scritto, usa un compito in classe per confessare il proprio disagio. Suo padre Marco (Fausto Cabra, molto efficace nei panni del borghese in carriera benpensante e affettato) e la preside Suor Lucia (Viola Graziosi, austera e compassata) cercano di comprenderne le ragioni. Tutto lo spettacolo, ambientato nel grande ufficio della preside, è l’asfissiante proposta di aiuto di chi non sa ascoltare, troppo impegnato a proteggere la propria maschera sociale. Pur incalzato dalle domande dei due adulti, Samuele non riesce mai davvero ad avere la loro attenzione: si ribella, ma poi ritratta le proprie confessioni, ripete più volte che forse hanno ragione loro. Il focus della narrazione si sbilancia sempre più verso gli adulti, per poi chiudersi con un definitivo spostamento su di loro, come dimostra sul finale la rivelazione sul passato della preside. Se questa drastica virata conferma la direzione dell’accusa – non sono i giovani ad essere degenerati, la colpa è degli adulti - al contempo non fa che rubare ancora una volta la scena al ragazzo, alla verità del suo malessere. La regia di Piero Maccarinelli lavora a rendere dinamica una drammaturgia di per sé statica, che non riesce a celare la stretta parentela con il romanzo. Sono le ripetute apparizioni di Suor Cristiana (Ola Cavagna) a rompere e rinnovare il ritmo. L’anziana suora è anche l’unica capace di offrire, in un semplice biscotto, conforto, vicinanza ed empatia a Samuele.  (Sabrina Fasanella)

Visto al Teatro Parioli. di Daniele Mencarelli. Regia Piero Maccarinelli. Con Fausto Cabra, Viola Graziosi, Alessandro Bandini e con Ola Cavagna. Scene, costumi Piero Maccarinelli. Musiche Antonio Di Pofi. Luci Cesare Agoni. Consulenza scenografia Anna Maria Gallo. Consulenza costumi Bruna Calvaresi. Assistente alla regia Irene Careri. Produzione Centro Teatrale Bresciano

FAMILY. A MODERN MUSICAL COMEDY

Dire qualcosa quando tutto è già stato detto è impresa alquanto ardua. Rinunciarci è una scommessa. Gipo Gurrado non si spaventa e, ancora prima di prendere una posizione, lascia che la materia pulsante del musical parli da sé, forse anche un po’ tacendo. Family. A Modern Musical Comedy ritrae una famiglia, una come tante, una come la nostra. L’ambientazione è un passato dai sapori vintage, di cui Marina Conti costruisce fedeli scenografie ma irrealistiche e sgargianti tonalità di costumi. All’iniziale scena scarna, abitata dai genuini battibecchi di una coppia di fidanzati, subentra la tappezzeria della casa dei genitori di lei. Qui il ritorno dei figli è il pretesto di un atteso ricongiungimento di affetti. La disposizione delle mura, però, crea delle nicchie di isolamento e i personaggi vi si nascondono per ricreare l’anfratto di un ricordo: il tempo si sospende, cala il buio mentre la luce si focalizza su un componente della famiglia, intenta a dargli una voce che si esprime attraverso i motivi musicali scritti da Gurrado e coreografati da Maja Delak. Le parole del testo, fresche ed essenziali nello svolgimento narrativo come in Supermarket (in scena a dicembre), sembrano però qui mantenere traccia dell’aleatorio, dell’inafferrabile. Qualcosa, in questa famiglia, ancora non viene detto (come suggerito dalla particolarità del personaggio visibile-invisibile di Paola Tintinelli); allora la regia preme il tasto rewind e torna indietro: i personaggi ripercorrono a ritroso i propri passi e tornano al punto di partenza. Una scelta sicuramente ben meditata che cerca di evitare la retorica tradizionale, le reiterate conclusioni sociali sul nucleo famigliare, ma che inevitabilmente finisce per perdere a tratti l’attenzione del pubblico che vorrebbe scavare quella materia pulsante, giungere in profondità, avvicinarsi e piangerne, raccogliere il dolore o farne un riso, folkloristico, più spontaneo. (Andrea Gardenghi)

Visto al Teatro Fontana di Milano. Crediti: Libretto, testi, musiche, regia Gipo Gurrado Coreografie e movimenti scenici Maja Delak, Con Andrea Lietti, Giovanni Longhin, Ilaria Longo, Nicola Lorusso, Roberto Marinelli, Marco Rizzo, Elena Scalet, Paola Tintinelli, Scene e costumi Marina Conti, Audio Stefano Giungato Hindie Hub. Produzione Elsinor Centro di Produzione Teatrale. Ph Michela Piccinini

I MANOSCRITTI NON BRUCIANO

Sotto a un cono di luce, dietro il velo che separa la scena dalla platea, troviamo l’ambizioso e un po’ arrogante autore Ivan Bezdomnyj (Anton de Gugliemo) e, di bianco vestito, il consulente Woland (Francesco Petti), malefico deus ex machina, rivelatore dell’umana debolezza, e di quanto questa possa essere tratta in inganno per l’ottenimento del potere, e quindi della redenzione. La drammaturgia e regia di Alessandra Chieli per I manoscritti non bruciano, adattamento de Il maestro e Margherita di Michail Bulgakov al debutto romano, si biforca, come lingua diabolica, in una struttura complessa che tenta di restituire l’ambivalenza delle ambientazioni originali, quella della Mosca anarchica degli anni Trenta che imprigiona in un manicomio il Maestro (Emilio Barone), e quella dei fatti di Gerusalemme al tempo di Ponzio Pilato e del processo a Gesù. Dispiace constatare che nonostante l’interrogazione storico politica di uno dei testi capisaldi della letteratura russa, e la sua attualizzazione in un presente compromesso dall’invasione della Russia in Ucraina, l’interpretazione attorale, suddivisa in diversi ruoli per i quattro interpreti, non riesce a sostenere il testo, né dà spessore psicologico ai personaggi, soggiogati da una struttura troppo elaborata; la voce e canto di Chieli (anche interprete di Margherita) riescono tuttavia a distinguersi per pulizia e intenzione. Apparizioni e sparizioni si alternano in una serie poco organica di scene bidimensionali, staccate le une dalle altre, prive di ritmo, faticose da seguire per la fumosità della narrazione e per l’affastellamento virtuosistico dei tempi del racconto. Se non fosse per la scrupolosità con la quale è stato pensato l’impianto sonoro, confezionati i costumi, regolato il disegno luci, montate le proiezioni, l’attenzione dello spettatore andrebbe dispersa poiché non è drammaturgicamente chiara l’intenzione che soggiace alle finalità di questo lavoro, forse ancora tenuto in scacco dalla visionarietà di Bulgakov. (Lucia Medri)

Visto al Teatro Tor Bella Monaca Testo e regia Alessandra Chieli; Supervisione drammaturgica Francesco Petti; con Emilio Barone, Alessandra Chieli, Anton de Guglielmo, Francesco Petti; direttore tecnico e luci Emilio Barone; supervisione tecnica generale - Stefan Schweitzer; musiche originali – Francesco Petti e Emilio Barone; sonorizzazione, immagini e montaggio Alessandra Chieli; costumi Armida Kim; assistente di scena Emma Tramontana.

DISPREZZO DELLA DONNA

Ci sono due artisti, provenienti dal magmatico mondo dell'underground romano dei primi anni 2000 (quello delle ultime cantine, degli spazi sociali e alternativi…), instancabili per la dedizione e la passione impiegate nel lavoro di scavo tra le forme e i temi con cui riempiono ogni volta la loro valigia di teatranti, sono Elvira Frosini e Daniele Timpano. La Storia è da sempre al centro delle loro ossessioni (con Ottantanove, sulla Rivoluzione francese, hanno vinto un premio Ubu alla drammaturgia): nell’ultimo, Disprezzo della donna, l’affondo sui materiali storici è, per certi versi, ancora più radicale. Lo spettacolo è infatti costruito attraverso la giustapposizione di testi e manifesti del Futurismo nei passaggi in cui al centro della riflessione c’è la questione femminile. Frosini e Timpano lo descrivono anche come “uno spettacolo femminista, composto da materiali che non lo sono affatto”; ma soprattutto questo lavoro è una sfida teatrale, assurda e geniale allo stesso tempo: i due si presentano in scena, marcando subito l’inversione comica sulla quale appenderanno il serissimo lavoro sui testi, con un completino ginnico che sembra uscito da qualche anime sulla pallavolo (canottiera arancio e leggins fucsia); non recitano solo a voce i testi ma costruiscono una linea interpretativa fisica, un piano performativo - che in fin de conti è una risposta proprio all’anelito di dinamismo della cultura futurista - indicato negli ironici titoli di testa come “Declamazione dinamica e sinottica”. L‘irriverenza poetica del testo fa sorridere e riflettere, per poi emergere nella sua dimensione musicale: il pubblico viene così stimolato da un flusso continuo, dalle improvvise esplosioni fisiche o vocali, dai cambi di tono. Come nel finale, desolato e bellissimo, tratto dalle parole oniriche di Benedetta Cappa Marinetti: una favola nera nella quale un padre mura finestre e spiragli che potrebbero liberare la vitalità e la forza spirituale delle figlie.

Visto al Teatro Biblioteca Quarticciolo, novembre 2022, drammaturgia, regia e interpretazione Elvira Frosini e Daniele Timpano, Disegno luci Omar Scala, Disegno del suono Lorenzo Danesin, Costumi Marta Montevecchi, Collaborazione alla drammaturgia e regia Francesca Blancato, Organizzazione, Laura Belloni. Produzione Gli Scarti, Frosini / Timpano – Kataklisma Teatro

THE SHOW

La sala del teatro Fortezza Est è uno spazio che resta insospettabile, collocata com’è dietro al bancone della libreria antistante. Perciò quando al pubblico assiepato tra gli scaffali viene concesso l’ingresso, ci si sente come in procinto di scoprire un qualche segreto, di ascoltare una confessione. Elisa Denti, protagonista di The Show, entra in scena senza entrare in scena, accoglie il pubblico con confidenza, disponendolo ad ascoltare una storia.
Quasi impercettibilmente diventa Adele, nei suoi pantaloni della tuta. Insieme a lei entriamo in una palestra, ne sentiamo gli odori e i rumori, sul filo dei pensieri di una donna comune, lucida e disincantata. Una scommessa di un gruppo di amiche - forse non davvero amiche - l’ha portata lì: con lei lo spettatore vive il lieve disagio misto a curiosità di chi si accosta per la prima volta a qualcosa di nuovo, mantenendo le distanze per poi ritrovarsi al centro. Il wrestling femminile è lo sport che si pratica in quel luogo, e prima che Adele possa chiedersi se fa per lei è già sul ring. Lì impara che la ripetizione è una forma di crescita, che un nome e una faccia possono assomigliarsi e che dentro di lei, sonnecchiante, c’è un animale da scoprire e liberare. Il wrestling, sport che tanto ha in comune con il teatro, si conferma un efficace escamotage per la costruzione di un personaggio e del suo paesaggio interiore, i saliscendi dell’anima, il contatto con il proprio intimo e sopito ruggire. Si potrebbe descrivere The Show come una storia di formazione, non priva di spunti ironici e tenerezza, la cui semplicità – pochi elementi, anche sulla scena – è quella tipica delle storie ben raccontate. La drammaturgia di Manuela De Meo dispone personaggi e situazioni in modo fluido ed efficace. La regia di Luigi D’Elia sceglie di raccogliere il tutto nella voce, negli sguardi e nei piccoli gesti evocativi di Denti, fino all’exploit finale che forse potrebbe osare di più nella durata e nell’intensità del climax raggiunto. (Sabrina Fasanella)

Visto a Fortezza Est. Un progetto di Elisa Denti e Manuela De Meo. Scritto da Manuela De Meo. Con Elisa Denti. Regia Luigi D’Elia

THE GARDEN

Sette le virtù e i vizi capitali, sette i bracci della Menorah e le divinità mitologiche della Cabala ebraica; sette sono i sacramenti del Cristianesimo e gli attributi di Allah; ma anche sette i chakra e i passi del Buddha verso la Consapevolezza. In ogni viaggio di scoperta, questo numero pianta una vera e propria giungla di simboli. Sette sono gli schermi installati a sfondo della creazione The Garden, firmata da Fanny & Alexander e, dopo il debutto a Romaeuropa Festival 2021 e un giro all’estero, giunta ad Ateliersi di Bologna per un’ultima tappa nel dicembre 2022. Luigi De Angelis (ideazione, regia, drammaturgia, video) firma una complessa immersione nell’universo del dolore e del martirio, animando un polittico digitale con sette possibili icone, tra sottili rimandi alla cronaca recente e simbologie più minute e non prive di ironia. La voce di Claron McFadden e il live looping di Emanuele Wiltsch Barberio guidano una meditazione di suoni e di sguardi suddivisa in stanze, una «galleria di lamentazioni e memorie musicali» – così da note di regia – che frequenta Bach, Monteverdi, Nina Simone e altre modulazioni di sofferenza. Respiro ampio ed emissione chirurgica, McFadden sfrutta una vertiginosa versatilità per diventare amplificatore emozionale. L’intervento di Barberio sulle melodie, che crea sorprendenti canoni e multiple armonizzazioni, aiuta a snodare una rapsodia intima, addolorata e dolorosa, precipitando lo spettatore in uno scavo nelle profondità dell’animo, dove la coscienza incontra il crocevia delle responsabilità individuali. Il duo ravennate (trent’anni nel 2022) compone un ennesimo enigma, disseminando di indizi cognitivi un viaggio di visione e ascolto che mostra i diversi strati del “mestiere di vivere”: ogni giorno ci crocifiggiamo e, scriveva Michel Serres, «nessuno salva nessuno e nessuno viene salvato». Il paesaggio emotivo e la ferita che provoca viaggiano alla stessa velocità, sfruttando l’intensità del disegno e dell’esecuzione, di sopraffina complessità. (Sergio Lo Gatto)

Visto ad Ateliersi, Bologna; Crediti Ideazione, regia, drammaturgia, video Lugi De Angelis; Costumi (video) Chiara Lagani; Vocals Claron McFadden; Live looping Emanuele Wiltsch Barberio; Regia del suono Damiano Meacci; Video Performers Andrea Argentieri, Mirto Baliani, Ilenia Carrone, Marco Cavalcoli, Mirko Corciari, Consuelo battiston, Gianni Farina, Adama Gueye, Chiara Lagani, Bet Lihem, Joshua Maduro, Roberto Magnani, Fiorenza Menni, Mauro Milone, Marco Molduzzi, Stefano Toma; Produzione Fanny & Alexander

GAETANO COSÌCOMÈ

Gaetano (Filippo Luna) racconta la sua personalissima storia. Non è più giovanissimo, e vive in Germania; siciliano, di famiglia tradizionale, non vive da solo ma i suoi familiari non lo sanno. Il padre però si chiede quand’è che troverà una compagna, magari una bella tedesca; la madre lo guarda, si lascia sfuggire qualche affermazione lapidaria a denti stretti, sospetta. Gaetano è rinchiuso in una gabbia senza muri: potrebbe uscirne in qualunque momento, la decisione spetta a lui. Costretto e insofferente, sempre in bilico tra ricordi in un dialetto stizzoso e in un italiano carezzevole. Di un racconto tanto coinvolgente, tanto comune, tanto classico, conforta la capacità di comprensione e compassione nei confronti di individualità che non si toccano mai, ma si colpiscono mortalmente; conforta, per paradosso, che la comprensione arrivi da chi ne avrebbe più bisogno. Non è un martirio, quello di Gaetano; è la consapevolezza dei limiti altrui, compresi i propri. Filippo Luna assume i corpi di una famiglia di persone sole, e gestisce le singole emotività con una dolcezza disarmante; mai toni sopra le righe, mai macchiettistico, mai un giudizio a deformargli la bocca. Lì dove è presente una cosciente contestualizzazione, non può sussistere una posizione manichea e morale. Si prova una sofferente tenerezza tanto nelle conversazioni con il compagno, presente come calda luce che tira la testa di Gaetano fuori dalla gabbia, quanto le discussioni e gli scontri con i genitori che gli sfibrano e innervosiscono il corpo in scatti di dolore. L’esperienza di vita non è ordinata in formule di ingabbiamento identitario che fanno di quell’esperienza un simbolo esemplare. Il pubblico non è mai messo nelle condizioni di subire una narrazione che impone distanze di merito, ma può avere la possibilità di accogliere un vissuto. Non c’è alcunché di eccezionale in quello che viene raccontato. Cosa importa se Gaetano vive con un uomo? Esiste ben altro che lo rende ciò che è. (Valentina V. Mancini)

Visto a Ridotto del Mercadante, Napoli; Crediti: Di Salvatore Rizzo; Regia Vincenzo Pirrotta; Con Filippo Luna; Musicista Maurizio Capone; Scene Marianna Antonelli; Disegno luci Ciro Petrillo; Direttore di scena Antonio Gatto; Scene in collaborazione con Accademia di Belle Arti di Napoli – Corso di Scenografia per il teatro; Foto di scena Ivan Nocera; Produzione Teatro di Napoli – Teatro Nazionale.

EPPIDEIS

Gioni abita in un mondo di plastica e cartone dal quale vorrebbe bandire ogni stortura. Così inventa un sogno ambientato a Milwaukee dove, come nella serie televisiva Happy Days, tutti sono belli e felici. Ma lei non è né bella, né felice. Nell’universo di feticci e consumi colorati che la circonda e di cui si circonda, le vere conseguenze del boom sono state smascherate. Gioni è un residuo, è ciò che rimane ai margini della corsa sociale, lungo la quale cerca di trascinare, allegra e infelice, il suo personale grumo di sofferenza e cicatrici. Sulla scena di Mela dell’Erba, un set da sit-com anni ‘50, la ragazza è condannata a vivere la vita che vorrebbe e non ha, una grande finzione individuale e collettiva nella quale tira dentro, a forza, il pubblico che sorride un po’ divertito, un po’ imbarazzato, un po’ colpevole. Il telefilm dove Gioni saltella a tempo di boogie (il suono è di Gianluca Misiti), è una disturbante, tragicomica messinscena alla quale tutti devono partecipare loro malgrado, ed è qui che in un certo senso si consuma la vendetta della protagonista, autorizzata a infierire su quanti ritenevano di poterla osservare indisturbati. Alla fine di tutto, Gioni è l’unico elemento davvero reale della farsa, anche se porta la parrucca, i baffi e un abitino che, aderendo alla fisicità muscolare di Silvio Laviano, appare grottesco e inverosimile. Sotto la frizzante patina da spot commerciale, si agita la storia di un lutto, di un suicidio, di un padre troppo debole, di un mondo interiore nel quale la parola diviene una cosa brutta e rotta, da buttare. Laviano attraversa le fasi del suo personaggio con lo slancio sicuro di un atleta imponendosi, quasi temibile, su un pubblico bistrattato di potenziali “cretini”. Così, nel corso di una sorta di cammeo, Palazzolo interviene sul corso degli eventi nella propria veste di autore, direttamente sulla scena. Non abbiamo compreso, dice. E forse ha ragione. (Tiziana Bonsignore)

Visto allo Spazio Franco, Palermo. Crediti: testo e regia Rosario Palazzolo con Silvio Laviano con le voci di Cosimo Coltraro, Manuela Ventura, Viola Palazzolo e Rosario Palazzolo scene e costumi Mela Dell’Erba musiche originali e effetti sonori Gianluca Misiti luci Gaetano La Mela assistente alla regia Gabriella Caltabiano produzione Teatro Stabile di Catania. Si ringrazia l’Associazione culturale Peppino Impastato di Salemi. Foto di Antonio Parrinello.

CATCH ME

Avremo subito tutti quel fascino, perverso ma impellente, dell’avere accesso alla vita di qualcun altro, raccolta in un archivio composto da tracce di un passato da preservare o resti che non si è riusciti ad abbandonare. Catch me è figlio di questo desiderio: lo spettacolo della compagnia Illoco Teatro visto al Teatro Basilica, è nato dall’incontro fortuito casuale con un baule di memorabilia appartenente tutte a un uomo. Oggetti vari ma soprattutto nastri audio all’interno dei quali l’uomo, Ennio, ha raccolto i propri sogni; lo scandaglio di questi viaggi onirici è diventato il terreno su cui far attecchire per i cinque interpreti (in uno studio di 5 anni) delle ipotesi di vita per frammenti, cui poi aggiungere del proprio, immaginando connessioni, ricorrenze, interpretazioni. Sulla scena approdano parole dai loro quaderni di viaggio (una istallazione all’ingresso della sala rende merito dei possibili intrecci su carta), mentre corpi e piccole abat-jour creano costruzioni immaginifiche rievocando il dicibile di quelle storie ricostruite. L’equilibrio tra il riuscire a dare giusto pieno a quel vuoto senza che diventi pretesto per un racconto slegato è  materia complessa, tant’è che a volte si ha la sensazione di perdere il filo che sta ricucendo l’immagine perduta. Avere a che fare con un archivio espone al dover considerare per assoluto qualcosa che è figlio di tanti passaggi, molti dei quali aleatori, temporanei, casuali; i vuoti non sempre possono o debbono acquisire senso, ma la sfida sta proprio tra il rispetto e il tradimento, tra il ricucire uno strappo e aggiungere una toppa che non serviva ancora. (Viviana Raciti)
Visto al Teatro Basilica. Crediti: Regia Roberto Andolfi. Drammaturgia Rosalinda Conti. Assistente alla regia Alessia Giglio. Con Maria Vittoria Argenti, Dario Carbone, Annarita Colucci, Valeria D’Angelo, Anton De Guglielmo.

SNOWFLAKE

Interno sera, alla vigilia di Natale. Nel cuore dell’Inghilterra contemporanea Andy ha preparato tutto, ha addobbato una sala in affitto con festoni, palloncini e albero di Natale, per quello che vorrebbe fosse un incontro perfetto: qualcuno ha visto sua figlia Maya in città, da tre anni è andata via senza avvisare, ma forse questa volta si farà viva, lui ci spera, attende emozionato e sistema ogni dettaglio. Non ha mai saputo, o capito, quale fosse la sua colpa, forse per l’inaccettabile sfida di crescere da solo una figlia adolescente dopo la morte di sua moglie, forse perché ha votato sì alla Brexit e Maya si è sentita tradita. Forse. In questo dubbio si arrovella Andy, cercando l’espressione giusta per questo presunto arrivo. Snowflake, testo di Mike Bartlett diretto da Stefano Patti (che ne aveva curato la messa in scena per Trend 2021), attraverso uno spunto di carattere familiare cerca di esprimere il disagio intergenerazionale di un’Inghilterra alle prese con la lotta tra passato e futuro, tra conservazione e prospettiva, inquadrando un padre (Marco Quaglia) e una figlia (Adalgisa Manfrida) in conflitto ma svelando di ognuno la fragilità. Tra di loro un terzo personaggio (Lucrezia Forni), che sarà il fulcro del loro tentativo. La frustrazione e il dolore si mescolano con delle parti più brillanti, la regia di Patti cerca sostegno nella qualità degli attori – più di tutti Marco Quaglia che continuiamo a pensare meriterebbe palcoscenici prestigiosi – ma il testo ha dei conflitti drammaturgici molto deboli che non rendono del tutto credibili i motivi di questa mancata relazione. (Simone Nebbia)
Visto al Visto a Fortezza Est. Crediti: di Mike Bartlett; regia Stefano Patti; con Marco Quaglia, Adalgisa Manfrida, Lucrezia Forni; produzione 369gradi

L’UOMO PIÙ CRUDELE DEL MONDO (di Davide Sacco)

Qualche tempo fa Elon Musk, l’uomo più ricco del mondo, dopo aver acquisito il social network Twitter lo ha usato un po’ come avrebbe fatto un semplice utente: ha postato una foto che ritraeva alcuni oggetti sul proprio comodino. Sembra semplice esibizione, in realtà c’è di più: quanto fatto da Musk è stato costruire la propria identità di fronte agli altri, ambientare la scena del crimine peggiore per un essere umano: essere appunto umano. Sembra questo lo schema in cui si svolge la vicenda che Davide Sacco dirige in L’uomo più crudele del mondo, ma non è che apparenza: Lino Guanciale è un crudele e potente magnate d’azienda, Francesco Montanari un giornalista mite che viene convocato per raccoglierne la testimonianza e legittimare così il suo potere. Siamo dentro il doppio piano obliquo del suo ufficio nel complesso industriale, tutto attorno è silente, l’uomo è eccitato, conduce lui stesso la sua intervista e presto svela il proprio desiderio: essere ucciso dal giornalista, dietro il pagamento di sempre più denaro. Il giovane tentenna, rifiuta, poi pian piano accetta e si trasforma lentamente in un aguzzino, mostrando la propria natura più profonda. Guanciale è il più abile nel frequentare diversi registri e modellare il personaggio, al servizio di una regia decisa che tuttavia poggia molto sugli attori e sembra suggerire gli avvenimenti del testo più che farli apparire come una rivelazione. Ne nasce uno spettacolo agitato in cui la situazione si ribalta fino a far emergere dal passato le intenzioni segrete del gesto, promesso o minacciato, in cui si confrontano istinto e ragione, ma quando quest’ultima è intrisa dal dolore non avrà pace se non la morte. (Simone Nebbia)
Visto al Teatro Ambra Jovinelli. Crediti: testo e regia Davide Sacco; con Lino Guanciale e Francesco Montanari; scene Luigi Sacco; luci Andrea Pistoia; organizzazione Ilaria Ceci

APOCATASTASI

Lo spazio e il tempo collassano in una sorta di buco nero, qui il senso si scioglie come un liquido nero inafferrabile: di fronte a noi ci sono due corpi femminili, vestono abiti lunghi e hanno da poco varcato il limite dell'adolescenza. Poca luce, nella penombra del Teatro India, hanno gli occhi coperti dai loro capelli, oppure sono di spalle o chiuse in un profilo nel quale nascondono lo sguardo. L'io è negato. È come sempre uno spazio di idee filosofiche quello di Tafuri e Beronio, che qui si nutre di antichi miti relativi alle danze dell’ade. Anche in questo Apocastasi, presentato a Teatri di Vetro, l'immagine, le riflessioni e i rimandi compongono, a distanza di giorni, una memoria suggestiva. La performance invece, nel suo accadere, nei 40 minuti, si muove con lentezza, piccoli movimenti, incontri tra due corpi e danze accennate, aggressioni, cenni erotici. Rimane appunto un'esperienza performativa circoscritta e di lettura forse non immediata per un pubblico non alfabetizzato o semplicemente non appassionato a una modalità che agisce per sottrazione. La potenza e il limite stanno proprio in questa caratteristica dell’opera, nel rimanere su un confine immaginifico: non si addentra nello stato solido di uno spettacolo, nella densità di un'opera completa, ma non rimane neppure nei territori totalmente anti rappresentativi dell'apertura sperimentale più pura. D'altronde la costruzione visiva, l'uso delle luci e il contrappunto musicale di Pietro Borgonovo dimostrano una volontà di costruzione, ma la coreografia e lo stare in scena delle due giovani performer sembra fermarsi prima, in una sorta di anticamera fatta di ombre. (Andrea Pocosgnich)

Visto al Teatro India per Teatri di Vetro. Crediti regia Clemente Tafuri e David Beronio con Roberta Campi e Giulia Franzone musiche originali Pietro Borgonovo produzione Teatro Akropolis. Foto Margherita Masè

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