Cordelia - le Recensioni

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ATTO SENZA PAROLE 2 (con Sergio Longobardi e Costantino Raimondi)

Il primo (Sergio Longobardi) ha testa pelata, barba lunga e un corpo decorato da residui dignitosi: il soprabito sgualcito, la fettuccia al collo, la parvenza d’una camicia, un libretto nella sinistra, nella destra una matita rosso/blu, di quelle con cui annota gli errori della vita. Un sandwich, una banana, fogli appallottolati in tasca, dice «associo, a torto o a ragione, il mio matrimonio con la morte di mio padre» e narra la disfatta che l’ha portato in Sala Assoli. Fuori la domenica di Napoli, da passeggio e turismo ipercalorico, qui uno dei clochard di Beckett, di cui mi restano – più che le pagine di Primo amore: la cacciata da casa, la panchina, Lulù e la merda, il sesso, l’abbandono – le mani cotte dal sole, e che il vento ha gonfiato e poi corrotto. Il secondo (Costantino Raimondi) in Atto senza parole 1 è una figura punk-lunare, dai capelli azzurri. Accecato dai fari laterali, costretto al gioco da una regia che cala oggetti di sopravvivenza e morte (un albero, tre cubi, forbici, una corda), scatta ai fischi, s’affanna, suda e s’adopera quindi, fallito il compito (raggiungere la brocca, ottenere l’acqua), gattona in proscenio dicendo con lo sguardo «sta per finire». Neanche fosse Clov. Entrambi, in Atto senza parole 2 ora stanno fianco a fianco, impegnati a prendersi lo sguardo, come se da ciò dipendesse il loro destino. Che infine il fatto è questo, direbbe Jan MecGowran: «che Beckett eleva all’ennesima potenza la sventura dell’uomo mettendo i personaggi in condizioni che normalmente porterebbero chiunque a commettere un suicidio» mentre loro, i personaggi, pur tentati dalla morte (Longobardi invidia i seppelliti al cimitero, Raimondi indossa un cappio) tentano invece di restare in scena, ovvero al mondo. Tra un affanno e un numero (una preghiera, una linguaccia, una carota morsa con e senza cellophane), sorvegliandosi (le pupille di lato, per scrutarsi con fastidio), finiscono nel sacco. Siamo nati, abbiamo vissuto, e lottato addirittura. E ora ce ne andiamo. Imbustati come un mobile inservibile, o come una sedia da buttare. (Alessandro Toppi)

Visto a Sala Assoli. Di Samuel Beckett, traduzione Carlo Fruttero e Franco Quadri, regia Costantino Raimondi, con Sergio Longobardi e Costantino Raimondi, assistente alla regia Annalisa Arbolino, spazio scenico Mediaintegrati, costumi Tata Barbato, disegno luci Antonio Nardelli, produzione e organizzazione Antonio Nardelli.

STABAT MATER (regia di L. Guadagnino e S. Savino)

Benedetta, e non è un’iperbole, la visione di Stabat Mater dal testo di Antonio Tarantino per la regia di Luca Guadagnino e Stella Savino con in scena, nei panni di Maria Croce, una magistrale Fabrizia Sacchi (che firma anche l’adattamento), supportata scenicamente da Emma Fasano. I Quattro atti profani sono stati i primi testi teatrali di Tarantino che presentavano il drammaturgo come figura innovativa e decisiva di una svolta per la drammaturgia italiana. Tra questi, lo Stabat Mater, già passato per le memorabili interpretazioni di Maria Paiato e Piera Degli Esposti, è ora adattato in questo teatro d’attrice, in cui la trasversalità dell’esperienza di Sacchi è osservata dalla regia di Guadagnino e Savino. Il risultato? È come entrare nella gabbia di una tigre e percepire su di essa, nelle sue definite movenze, sensuali alcune, irruente le altre – sottolineate da una camicia bianca e pantaloni neri – tutta la ferocia di una lingua grezza, popolana, rauca a causa delle quattro, cinque sigarette fumate, ma non per questo incapace di modularsi nell’accentazione napoletana, in quella cadenzata litania fatta di ascese misericordiose e violenti cadute, di amore e sofferenza; talmente impetuosa da anticipare le parole e così sofferente da sputarle con livore senza riposo alcuno. Un monologo che diventa preghiera di eternità e di redenzione per questa madre, per suo figlio in carcere e per tutto il presepio di personaggi dannati a cui lei si rivolge: la signora Trabucco, l’Assistente sociale, Don Aldo il prete, il dottor Ponzio, che come Pilato se ne lava le mani del figlio di Maria, e il Dottor Caraffa/Caifa. Fabrizia Sacchi è dolorosamente autentica, come dirà il suo personaggio, e insieme a Emma Fasano, che “serve” la scena fornendo all’attrice delle sedute e una scala per i movimenti, brilla nel nero minimalista della sala, madida di fatica, con gli occhi che da socchiusi si spalancano per fissarsi grandi e intensi in una posa di bellissima disperazione. E il pubblico sembra non abbia intenzione di smettere di applaudire. (Lucia Medri) Visto al Teatro Argot Studio: di Antonio Tarantino, adattamento di Stella Savino e Fabrizia Sacchi con Fabrizia Sacchi e con Emma Fasano, regia Luca Guadagnino con Stella Savino, una produzione Argot Produzioni, Infinito, Fondazione Sipario Toscana Onlus – La città del Teatro, Teatro delle Briciole – Solares Fondazione delle Arti. Foto di Yara Bonanni

IL CUORE DEBOLE DI ANTONIO (di Simone Giacinti)

Che il calcio abbia in dote la capacità di affondare nella società civile fino a scardinare rapporti di forza, istinti bassi e alti ideali, è cosa nota ormai almeno da Pasolini in poi; certo il calcio si è trasformato, diventando una rincorsa di mercato sempre più lontana dalla passione di gente che un tempo – ma non meno oggi – affollava gli stadi. Proprio per questo ad appassionare resta, spesso, il passato. Prima di tutto a proposito del campo, si pensa al calcio di una volta in termini nostalgici in modo quasi morboso, ma c’è invece poi un atteggiamento simile che volge in contrario al positivo in merito alle storie degli spalti, una serie di avvenimenti che attraversano le epoche e si narrano da una generazione all’altra. A Roma, tra le tante, spicca la storia di Antonio De Falchi, morto nel giugno del 1989 durante una trasferta a Milano per seguire la sua squadra del cuore, la Roma, insieme ad alcuni amici; oltre che ogni volta in Curva Sud la sua storia rivive oggi sul palco dello Spazio Diamante per la penna di Simone Giacinti, in scena insieme a Giovanni Bonacci, Giacomo Bottoni e Flavio Francucci, per la regia di Francesco Giordano. Il cuore debole di Antonio racconta la storia del viaggio a ritroso, come una testimonianza resa dopo il tragico avvenimento; sono gli amici che erano con lui a ricostruire l’istruttoria degli eventi, citando Antonio al centro del viaggio in treno Roma-Milano mentre Antonio, vestito con una maglia della Roma (sorprendentemente non d’epoca ma attuale), è fra loro come una presenza silente, dolcissima. Il linguaggio è quello giovanile dell’epoca, i sogni, lo stesso. Antonio e i suoi amici sceglievano il fine settimana di seguire il calcio letteralmente, in giro per l’Italia, componendo la schedina del Totocalcio, portando i panini fatti a casa, intonando cori e cercando di barcamenarsi nelle regole del tifo organizzato. Potevano pensare di trovarci la morte? Ne viene un racconto sentito in cui si confronto non solo un gruppo di tifosi ma una generazione, sul palco e in platea, in campo e sugli spalti, si estende il tempo supplementare di una partita interrotta troppo presto. (Simone Nebbia)

Visto allo Spazio Diamante. Crediti: di e con Simone Giacinti, con Giovanni Bonacci, Giacomo Bottoni e Flavio Francucci; regia Francesco Giordano; scenografia Alessandra Solimene; sound; designer Armando Valletta; aiuto regia Lorenzo Parrotto

LA VITA AL CONTRARIO – IL CURIOSO CASO DI BENJAMIN BUTTON (regia F. Ceriani)

La mimetica interpretazione data da Giorgio Lupano a La vita al contrario - Il curioso caso di Benjamin Button con elaborazione di Pino Tierno dal racconto di Francis Scott Fitzgerald del 1922, con regia di Ferdinando Ceriani, spettacolo visto al Teatro Manzoni, conduce a un’etimologia culturale accuratissima: in tema di invecchiamenti precoci (le sindromi progeroidi) per ammissione dell’autore ci furono spunti di Mark Twain e Samuel Butler (anche una derivazione poetica da Giulio Gianelli), e fa la sua parte il film del 2008. È merito però dell’attore protagonista, e di chi ha concorso all’impresa, se ora uno spettacolo può vantare d’avere precedenti non comuni e illustri. Lupano si presenta come uomo con la valigia (che contiene memorie), e racconta come è nato con un corpo di ottantenne, percorrendo l’esistenza con un’anagrafe alla rovescia, fino a scomparire con un corpo da neonato e con una testa affaticata mentre tutto gli svanisce intorno nel buio di un ‘adesso’ impalpabile. Non ho mai visto un artista così impegnato a sintetizzare (in controtendenza) l’arco di una parabola umana. In un contesto, da noi, che va dall’Unità agli anni 60, acquisendo l’identità di Nino Cotone. Il suo passato di bebè impressionante lo deduce dalle narrazioni (stupefatte) paterne, quando, gestendo la parola da subito, domanda al genitore un bastone e gli occhiali, e preferisce un sigaro ai sonaglini. Crescendo deve respingere le maldicenze sulla sua mostruosità, poi, lentamente ringiovanendo, la sua maturità esteriore pareggia l’età della testa, incontra la donna della sua vita (che invecchierà prima di lui), e ha un figlio - poi delegato al suo posto nell’azienda ‘Cotone & figlio’ - che finirà per vergognarsi d’avere un padre bambino. Incontrerà ragazze fru fru (accanto alle altre voci di lui, ci sono i molti ruoli delle lei ad opera di Greta Arditi), s’imbatterà in due guerre dove non manca la voce di Mussolini, con lapsus militare, e con destino che lo infantilizza sempre più. La performance di Lupano, molto ben guidato dalla regia di Ceriani, è davvero naturale, civile, volubile, ed è un serio piacere seguirlo in un transfer/transfert da una stazione all’altra degli anni (Rodolfo di Giammarco)

Visto al Teatro Mercadante: La vita al contrario - Il curioso caso di Benjamin Button” di Francis Scott Fitzgerald elaborazione teatrale di Pino Tierno con Giorgio Lupano e Greta Arditi regia di Ferdinando Ceriani ideazione scenica di Lorenzo Cutuli colonna sonora di Giovanna Famulari e Riccardo Eberspacher costumi di Laura dè Navasque/costumEpoque Produzione ArtistiAssociati-Centro di produzione teatrale

LA SERRA-MORTE (di S. Guaragna regia di D. Folliero e M. Spampinato)

Le attrici Benedetta Margheriti e Veronica Toscanelli sono le ideatrici e curatrici di Locus Amoenus la rassegna dedicata alle giovani generazioni che, con tre spettacoli da febbraio a maggio, all’interno del Teatro di Villa Pamphilj si fa luogo per immaginare altri luoghi, presentando tre scritture teatrali diverse in cui si concretizza scenicamente la tensione a ripensare lo stato della realtà che ci circonda. La natura abbandonata, inquinata o sintetizzata dagli esseri umani è l’habitat attorno al quale testiamo la nostra capacità di sopravvivenza e, nel secondo appuntamento in cartellone, con lo spettacolo La serra-morte, abbiamo fatto esperienza del costo, fatalmente ineluttabile e ingente, della permanenza sul pianeta Terra. Il testo di Guaragna è complesso, stratificato, a tratti ridondante ma pur sempre maniacalmente strutturato in una successione e giustapposizione di piani che intersecano il “luogo” dei vivi - il palcoscenico abitato dal chimico Bondo (Simone Guaragna) e un gruppo di ragazze (Alice Lepidio, Ilaria Pietrangeli) e ragazzi (Lorenzo Berardinucci, Pietro Formentini) – con quello dei morti, la platea. Sarà proprio il marchingegno della serra-morte, che trasforma i gas serra in emissioni non inquinanti, inventato dal “disperso nel tempo” Bondo, ad offrire alle future generazioni, quindi ai protagonisti, una speranza al presente distopico di una megalopoli deserta. La drammaturgia avrebbe bisogno di ulteriori alleggerimenti formali poiché nella necessità di dover spiegare la storia, rispettando i diversi tempi del racconto, il testo rischia di allontanarsi dal contenuto della tematica socio ambientale e il come lo dice - attraverso giochi, canzoni, monologhi, ricordi - scorre parallelo diventando più ingombrante del cosa. La cura scenica e interpretativa, tanto registica che attoriale, la ricchezza dei movimenti, l’eclettismo del linguaggio e il susseguirsi rocambolesco delle scene dimostrano tuttavia una consapevolezza teatrale che merita di essere affinata e valorizzata. (Lucia Medri)

Visto al Teatro Villa Pamphilj dutante la rassegna Locus Amoenus: regia Daphne Folliero e Martina Spampinato, con Lorenzo Berardinucci, Pietro Formentini, Simone Guaragna, una produzione di Compagnia Fang-ta

BIANCO (di G.Tantillo)

Bianco per il testo e la regia di Giuseppe Tantillo - Segnalazione Speciale al Premio Riccione per il Teatro 2013 con Best Friend – in scena insieme a Valentina Carli, è una storia di malattia e di amore che fa ridere innanzitutto, perché nella scrittura - sia drammaturgica che scenica - si impegna a trattare uno dei temi più diffusi purtroppo ma anche più ostici, senza patetismo e ad avvicinarci ad esso nonostante empaticamente vorremmo allontanarcene. Tantillo e Carli, proprio quando si soffermano sugli aspetti più crudeli, innescano un meccanismo comico tragico di reazione per il quale ci accompagnano con discrezione, tenacia, caparbietà nella sala d’attesa del reparto di oncologia a conoscere Mia e Lucio, entrambi malati. Lei schietta, teneramente cinica, quando ne ha bisogno aggressiva, lui più spaventato, inconsapevole, in fondo ottimista. Jeans e maglietta e camicia bianca, sneakers ai piedi, borsa e poi zainetto, senza orpelli, casualmente semplici. La scenografia (Antonio Panzuto) è fatta con bozzetti proiettati dai colori tenui e dai tratti naif, che non vogliono interferire coi dialoghi ma solo tratteggiare poeticamente sullo sfondo il contesto: una sala d’attesa, la stanza dell’ospedale, il tempio di Angkor Wat in Cambogia…La scrittura, solo in alcuni quadri, sembra involvere su se stessa affaticando un po’ il ritmo (soprattutto nella parte che segue quella del viaggio) ciononostante Bianco è uno spettacolo con interpreti sensibili e arrabbiati, che buca il velo della solitudine di tante e tanti, che fa passare la luce dove è sceso il buio, quando ci si sente unici nella sofferenza e proprio quell’unicità la mette in collegamento con altre simili, abolendo lo stigma, celebrando la paura, rivendicando l’importanza di vivere l’attesa del domani abbracciando, e amando, l’incognita del futuro. (Lucia Medri) Visto al Teatro Belli durante la rassegna Expo – Teatro Italiano Contemporaneo: Con Valentina Carli e Giuseppe Tantillo, Scenografia Antonio Panzuto, Costumi Alessandro Lai, Assistente alla regia Andrea Console, Produzione Binario Vivo Teatro Nuovo / Accademia perduta Romagna teatri / Teatri molisani, Un progetto Bestfriend teatro

NIKITA (di Francesca Sarteanesi)

Le due sorelline da spostare all’ossario, che le permette di ricordare com’erano: vestite uguali, coi denti in orizzontale, inadatte a stare al mondo. Il buzzurro che la porta al casinò di Venezia e l’incontro con Julio Iglesias: il gioco di sguardi, la fuitina, il fazzoletto col profumo lasciato tra i seni per cadeau. «Io così in alto quella sera, dove pochissimi possono arrivare». La ruota panoramica, che «era il massimo tra le giostre»: punto di vista alternativo, momento di poesia che nessuno cerca più. I pesci rossi che ha nella boccia e che, nonostante gli abbia tolto il cibo e la torretta con la quale giocavano, «si ostinano a non morire», l’idiozia del marito, i ninnoli della credenza e questa «noia inconcepibile» cui accenna tra uno schiocco di bocca e un tiro al cocktail con la cannuccia. La Nikita di Francesca Sarteanesi parla, parla, parla, camicia colorata, posa da snob, ogni tanto gli occhiali da sole, mentre Nadia (Alessia Spinelli) ascolta e le fa la pedicure. Già, ma che dice? Presentata avara in brochure (si lava a pezzi per risparmiare l’acqua; «non sa condividere neanche una bottiglia di rosso della casa» leggo al Florida) mi pare una creatura fragile, che rimpinza il tempo di chiacchiere perché col silenzio riemergerebbero fallimenti e sconfitte. La giostra volgare che ora gestisce al luna park; la solitudine che le piomba addosso se tace. Narra dunque, o forse abbellisce ed inventa, seduta dietro un parapetto glitterato (addobbo d’effetto, pura apparenza), con Nadia piazzata a una distanza inverosimile (la lontananza a cui tiene la realtà). Tra musiche e avvisi da parco giochi e luci colorate che toccano la platea; infilzando i racconti coi ritornelli di canzoni infantili, la replica identica di frasi e di gesti, indovinelli senza risposta. E quando la dirimpettaia infine le parla, scaraventandole contro la miseria delle cose, Nikita spezza il dialogo dicendo come ha ucciso un tafano. Finché ci si mente insomma – e ti prego, reggimi il gioco – c’è ancora la possibilità di salvarsi. (Alessandro Toppi)

Visto al Cantiere Florida. Crediti: con Francesca Sarteanesi e Alessia Spinelli, drammaturgia e ideazione Francesca Sarteanesi e Tommaso Cheli, regia Francesca Sarteanesi, costumi Rebecca Ihle, scenografia Rbecca Ihle e Lorenzo Cianchi, disegno luci Marco Santambrogio. sonorizzazioni Francesco Baldi, produzione SCARTI Centro di Produzione Teatrale d’Innovazione e Teatro Metastasio di Prato, con il sostegno di Teatri di Pistoia Centro di Produzione Teatrale

CRISI DI NERVI (regia di Peter Stein)

Appartenenti al periodo di sperimentazione con il genere francese del vaudeville dopo l’insuccesso delle prime opere, i tre atti unici di Cechov presentati al teatro Ivo Chiesa per la regia di Peter Stein con il titolo Crisi di nervi hanno riscosso un grande successo. Il filo conduttore è, appunto, la nevrosi, che coglie indistintamente i vari personaggi manifestandosi nei modi più disparati: dalla furia cieca dell’Orso, al terrore frustrato del professore, al confronto isterico tra i due promessi sposi. Ne L’orso, una Maddalena Crippa vestita a lutto in un salotto elegante con sedie a sufficienza per accogliere ospiti che non verranno mai invitati, piange in solitudine la morte del marito fedifrago, salvo poi innamorarsi dello scorbutico ex ufficiale (Alessandro Sampaoli) che ha fatto irruzione nelle sue stanze per reclamare il pagamento di un debito. Al professore (Gianluigi Fogacci) de I danni del tabacco viene chiesto di sostenere una lezione sull’argomento, come segnala la scritta sulla lavagna, nonostante sia un accanito sniffatore. Emerge gradualmente un quadro di soprusi e abusi ad opera della dispotica moglie, che lo sfrutta e lo deride. La conferenza diventa così un pretesto per poter dar sfogo, in totale libertà, alla sua rabbia repressa. Il terzo e ultimo quadro, La domanda di matrimonio ha scatenato le maggiori risate, scaturite dal battibecco continuo tra il timido e nevrotico Ivan (Alessandro Averone), che soffre di tic e scompensi cardiaci, e la figlia del vicino (Emilia Scatigno), fiera e ostinata. È la figura del padre Stepan (Sergio Basile) a far da mediatore alla caparbietà dei due giovani, dichiarando appena cominciata la felicità coniugale. Con lo stesso cast dell’acclamato Il compleanno di Harold Pinter, andato in scena lo scorso anno, è portata in scena la comicità sottile della penna di Cechov, che mette in primo piano l’irrazionalità e la perdita di controllo. La spinta delle passioni estreme riacquisisce nuovo vigore, legittimandole e, al tempo stesso, disinnescandole: di fronte alla nostra stessa fragilità emotiva, a volte, non ci resta che ridere. (Letizia Chiarlone)

Teatro Nazionale di Genova: Crediti Produzione Tieffe Teatro, Quirino srl Adattamento Peter Stein e Carlo Bellamio Regia Peter Stein Interpreti L’orso: Maddalena Crippa, Sergio Basile, Alessandro Sampaoli I danni del tabacco: Gianluigi Fogacci La domanda di matrimonio: Alessandro Averone, Sergio Basile, Emilia Scatigno Scene Ferdinand Woegerbauer Costumi Anna Maria Heinreich Luci Andrea Violato Assistente alla regia Carlo Bellamio

COHORS (di Camilla Monga e Valentina Fin)

Ogni volta mi sorprende piacevolmente il sobrio eclettismo e l’austera bellezza motoria di Camilla Monga, sempre più spesso connessa per i suoi processi compositivi a musicisti, polistrumentisti, ora anche cantanti. Alla ricerca, non di rado inquieta, e in trasparenza umbratile, di una armonia possibile capace anche di scombinare, per spazî improvvisi, l’ordine del tempo con una preghiera, una voce, una gestualità diafonica (nella sua accezione musicale: ossia disgiunta, affinché sia più ampia la sua ricezione). A Vicenza, per il festival Danza in Rete Off, è stata la volta di Cohors, una «narrazione sonora» realizzata insieme alla cantante e compositrice Valentina Fin. In scena con Monga anche il danzatore Francesco Valli, e con Fin altri due musicisti: Manuel Caliumi (sax) e Marcello Abate (chitarra elettrica). Sullo sfondo di una sala di Palazzo Chiericati, circondata da una quadreria prevalentemente barocca, vi è un telo bianco nel mezzo dello spazio, a forte contrasto e rottura, come per richiamare un’idea di scena effimera, nomade, estemporanea (come una tenda di zingari accampata nel deserto). Dietro questo schermo si alternano silhouette di ombre, forse a contrasto coi corpi in alto dipinti. Un lenzuolo di luce che ospita confusioni cinetiche e giochi di forme: sono macchie che sembrano lacrime giganti o perle fuori formato, come da un viaggio di Gulliver. La più vera magia sono i brani eseguiti di musica antica (da Monteverdi a Purcell) che sbalzano dalla sala tra esoteriche sonorità elettriche e vibrazioni legnose degli arrangiamenti. E il canto, che spiana la strada a un sentire comune, condiviso. Fra le ombre della notte e i contorni del giorno. Sarà stato un indotto site-specific (come una tenda di zingari piantata al Louvre), in attesa di un compimento più teatrale, più meditato-studiato-preparato, epperò tanta istantanea e spasmodica bellezza dice la verità sul Barocco come «una cultura in sospensione imperfetta»: così insegnava Marzio Pieri, per scritture infinite che si squagliano e calchi di santi appestati «sotto teca — l’idea della puzza a maggior gloria di Dio e confusione del peccatore a boccaperta». È questa la meraviglia. (Stefano Tomassini)

Visto a Palazzo Chiericati per Danza in Rete Off progetto di Camilla Monga e Valentina Fin coreografia e allestimento scenico Camilla Monga interpreti Camilla Monga e Francesco Valli musica live di Valentina Fin (voce) Manuel Caliumi (sax) Marcello Abate (chitarra elettrica) produzione Nexus Factory

ETUDE 6 ON CROWD (di Gisele Vienne)

Una pulsazione ritmica, distante, emerge e si intensifica nell’ombra e anticipa l'ingresso di una luce fredda, intermittente, che squarcia il vuoto abitato da una macchina collocata in una posizione marginale del palco. Dai vetri della vettura intravediamo due giovani figure, nei corpi “nervosi” di Sophie Demeyer e Theo Livesey: non più una folla come nei lavori precedenti, ma i suoi residui oggettuali, i suoi “scarti”. Si tratta di un ripensamento sostanziale che Gisèle Vienne attua a partire da Crowd (2017) per ripensare ancora una volta il linguaggio del rave, scomponendone però la grammatica attraverso una riduzione al grado zero della sua sintassi coreografica. L’azzeramento, tuttavia, non annulla la ricerca performativa dei corpi o la presenza scenica degli oggetti – rifiuti abbandonati che si susseguono come ablazione di una vita altra – anzi esso permette l’irretire di tutti gli elementi fantasmali che contaminano l’universo della coreografa e regista franco-austriaca, restituendo altresì un complesso sostrato malinconico di mancanza, un bisogno viscerale di riempimento, di appartenenza. Se i movimenti collettivi non esistono più, allora non rimane che l’ossessione dell’io, l’incubo, l’abbandono. È qui che si intreccia la narrazione coreografica dei due performer in scena, fatta di fratture, accelerazioni improvvise e sospensioni irreali, acutizzata da sonorità techno roboanti: un rituale privato che mette in scena l'eco infestante di un rito collettivo, dove la temporalità si dilata e si contrae mentre la sua percezione sensibile si deforma. Anche le luci di Iannis Japiot amplificano queste fratture: ombre lunghe tagliano lo spazio, le silhouette emergono per poi dissolversi, in un gioco visivo che rifrange il senso stesso della presenza. Lo smarrimento, nella visione di Vienne, si costruisce così come condizione necessaria al riconoscimento, un esercizio di percezione che scava la presenza nell’assenza, che plasma e trasforma non più solo la collettività ma anche l’individuo. (Andrea Gardenghi)

Visto alla Triennale di Milano. Crediti: concezione e coreografia Gisèle Vienne, con Sophie Demeyer, Theo Livesey, musica Underground Resistance, KTL, Vapour Space, DJ Rolando, Drexciya, The Martian, Choice, Jeff Mills, Peter Rehberg, Manuel Göttsching, Sun Electric e Global Communication, suono Adrien Michel, luci Iannis Japiot, produzione e tournée Alma Office - Camille Queval e Anne-Lise Gobin, produzione DACM, Compagnie Gisèle Vienne

NIVES (drammaturgia di R. Fazi e a cura di G. Zorcù)

«Può capitare che il cervello si metta a camminare. Lo sanno tutti: con le vite ferme le angosce navigano» ed è subito una ferita, un ascolto doloroso che il pubblico in cuffia - attento alle parole di questa storia, isolato nella sua bolla sensoriale registicamente costruita ad hoc - percepisce come una fitta che si incunea tra la mente e il cuore, il ricordo e il presente emotivo. Nives è lo spettacolo tratto dall’adattamento dell’omonimo romanzo di Sacha Naspini pubblicato da Edizioni E/O e tradotto in ben 25 lingue. Una telefonata fatta nel cuore della notte dalla vedova Nives (Sara Donzelli) al veterinario Loriano Bottai (Sergio Sgrilli) diventa il pretesto, fisiologico e non premeditato, per rivangare i dispiaceri e i rancori, e allo stesso tempo godere delle giovanili gioie forse, ormai, perdute. «Era la prima volta che quella sua vecchia amica si scopriva così, in fatti che affondavano nell’ignoranza popolare»; la qualità interpretativa è curata, dosata e sostenuta dalla maturità attoriale, in un saliscendi di temperature umorali che mescolano insieme un q.b. di dolcezza a ferale aggressività, straniamento a totale abnegazione, rispettando quasi pedissequamente il testo originale. Dinamica che viene resa in scena attraverso luci colorate in mutevoli sfumature, da un avvolgente drammaturgia sonora di rumori, e da una separazione netta e frontale del palcoscenico in due parti, in cui l’uno e l’altra si parlano attraverso la cornetta, il cui filo pende dall’alto come un cappio che si stringe e si allenta a seconda dei passaggi più o meno sofferenti. «Pensavo lo stesso di te» detta con un filo di voce è un sospiro di rassegnazione che dal passato arriva alle orecchie di oggi; una confessione giunta quasi alla fine di un lavoro di scrittura, letteraria e scenica, di originale e avvincente suggestione. (Lucia Medri)

Visto al Teatro Tor Bella Monaca: dal romanzo di Sacha Naspini pubblicato da edizioni e/o, con Sara Donzelli e Sergio Sgrilli, drammaturgia Riccardo Fazi, a cura di Giorgio Zorcù, voci fuori, campo Graziano Piazza prologo, Elena Guerrini Donatella, costumi Marco Caboni, collaborazione ai movimenti Giulia Mureddu, disegno luci Marcello D’Agostino, disegno suono Umberto Foddis grafica Matteo Neri Accademia Mutamenti | Muta Imago | Con il contributo di regione Toscana, Città di Follonica / Teatro Fonderia Leopolda. Foto di Nicola Tisi.

SUPPLICI (di Serena Sinigaglia)

Ci sono delle radici al centro della scena. Poi, un tronco reciso – un altare funebre arboreo – e donne, vestite di terra e polvere, il pianto eterno delle madri, una voce collettiva che riecheggia da secoli, e parole che si spezzano, rami secchi, corpi che si piegano e racchiudono in una lamentazione condivisa. Le Supplici di Euripide, nella trasposizione a cura di Serena Sinigaglia, si presenta così come un'incisione netta nella memoria collettiva: nella tragedia antica le donne di Argo implorano il diritto a una degna sepoltura per i propri figli caduti in battaglia sotto le mura di Tebe. Non solo una tragedia ma un rituale di dolore che prende forma attraverso l’azione corale di sette donne, Francesca Ciocchetti, Matilde Facheris, Maria Pilar Pérez Aspa, Arianna Scommegna, Giorgia Senesi, Sandra Zoccolan e Debora Zuin, che riemergono dal testo euripideo e lo stratificano. Sono madri in lutto, pronte a tutto pur di riavere i corpi dei figli, sono anche uomini di potere, spinti dai desideri di conquista, dall’istinto di sopraffazione. Nella traduzione di Maddalena Giovannelli e Nicola Fogazzi, indagata dalla drammaturgia di Gabriele Scotti, questa stratificazione dei ruoli – che subisce talvolta un affaticamento nell’azione interpretativa delle attrici – sovrappone alle voci un tessuto testuale con citazioni di pensatori per un testo che così rielaborato, torna al passato, ai riferimenti filosofici, ma apre e insiste su una temporalità che invece è tutta contemporanea. Qui, la perdita diviene indice della narrazione: i frammenti, i vuoti, le vocalità spezzate, le braccia protese in attesa di ascolto, i movimenti netti, improvvisi, quasi convulsi, seguono una liturgia di separazione e di raccoglimento, enfatizzata da un bagliore sacrale, e mostrano come la democrazia si riveli ancora un equilibrio fragilissimo, minacciato dal conflitto, dalla prevaricazione, dalla doppia faccia del potere. Per “una storia che non è mai accaduta ma che è sempre esistita”. (Andrea Gardenghi)

Visto al Teatro Elfo Puccini. Crediti: di Euripide, traduzione Maddalena Giovannelli e Nicola Fogazzi, drammaturgia a cura Gabriele Scotti, regia Serena Sinigaglia, con Francesca Ciocchetti, Matilde Facheris, Maria Pilar Pérez Aspa, Arianna Scommegna, Giorgia Senesi, Sandra Zoccolan, Debora Zuin, cori a cura Francesca Della Monica, scene Maria Spazzi, costumi e attrezzeria Katarina Vukcevic, luci di Alessandro Verazzi, musiche e sound design Lorenzo Crippa, movimenti scenici e training fisico a cura di Alessio Maria Romano, assistente al training Simone Tudda, produzione ATIR - Nidodiragno/CMC - Fondazione Teatro Due, Parma

BRUTTA. (di G. Blasi, regia F. Zecca)

Un training autogeno sulla cyclette, una seduta di psicanalisi junghiana e pure una lectio magistralis sulla libertà di “incazzatura”: Brutta. Storia di un corpo come tanti è una bella corsa, preparata con sano agonismo scenico, cromaticità recitativa e minimalismo registico; adattamento teatrale di e con Cristiana Vaccaro per la regia di Francesco Zecca del testo di Giulia Blasi. Partiamo dalla fine, dall’incontro post spettacolo in cui, il pubblico numeroso (sold out tutte le sere tanto da aggiungere una replica straordinaria) partecipa al dibattito sulla disparità di genere senza ansia da prestazione o pregiudizio politico o eccessivo accademismo. La presa di parola autodeterminata e autodeterminante della protagonista - sola in scena, sulla cyclette, al buio ma racchiusa in una cornice luminosa, a limite tra la tenerezza popolare delle luminarie di una festa di paese e la seducente attrattività delle insegne del Cotton Club – è il fulcro attorno al quale si sfoga questo «corpo come tanti» che dall’infanzia all’adolescenza e fino all’adultità – incisivi i riferimenti all’immaginario maschilista degli anni Ottanta – è condannato alla bruttezza. Qualità che non ha però nel testo un’accezione estetica quanto invece sociale, di genere; “brutta” ovvero, giudicata, esclusa, subordinata, ostacolata, sempre costretta a dover legittimare la propria esistenza sulla base di logiche performanti. Correlativo oggettivo di questo sforzo identitario è infatti la cyclette, unico oggetto scenico. Vaccaro è esuberante, cinica, sarcastica e a tratti compassionevole ma mai pietosa; salta, balla, urla e ride all’interno di una stessa ravvicinatissima sequenza di battute tirate una dietro l’altra e ammantate da un’aura pop grazie alla selezione musicale. “Brutta” è allora la consapevolezza propulsiva di una pedalata velocissima restando ferme e ben salde a terra. (Lucia Medri)

Visto allo Spazio Diamante: di Giulia Blasi, adattamento teatrale a cura di Cristiana Vaccaro, Regia Francesco Zecca, Con Cristiana Vaccaro, Aiuto regia Veronica Buccolieri, Musiche originali Stefano Switala, Disegno luci Camilla Piccioni, Responsabile tecnico Tommaso Orioli, Produzione Do7 Factory, Foto Laura Sbarbori.

OTELLO (di Lella Costa e Gabriele Vacis )

Scale rosse, due teli a far da quinte e poco altro in scena, come un piccolo teatro nel ben più grande palcoscenico del Teatro Vittoria: uscirà da qui Lella Costa mentre dalla platea arriverà il consueto applauso di rito - abitudine che ancora sopravvive con certi pubblici verso le maestre e i maestri della scena e che qui viene subito smorzata dall’attrice che ringrazia per «l’applauso preventivo». In un bianco semplice che in qualche modo rimanda alla lontana a vesti antiche e rinascimentali Costa dopo un piccolo preambolo sulla contemporaneità, con tanto di frecciatina al ministro della cultura comincia il suo attraversamento dell’Otello di Shakespeare; del bardo ci lascia un’immagine suggestiva: i suoi personaggi ci volano attorno, ci somigliano e dopo rimangono un po’ con noi. Non c’è spazio per attualizzazioni forzate o battute che servono solo per acchiappare la risata, la maestria di Lella Costa in questo spettacolo di 24 anni fa, con la regia di Gabriele Vacis, sta nel riportare sempre tutto al testo, alla parola che, come affermava Agostino Lombardo, diventa destino. «Jago oggi lo si definirebbe un underdog», anche quando Costa lancia un’immagine dei nostri tempi l’obiettivo è sempre quello di entrare nella comprensione dei meccanismi testuali, per rendere vividi e tridimensionali i personaggi ai quali dà di volta in volta parola. In fin dei conti è uno spettacolo di narrazione che prende in prestito un testo classico trasformando la performance in una lezione leggera, avvincente e appassionata. Il celebre ammonimento di Jago - definito da Costa un «pirata della parola» a Roderigo, «metti il denaro nella borsa», diventa un rap (per enfatizzare la musicalità della ripetizione shakespeariana della battuta) sulla musica di Soldi di Mahmood. Oggi chi rimarrebbe accanto a un uomo che come Otello impiega cinque minuti per trasformare il proprio amore in gelosia? La domanda retorica di Lella Costa trova risposta purtroppo nei fatti, ma oggi il mostro dagli occhi verdi non è e non può essere più una scusa.  (Andrea Pocosgnich)

Visto al Teatro Vittoria. Con Lella Costa drammaturgia di Lella Costa e Gabriele Vacis regia di Gabriele Vacis scenofonia Roberto Tarasco scene Lucio Diana produzione Teatro Carcano distribuzione Mismaonda

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