Cordelia - le Recensioni

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RECTUM CROCODILE (di Martin M’tuomo)

Marvin M’tuomo, cresciuto a Guadalupa e poi trapiantato nell’Europa francofona delle grandi opportunità produttive, firma un’opera seconda tesa al raduno di coscienze occidentali e bianche attorno a una sorta di crudele circo, dove ogni bieco peccato coloniale viene chiamato in causa, per liberare un urlo nemmeno più disperato, piuttosto sardonico e beffardo. Disposti sui quattro lati, guardiamo un tappeto verde, da cui spuntano sparuti ciuffi di verzura; sarà l’arena per una sfilata di personaggi, evocata da una voce infantile al suono del proverbiale “c’era una volta”. Piante, alberi, animali di ogni genere prendono vita dal corpo dei performer, che si riversano in scena avvolti in una sorprendente collezione di costumi, esplosiva per varietà di forme, tessuti, colori, sotto un piazzato volutamente kitsch, se non quando il testo si apre a feroci tirate di monologo – la recitazione è tesa e solida, composta in una trama di tensioni muscolari ferme in pose rigorose – che ci ricordano ogni sopruso da “noi” inflitto alle popolazioni native. Le protesi su fianchi e seni, i tacchi smisurati, il trucco pesante, le soluzioni di vestiario che citano i dettagli di altre specie animali o vegetali confermano un indubbio ingegno nel traslare in accessori e outfit il maquillage occidentale imposto all’anima primigenia dell’umano. In questa lunga e insistita fiaba horror, il progetto di j’accuse è però fin troppo chiaro dall’inizio: nonostante alcuni quadri incisivi e una certa accuratezza nella gestione del ritmo, il programma politico ha di fatto il sopravvento sul gesto artistico e – complice una temperatura insostenibile – una corretta gestione di tempi e durate soccombe al gusto autoritario di chi desidera rendere esplicito ogni passaggio di senso. Nell’atto di liberarci da certi stereotipi, il discorso finisce per innescare una macchina di consenso che, diventata rassicurante, paradossalmente penalizza la possibilità di relazione critica con la materia e lascia da solo l’apprezzamento di fattura e d’esecuzione tecnica. (Sergio Lo Gatto

Visto a ITSE Molari, Santarcangelo Festival 2024. Regia, scrittura, scenografia, costumi Marvin M’toumo, scrittura scenica e performance Davide-Christelle Sanvee, Élie Autin, Grace Seri, Amy Mbengue, Djamila Imani Mavuela, Marvin M’toumo, musica Vica Pacheco, Baptiste Le Chapelain, luci Alessandra Domingues, make up art Chaïm Vischel, junior costume designer Marie Schaller, scenografia Angelo Bergomi, consulente e mediatrice in materia di diversità, equità e inclusione Prisca Ratovonasy, traduzione testo in inglese Sarah Jane Moloney, amministrazione e produzione Anna Ladeira, Mirta Ursula Gariboldi - Le Voisin, coproduzione Emergentia - temps fort pour la création chorégraphique émergente réalisé par L’Abri, le TU et le Pavillon ADC Genève, Arsenic - Centre d’art scénique contemporain Lausanne, PREMIO - Prix d’encouragement pour les arts de la scène, residenza Pavillon ADC Genève, Tanzhaus Zürich, Gessnerallee Zürich

NULL & VOID (di e con Agata Siniarska)

In un Lavatoio affollato – e finalmente al riparo dall’afa – va in scena un solo della performer polacca, con base a Berlino,  Agata Siniarska. La sua si presenta come «una pratica tra il modo in cui pensiamo al mondo e il modo in cui ci viviamo al suo interno», che forse potrebbe essere una buona localizzazione per la maggior parte della ricerca artistica. In questo caso l’indagine esplora un tema già a lungo frequentato dalle arti e ispirato dalla recente corrente filosofico-informatica del post-umanesimo. Nel suggestivo quadro di apertura, il corpo avvolto in una sorta di gigantesco mantello frastagliato investito da luci stroboscopiche, un frastornante paesaggio sonoro riproduce gli orrori acustici della guerra: il movimento è coordinato con sapienza, mentre la performer guadagna il fondo del palco. L’esito di questa apocalisse sarà la nascita di un nuovo essere, con schiena e arti dotati di protesi che ricordano il body horror di David Cronenberg: nella desolazione muove passi incerti, attraversando un mondo e una specie che non esistono più; la coreografia non riesce però ad andare oltre l’imitazione di movenze e atteggiamenti animali e si compie in una catarsi eccessiva, mentre il corpo è scosso da un’insistita vibrazione e le labbra rigurgitano un liquido nero. Fatta salva l’importanza di figurare col mezzo artistico questo tipo di deriva, la performance risente di un minimalismo che finisce per lasciare spazio a vera e propria afasia di idee. La feroce critica al capitalismo e al sessismo, la resilienza dell’ecosistema che tentiamo di rovinare, una nuova possibile relazione con il regno animale e vegetale, fino alle ipotesi di fusione cibernetica, tra manifesti e programmi di biopolitica, affollano le dense pagine di autrici e autori come Rosi Braidotti, Donna Haraway, Robert Pepperell, Judith Butler, ma anche, in nuce, Michel Foucault le quali, se convocate, dovrebbero portare a più incisive modalità con cui discutere in forma performativa le sorti della nostra specie. (Sergio Lo Gatto

Visto al Teatro Il Lavatoio, Santarcangelo festival 2024. Concept e coreografia Agata Siniarska, collaborazione artistica Julia Plawgo, Julia Rodriguez, Lubomir Grzelak, Partners in Craft, rat milk, Zuzanna Berendt, body sculpture e make-up Una Ryu, costumi Maldoror, luci Annegret Schalke, training vocale Ignacio Jarquin, musica e suono Lubomir Grzelak, composizione da “Uncle Boonmee who can recall his past events” di Silver Screen Sound Machine, produzione Agata Siniarska, coproduzione Tanz Im August / HAU Hebbel am Ufer, Cross Attic Prague, Partners in Craft

Giovanna D’Arco (Silvia Ajelli)

L’attrice e regista Silvia Ajelli si cimenta nella messa in scena del romanzo popolare in versi Giovanna D’Arco di Maria Luisa Spaziani, un testo poetico che riscrive la storia della pulzella d’Orleans affiancandole un doppio - o una strega come nell’interpretazione contemporanea della regia - la sorella Caterina la cui vicenda si mescola a quella di Giovanna tanto che le due vite paiono coincidere in un una. Il pretesto dell’autrice è la scomparsa della sua protagonista, l’ipotesi ovvero che Giovanna D’Arco non si mai morta sul rogo e che al posto suo, in uno scambio plautino, sia stata sacrificata proprio la sorella. Portare in scena questo scritto tenendo conto del momento storico in cui è stato concepito, gli anni ’90 del Novecento, è impresa ardua. Quello che ci si potrebbe aspettare è una lettura in chiave contemporanea della storia di Giovanna, un’eroina intrisa di misticismo che comunica con l’angelo, che convive con le sue visioni e che incarna una profezia: lei salverà il suo paese liberandolo dall’oppressione dello straniero. La poesia di Maria Luisa Spaziani racconta una dicotomia tra follia e speranza, rievoca la gloria e il dolore di Giovanna se la si ascolta a occhi chiusi per le voci della stessa Ajelli e di Gaia Insenga. Riesce a suscitare ancora compassione in un momento in cui la guerra tra Stati e la guerra personale di una donna possono assumere molteplici sfumature e, soprattutto, lasciare traccia del loro passaggio sui nostri corpi, spettatori seduti in tacito ascolto. Eppure la regia resta molto fedele al genere cavalleresco: la scena, un enorme carrubo e un cavallo di Mimmo Palladino - patrimonio della Fondazione Orestiadi - è arricchita da pochi altri elementi con cui le attrici per lo più non interagiscono. Un’importante presenza della musica dal vivo di Ermanno Dodaro e Raffaele Pullara rende concreta l’atmosfera della ballata popolare. Anche i costumi, seppur minimali, non superano quest’impressione, con una stilizzazione non troppo sottile: sono abiti d’epoca semplificati con la chiusura lampo sul davanti. Distrae il gusto quasi didascalico fatto di ceppi e candele, luci calde e un gesto forse troppo affettato che racconta poco l’autodeterminazione di questi due personaggi poetici.

Visto a Orestiadi Festival. Di Maria Luisa Spaziani con SILVIA AJELLI e GAIA Insegna musiche composte ed eseguite dal vivo da Ermanno Dodaro e Raffaele Pullara regia di Silvia Ajelli PRIMA NAZIONALE in collaborazione con Parco Archeologico di Siracusa

IL VELO DELLA SPOSA (Autodramma del Teatro Povero di Monticchiello)

Dopo cicli di sincero ascolto delle storie comunitarie degli attori-abitanti del Teatro Povero di Monticchiello, quest’anno al posto di drammatiche parabole economiche e sociali della campagna toscana mi sono (anche) trovato a tu per tu con la materia intima e conflittuale di un rapporto divaricato, dagli anni ‘40 a oggi, tra un fratello e una sorella. Come se la coscienza neorealistica dei Fratelli Taviani o di Ermanno Olmi avesse contagiato l’officina di scrittura della gente del posto, per il 58° autodramma Il velo della sposa, frutto di assemblee coi registi Giampiero Giglioni e Manfredi Rutelli, da cui è nato uno spettacolo d’una quarantina di interpreti dell’area di Monticchiello, in replica fino al 14 agosto. Il lavoro ha la portata d’una trilogia che parte dai tempi della guerra (1938-1943), s’evolve con uno scenario più a distanza (1960), e culmina in un fanta-futuro dei nostri giorni (2024). Dopo un avvio da morantiano mondo salvato dai ragazzini, il fronte bellico lascia orfani e separa i due figli Tonio, adottato dallo zio, e Palmira, a servizio da una signora di Colle Val d’Elsa. Un quindicennio più tardi ritroviamo Palmira in paese, interpretata da Giulia Casiroli, giunta lì a dare frugali e preziose ripetizioni ai suoi rozzi concittadini davanti a una lavagna, e nell’aula rimediata ecco irrompere il fratello solo ansioso di risolvere con la sorella una pendenza ereditaria e garantirsi un matrimonio d’interesse. Lei ha un ragionare delicato, e quindi cede subito, ma lo scollamento è irrimediabile: tornerà a rifugiarsi da chi l’ha accolta e educata. La più pragmatica delle conclusioni attuali ci conduce a un Tonio maturo, reso da Arturo Vignai, il decano del cast, che ormai governa una squallida azienda di cerimonie de luxe, finché riceve un messaggio da remoto della sorella che gli svela come tutta la vita di lui sia solo un brand sostenuto da lei. Una altruista e un verme allo specchio. Io direi che ha fatto bei passi in avanti, il Teatro Povero. (Rodolfo di Giammarco)

Visto in piazza della Commenda di Monticchiello, Repliche fino al fino al 14 agosto 2024. Foto Emiliano Migliorucci

MONUMENTUM THE SECOND SLEEP / SECONDA PARTE, IL QUARTETTO (di Cristina Kristal Rizzo)

Da qualche tempo, Cristina Kristal Rizzo riflette sul dispositivo per eccellenza della affermazione di ogni potere: il monumento. Ne ha già fatti 3, e rispettivamente prendono di mira, e buttano giù dal piedistallo: 1° (con Megumi Eda) l’individualismo iperproduttivo neoliberale, cui contrappone un corpo ipnotico e alterato; 2° (con un quartetto) la storia come linearità temporale di discorsi escludenti, cui contrappone lo spettacolo che resta in ombra; 3° (con Diana Anselmo) la logica della sintassi fonocentrica e il predominio dell’ascolto, cui contrappone nuove modalità di comprensione. A Operaestate ho (ri)visto il secondo episodio, che ha in scena, Marta Bellu, Jari Boldrini, Sara Sguotti e Violetta Cottini. Il tempo ha dimensione immateriale e per molti versi soggettiva, ed è difficile da concettualizzare, ma ancora più difficile da visualizzare: ma Rizzo ci riesce. E non è un caso che, il tema del tempo, del suo scorrere ineluttabile, della sua memoria, sono oggi temi strategici nella performance contemporanea. Quella di cui si parla qui è la prospettiva invisibile della temporalità: come il danzare fuori luce; una gestualità in perdita di significato, come nello spalmare d’olio i corpi puramente esibiti; oppure nell’eseguire le routine più iconiche su brani pop ed electropop, e poi ritrovare infine, nella seconda parte, una coralità più quotidiana e distesa non priva di difficili contrasti. In sintesi, Rizzo propone una nuova concezione di storicità. Qui contano le ombre che esitano alla luce come anacronismi in cerca di memoria, i ritorni musicali come retrotopie che progettano il futuro, eccedendo il «mondo della vita» dal quale sono stati generati. Qui anche molto conta l’elaborazione sonora live ricca di rumori e scoppi (spari? bombe?) disposta in diretta da Rizzo stessa (che comunque riserva per sé un ingresso solistico su palco, danzato a cerniera fra le due parti della performance, pieno di glamour nel costume e di linee ben distese nei movimenti). E il disegno luci, ma vorrei scrivere, senza sarcasmo, disegno del buio di Gianni Staropoli. Dopo il finale, un omaggio, inatteso, a Steve Paxton, al suo Bach di Glenn Gould, e al suo sapere improvvisativo: il tempo di due variazioni Goldberg, prima dell’improvviso black out. (Stefano Tomassini)

Teatro Remondini Bassano, Operaestate Festival. Concept, coreografia, costumi Cristina Kristal Rizzo, Danza Marta Bellu, Jari Boldrini, Sara Sguotti e Violetta Cottini, Elaborazione sonora live Cristina Kristal Rizzo, Disegno luci Gianni Staropoli, Collaborazione teorica Lucia Amara e Laura Pante, Creative Producer Silvia Albanese, Produzione Tir Danza

UN AMICO – OMAGGIO AL MONDO DELLA MUSICA DI EZIO BOSSO (di Mario Brunello e Virgilio Sieni)

Appena entrato, non ci pensa nemmeno un attimo, come Mario Brunello attacca col suo archetto così fa Virgilio Sieni, discosto al pianoforte (sul quale vigila solerte Maria Semeraro), e sembra voler stare in ombra, dimesso, invece è già in ascolto: prima le mani poi braccia spalle gambe piedi e poi busto in torsione a prendere per spirali lo spazio tutto, e subito a mille, senza esitazione preparazione progressione, no. C’è qualcosa che non può attendere. L’avvio di questo concerto di danze letteralmente scoppia. Due anzianotte alle mie spalle saltano sulla sedia, sorprese e travolte: «Non sapevamo che c’era anche la danza!, siamo qui per Brunello [che è di Castelfranco Veneto...], ma che magnifica sorpresa...» (e infatti, al termine, già con il primo buio, via con applausi infiniti e sentiti e mille sgolati bravo bravo). Questa serata, Un amico - Omaggio al mondo della musica di Ezio Bosso, vista a Operaestate (programma che sta registrando un vero successo di pubblico), è nata come un omaggio all’amicizia tra i tre, anche raccontata al microfono (con sobrietà e distacco) in avvio di performance da Brunello, e comprende gli ascolti comuni, non negoziabili, sempre discussi perché sempre troppo amati. Arvo Pärt, Messiaen e Bach, soprattutto, ma anche Cage. Per chiudere con il brano in due parti di Bosso, The Roots, sonata n° 1 per violoncello e pianoforte. Lunga e faticosa: una scrittura musicale iperespressiva, già intensamente determinata nella scrittura per i due strumenti. Qui Sieni tiene opportunamente il gruppo a contrasto. Sono Jari Boldrini, Maurizio Giunti, Andrea Palumbo, Valentina Squarzoni, e Linda Vinattieri, impeccabili, fin dall’inizio della serata, con entrate alterne sempre in forte consonanza con le partiture. Ora invece i gesti non seguono mai la musica, ma sono guidati da una loro ricezione “molecolare” (come piace ripetere spesso al coreografo). Ossia il gesto non segue la struttura e la partizione della partitura ma la sua più immediata possibilità di rendere materiali i suoni. L’ultima figura è toccante: due amici di spalle se ne escono in una stretta piena di leggerezza, con loro le utopie di un’intera epoca. (Stefano Tomassini)

Teatro al Castello “Tito Gobbi”, Operaestate Festival, Coreografia e spazio Virgilio Sieni, Violoncello Mario Brunello, Pianoforte Maria Semeraro, Compagnia Virgilio Sieni Jari Boldrini, Maurizio Giunti, Andrea Palumbo, Valentina Squarzoni, Linda Vinattieri, Musiche Pärt, Cage, Bach, Messiaen, Bosso, Luci Andrea Narese, Costumi Marysol Maria Gabriel, Produzione: Centro Nazionale di produzione della danza Virgilio Sieni, Ravenna Festival, Opera Estate Festival Veneto, Settimane musicali di Stresa, Festival Internazionale. Con la collaborazione di Antiruggine srl

JUST WALKING (di Michele Losi)

Oriente. Tra i cardinali è il punto dell’equilibrio, la direzione da osservare per comprendere l’origine e il futuro. Provenire da e andare verso. E dunque camminare non può non essere una continua ricerca dell’oriente, sia come appunto direzione sia come raccolta del pensiero che nasce attraverso il movimento. Just walking, creazione di Michele Losi di Campsirago Residenza, che percorre le strade e i giardini nel centro di Sansepolcro (con Sebastiano Sicurezza e Marialice Tagliavini), è una performance urbana itinerante, ma si potrebbe precisare: è un cammino ma non un tracciato, perché l’intenzione proposta dall’ideazione, una possibile mappa, non sarà mai il tratto che ognuno sceglie di occupare con il proprio corpo nello spazio. Ogni tracciato è, dunque, un atto politico preciso, la scelta di esserci, di abitare con il proprio passaggio un certo luogo, ma soprattutto così riconoscere e accettare lo spazio, la scelta, dell’altro. Cosa c’è di più politico che essere insieme formulando le regole, le misure, della coabitazione? Ognuno indossa una cuffia auricolare, ognuno dunque è con sé stesso e in mezzo agli altri, vive nel silenzio il suono d’intorno, incontra lo sguardo di passanti ignari dei racconti, delle parole, del respiro che attraversa i pensieri che tracciano prati, strade e tratti di ferrovia. Ma è soprattutto la percezione di tempo e spazio che cambia del tutto tra il dentro e il fuori: le geometrie del sole e dell’ombra sembrano giocare con i passi dei camminatori, di chi espone il proprio ritmo condiviso allo sguardo e al paesaggio, si tiene per le braccia e marcia in mezzo ai tavoli dei bar, gira in cerchio sventolando volti di grandi pensatori del cammino, urla in silenzio i nomi dei desaparecidos argentini, si china dentro un giardino come fa una ragazza poco lontano, coglie un fiore di lavanda, lo porta alle narici e ne raccoglie il profumo. Ecco, se camminare, come scrive Losi, è una pratica di comunità, chi scrive qui è convinto di aver sentito quel profumo in punta al proprio naso. (Simone Nebbia)

Visto a Kilowatt Festival 2024. Crediti: drammaturgia, regia, interpretazione Michele Losi; e con Sebastiano Sicurezza e Marialice Tagliavini; elementi di scena e costumi Stefania Coretti; musiche Luca Maria Baldini e Nori Tanaka

LA CANTAUTRICE FANTASMA (di Ivan Talarico)

Può capitare che una notizia rilevante sia tenuta nascosta all’opinione pubblica, ma può capitare in contrario che una rivelazione sconvolga ciò che ormai storicizzato esiste nel nostro comune immaginario. Eppure, tra la news segreta e la news rivelatrice, si annida il pericolo della notizia falsa che confonde, nello stesso tempo, da un lato i dubbi e dall’altro le certezze. È in questa prospettiva che si muove La cantautrice fantasma di Ivan Talarico, un teatro-canzone in apparenza situato nella tradizione gaberiana, per citare uno tra i maggiori esponenti, ma che rivela una profondità peculiare proprio nella direzione su indicata, una sorta di processo di antiarcheologia per riflettere sul tema dell’autorialità nell’arte. Cosa c’è di più popolare, in Italia, che non le canzonette? Conosciamo a memoria parole e motivi di canzoni storiche, da Modugno a De André, da Paoli a Battisti o Conte, ma se le cose non fossero come le conosciamo? Saremmo pronti ad accettarlo? Nessuno sapeva che molti di questi brani sono stati scritti dalla sconosciuta cantautrice Agata Facci! La narrazione di Talarico compone un viaggio musicale tra aneddoti più o meno noti della canzone popolare d’arte, in cui la donna appare come una sorta di ritornello nelle storie altrui; la scoperta che ne deriva passa così agli spettatori con crescente e suadente fastidio, perché via via raccogliendo i dubbi non si può non provare fastidio, dapprima per la propria incredibile ignoranza, poi perché ci si sente privati di un tratto di memoria che ormai abbiamo fatto nostro. Ecco il tema: gli autori delle canzoni, ne hanno davvero la proprietà intellettuale? E quella emotiva? Sul palco una chitarra – che diventa una piccola orchestra di corde grazie all’uso sapiente della loop station – e un pianoforte che permettono di rivivere le canzoni della sfortunata Agata Facci, amica di grandi artisti che hanno plagiato la sua arte, come se fossero riscritture al contrario, arrangiate in sottrazione, frammenti di uno stadio precedente al capolavoro originale. Ma poi, appunto, cos’è davvero originale? Forse, soltanto, questo spettacolo. (Simone Nebbia)

Visto a Kilowatt Festival 2024. Crediti: di e con Ivan Talarico; grazie a Roberto Castello, Aldes, Giulia Zeetti

MISERELLA (Teatro dell’Argine)

Nel teatro italiano c’è chi continua a lavorare sullo stesso territorio da anni, creando spettatori e, come in questo caso, spettacoli di valore. Si distingue in questa breve genealogia il Teatro dell’Argine, dal 1994 alla guida dell’ITC di San Lazzaro di Savena, nella prima provincia bolognese, dove ha preso vita il nuovo Miserella, al debutto nazionale a Sansepolcro. Un salotto minimale arredato con un gusto di raffinato design, con tre lampadari disposti geometricamente e tre schermi verticali in fondo, apre la scena; pur naturalistico lo spazio nelle intenzioni, l’uniformità lanosa del bianco moquette vi accoglie elementi pastello di vari colori, così da arricchire l’immagine con elementi semplici ma significanti. La regia di Micaela Casalboni coordina sapientemente quattro attrici – lei stessa, con Caterina Bartoletti, Giulia Franzaresi, Ida Strizzi – cui si devono anche le parole del testo, composto assieme a Nicola Bonazzi, tratto dalle interviste fatte ad altre donne, che si ascoltano in voce off, in merito all’invecchiamento, alla trasformazione del proprio corpo e al modo migliore per accogliere il tempo che compie il suo corso. Quando inizia la famosa “mezza età”? Questa domanda sibila tra le storie di ogni donna che si racconta, sotterranea emerge dalla crescente necessità di continuo allenamento o di una nuova alimentazione contro l’aumento di peso, dalla scelta di abiti adeguati alla diversa età, dai nodi alle mani o quella ruga o quel capello grigio, da tutto ciò che si trasforma senza dare il tempo di abituarsi. Casalboni dispone le attrici in una frontalità attraverso cui cercare fin da subito contatto con il pubblico, lasciando all’ironia e alla leggerezza di veicolare la sofferenza e lo smarrimento per ciò che fa diventare diversi da una mutazione ideale. Miserella è il nome di una pianta – molte ce ne sono in scena a veicolare queste parole in un divenire naturale – il “fiore di stecco” che porta in cima al gambo secco molti sorprendenti fiori. E le piante non sanno se non vita o morte, non hanno mezze età. (Simone Nebbia)

Visto a Kilowatt Festival 2024. Crediti: parole di Caterina Bartoletti, Nicola Bonazzi, Micaela Casalboni, Giulia Franzaresi, Ida Strizzi; con Caterina Bartoletti, Micaela Casalboni, Giulia Franzaresi, Ida Strizzi; regia Micaela Casalboni; collaborazione alla regia Andrea Paolucci; scenografia Nicola Bruschi; costumi Sabrina Beretta; musiche originali Davide Sebartoli; luci William Sheldon; cura del gesto coreografico Daniele Ninarello

SLEEP INTHE CAR (di Virgilio Sieni)

Sul selciato del piazzale della Fondazione Sant’Anna, la Citroën Dyane 6 color amaranto fa il suo ingresso con lentezza, aprendosi un lieve varco sonoro nel frinire ininterrotto delle cicale. Sediamo a terra, sorridenti, nel caldo immobile del tardo pomeriggio, mentre si sollevano – quasi con casualità, con una sorta di benevola autonomia rispetto all’evento scenico – le note di Domenico Scarlatti. La coppia di danzatori abita lo spazio – quello intimo e angusto dell’abitacolo prima, l’orbita attorno all’auto poi – ponendo ogni accento sulla vicendevolezza, sulla relazione mutua e naturale alla quale i loro corpi sono devoti. I movimenti si dispiegano, soppesando la carnalità fino alla leggerezza, a comporre una ricognizione sentimentale delle possibilità del corpo, il proprio e quello dell’altro: luogo e strumento del più improbabile gioco, del dolore, della perdita di controllo, così come dell’impaccio e dell’evento ordinario. Vi è un sentore profondo di materialità, il presentimento perenne di una sorta di “effettività” che connota il pensiero coreografico, che offre all’astrazione della ricerca sul movimento (alle sue sublimazioni) il tracciato semplice delle consistenze terresti. Come scrive Deleuze desiderare significa «costruire un concatenamento, costruire una regione» ed è, infine, a una grazia analogica e, si direbbe, che l’immaginazione rinviene. La geografia è allusa nell’oggetto scenico (una vecchia cartina che viene dispiegata e consultata) e nella varietà di suoni che l’azione nello spazio aperto genera. È contenuta nelle premesse della performance (che vuole esplorare l’idea del sonno in auto, a varie latitudini e longitudini), ma anche nella nozione stessa di viaggio: un viaggio lento e lungo, che richiederà di dormire accampati, arrangiati, di fare della macchina una piccola casa provvisoria, di inscrivere se stessi in vari luoghi e paesaggi, lasciando che agiscano sulla propria percezione individuale, ma anche sulla propria intesa. Come a dire che non esiste un sentire che non sia situato, e non esiste un movimento che non pretenda la disponibilità all’immanenza. (Ilaria Rossini)

Visto a Fondazione Sant’Anna, Perugia – Umbria Dance Festival 2024. Crediti: coreografia di Virgilio Sieni/Compagnia Virgilio Sieni; performance site specific; in collaborarazione con Franco La Cecla; con Jari Boldrini, Sara Sguotti, Maurizio Giunti.

LA MORTE A VENEZIA (di Liv Ferracchiati)

«L’occhio è la forza. Fare dell’inconscio un discorso è come omettere l’energetica» scrive Jean François Lyotard in Discours, figure (1971). È in una prospettiva simile – una resa al cospetto dei limiti della parola – che Liv Ferracchiati, in scena nei panni di Gustav von Aschenbach, filtra il racconto di Thomas Mann, impiegando un elemento nuovo nel suo teatro, la videocamera manovrata a mano, per duplicare e sovraesporre il movimento e l’incanto di Alice Raffaelli, Tadzio contemporaneo. Il tema viene dall’antichità classica: la psicologia omerica è fondata sull’idea che la possessione – intesa come esperienza di trasformazione erotica e misterica («plenus deo») – si realizzi in una dimensione contemplativa della grazia plastica dei corpi, trascendendo, almeno nel momento estatico, la dualità che contrappone apollineo e dionisiaco. Ferracchiati si muove su questo confine, in uno studio attorno alla possibilità di esondazione di una forza entro l’altra: il parlato registrato della prima parte, la sua grazia quasi di maniera, sconfina nella voce viva e trafitta della seconda. Il momento di passaggio è affidato a Mi sei scoppiato dentro il cuore di Mina, sintetizzata però sulle frequenze dello spavento, un po’ à la Cronenberg. Se dell’inconscio non si può fare – vedi sopra – un discorso, il potere della parola sembra permanere (oltre che come tentativo) soprattutto nella sua purezza di fatto fonico e ritmico, dotato dunque di un’espressività più “spaziale” che logica. Eppure i limiti del linguaggio, come Wittgenstein vuole, sono i limiti del mondo e, in questa logica, la deposizione, da parte di Ferracchiati, dell’ironia – da sempre impiegata, nella sua ricerca, come strumento di controllo e di sollievo, e come “appiglio esistenziale” – appare anche una rinuncia ai propri domìni. Simile all’atto di coraggio che serve per spingersi oltre i confini del noto, e al disarmo con il quale ci si predispone alla contemplazione di un vuoto, all’ascolto di un silenzio, alla morte. (Ilaria Rossini)

Visto a Chiesa di San SimoneSpoleto Festival dei Due Mondi, prima assoluta. Crediti: ispirato a  La morte a Venezia di Thomas Mann; drammaturgia e regia Liv Ferracchiati; con Liv Ferracchiati e Alice Raffaelli; movimento Alice Raffaelli; dramaturg Michele De Vita Conti; aiuto regia Anna Zanetti e Piera Mungiguerra; assistente alla drammaturgia Eliana Rotella; scene Giuseppe Stellato; costumi Lucia Menegazzo; luci Emiliano Austeri; suono  spallarossa; voce di Tadzio Weronika Młódzik

SMARRITA E SOAVE – ADRIANO POETA TRA I POETI (di Roberto Latini)

Per conquistare il cortile Alessandro VI, incastonato nella pietra stratificata di Castel Sant’Angelo, occorre percorrere una traiettoria circolare, una spirale che ripetutamente nasconde e rivela. Labirinto di storia, il percorso attraversa i secoli, tra lo sfarzo delle sale papali e l’asperità dei torrioni, fino al cuore di uno dei monumenti simbolo di Roma; qui va in scena la quarta edizione di Sotto L’Angelo di Castello, rassegna pensata per far dialogare le arti teatrali, coreutiche e musicali con l’arte museale. Un luogo di apparizioni, come quella dell’arcangelo che, salvando la città dalla peste, si impose sulla nomenclatura originaria del mausoleo, la dedica all’imperatore Adriano che lo volle e qui riposa. Roberto Latini guadagna il palcoscenico senza sforzo, anima rediviva, apparizione insieme terrena ed eterea. È Adriano, parla in prima persona, saluta il pubblico da padrone di casa e si racconta, con fare quotidiano, tra biografia e letteratura. Poi, un passo di lato, lo sguardo spinto più dentro e più in là, la poesia prende la scena, in un altro lungo labirinto di versi incuranti di ogni coerenza temporale, tessuti insieme dalla voce di Latini, quell’impasto misterioso e mutevole, aspro e dolce insieme, assecondato o incalzato dalle corde di violino e violoncello. Fuori dalla storia, la parola è mantra di un sentire senza cronologia, scava e solleva, dona e chiede, puro esercizio di umanità, di umano sentire, e di bellezza carpita, trattenuta nei secoli e infine liberata. L’artificio fonico, firma distintiva di Latini e Misiti, asseconda un percorso libero da vincoli e riferimenti, fluttuante, disturbante e lenitivo insieme. Un momento sospeso, effimero, in un contesto che si vorrebbe meno esclusivo, ristretto, eccezionale. (Sabrina Fasanella)

Visto a Castel Sant’Angelo - Sotto L’Angelo di Castello. Di e con Roberto Latini. Musiche di Gianluca Misiti eseguite dal vivo da Luisiana Lorusso (violino) e Claudia Della Gatta (violoncello). Luci e direzione tecnica Max Mugnai. Produzione Compagnia Lombardi-Tiezzi

U. (di Alessandro Sciarroni)

Sconcertante. Infatti è un concerto di voci. Tutto è fermo. Eppure tutto si muove. Tutto è sospeso, ma tutto scorre. Tutto canta, tutto suona. Senza variazioni, fino alla fine, ininterrotto: 11 brani (canti corali tratti dal repertorio contemporaneo), 7 cantanti, disposti frontali, come un coro, e sono bravissimi: Raissa Avilés, Alessandro Bandini, Margherita D’Adamo, Nicola Fadda, Diego Finazzi, Lucia Limonta, Annapaola Trevenzuoli. Un repertorio attualissimo e senza virtuosismi. Le parole qui contano moltissimo. Sulla parte alta del fondo si proiettano i titoli dei brani, gli autori, l’anno di edizione, preceduti da qualche riga poetica introduttiva (tutto mai disutile). E con anche la numerazione parziale dei brani (forse un po’ burocratica, certo per controllare l’ansia di ognuno). Il nuovo lavoro di Alessandro Sciarroni, U. (è forse la prima lettera di Un canto: massimo della sobrietà e ostentata umiltà che coincide, come per i santi, col massimo della superbia) è un ennesimo riuscito tentativo di tenere a bada il nero, l’abisso, la notte, di uscire dal peso della vita, forse personalissimo (Sciarroni non è proprio la persona più solare del mondo), eppure peso di tutti. In questa esibizione non c’è spazio (quasi non si muovono); tutto avviene nel tempo: del canto, delle voci, queste sì, spazializzate, ed è una continua disseminazione di idee, e di immagini, e di pensieri pensosi ed esigenti. La forma (corale) è lieve ma il contenuto ha invece il suo peso. A partire dalla difficile aurora d’avvio (cantata in penombra con un faro di controluce): «La notte più nera, il cuore non batte». All’ingiuntivo (e bellissimo): Ma dove andate?, per me vera pointe della serata («cosa cercate | se non avete mani per sognare?»). Quando già solo gli occhi aprono mondi: «Guarda lo sguardo | con quello | come so, | io ti parlo» (Guarda gli occhi che ho). Alla fine, resta il sottile sottilissimo (ai molti anche insopportabile) confine tra la quiete riacquistata, la luce ritrovata (Resterà la luce), e il precipizio che incombe nascosto, sempre di lì a un passo dal niente. Imperdibile. (Stefano Tomassini)

Centro storico Bassano, Operaestate Festival. di Alessandro Sciarroni con Raissa Avilés, Alessandro Bandini, Margherita D’Adamo, Nicola Fadda, Diego Finazzi, Lucia Limonta, Annapaola Trevenzuoli casting, direzione musicale, training vocale Aurora Bauzà & Pere Jou casting, consulenza drammaturgica, training fisico Elena Giannotti styling Ettore Lombardi disegno luci e cura tecnica Valeria Foti cura, consiglio e sviluppo Lisa Gilardino

IN CIMA ALLE FAVOLE (Teatro dei Venti)

Il teatro e le arti performative da anni ormai fanno un importante uso dello strumento dell’ascolto in cuffia e i festival che propongono esperienze di racconto delle città, di ascolti collettivi resi singolari dai dispositivi, di narrazioni sulla memoria delle comunità, si sono moltiplicati. Di certo le opere di drammaturgia sonora permettono di mettere in comunicazione, con immediatezza, chi racconta con l’ascoltatore o l'ascoltatrice e lo spazio circostante.  In questo senso il lavoro del Teatro dei Venti - gruppo modenese creatore di grandiosi e suggestivi spettacoli di piazza e di un festival sull'appennino che è un piccolo gioiello di relazioni -  è un tentativo interessante di mettere in relazione una precisa comunità con un territorio, un luogo deputato all’arte contemporanea e un festival (quello di Pergine). Siamo ad Arte Sella, nella sede di Villa Strobele con il piccolo parco attorno e le sculture e installazioni; ci vengono consegnate le cuffie, possiamo muoverci nello spazio, tra un’opera e l’altra mentre ascoltiamo le voci di un gruppo di anziani e anziane delle Case di Riposo di Pergine Valsugana, Trento e Borgo Valsugana. Le voci, piene e fragili, antiche e sorridenti, raccontano favole e leggende di montagna, piccoli racconti che danno anche una spiegazione fantasiosa ad eventi e conformazioni paesaggistiche. Nell’opera ideata da Oxana Casolari e Cesare Trebeschi (tramite un laboratorio sul campo), con la collaborazione di Azzurra D’Agostino le favole si alternano a ricordi e riflessioni sulla montagna, “sono andata a piedi fino alla Cima 12, dalla quale si vedeva tutta la vallata” afferma una delle donne. Muoversi nello spazio di Arte Sella con la montagna nelle orecchie, tra memoria (di com'era la montagna decenni fa) e fantasia, è un cortocircuito non solo intellettuale, è la scoperta infatti a guidare i nostri passi sull’erba che ospita opere piccole o mastodontiche ma sempre in comunicazione (almeno questo è il tentativo) con la natura. (Andrea Pocosgnich)

Visto ad Arte Sella, Villa Strobele.   Ideazione e laboratorio creativo Oxana Casolari e Cesare Trebeschi Con la collaborazione di Azzurra D’Agostino Con Casa di riposo di Pergine, Trento e Borgo Montaggio audio Francesco Cervellino Supervisione artistica Stefano Tè Una produzione Teatro dei Venti in coproduzione con Pergine Spettacolo Aperto, Centro Servizi Culturali S. Chiara, Arte Sella Con il sostegno del Ministero della Cultura e della Regione Emilia-Romagna Foto Giulia Lenzi

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