Questa recensione fa parte di Cordelia di luglio-agosto 25

C’è una residenza al centro, su una piccola piana in mezzo ai monti, attorno c’è la natura diffusa e generosa della Brianza che diventa, per due settimane ormai da ventuno estati, luogo dell’arte. È qui a Campsirago che si svolge Il Giardino delle Esperidi Festival, azione permeabile tra umano e montano, discesa dell’uno tra le pieghe, le cavità dell’altro. Michele Losi, direttore artistico, gira con un bastone, simbolo del passaggio di tempo e spazio tra i sentieri di montagna. E l’arte si muove allo stesso modo, attraversa luoghi e così scandisce momenti, affronta l’alba e il tramonto, il giorno e la notte, scendendo ogni volta a patti con la condizione che la natura offre e ci si innerva dentro, nel silenzio magniloquente dell’ampiezza. Spettacoli di teatro o danza, performance site specific, attendono che lo spazio e il tempo permettano l’unione, perché sia assoluta la compenetrazione tra due opposti intendimenti della vita, tra ciò che resta – la natura – e ciò che non resta mai – l’arte. In questa edizione, scrive Losi, il nucleo di indagine principale è la transizione, dunque quello scambio tra un tempo e l’altro che conduce l’alba nel meriggio e poi nel tramonto, finché la notte non produca una nuova alba. Sono questi i momenti – dunque scansioni di tempo – che suggeriscono l’orientamento, ossia il cambiamento nello spazio. È proprio qui che la connessione tra umano e naturale si compie nella sua totalità, quando l’attraversamento del luogo è definito da apparizioni performative che delimitano una durata; poche parole pronuncia il monaco Zen, il giapponese Seigaku, che ha guidato il cammino rituale dall’alba al tramonto nel paesaggio, alla ricerca dei sette Chakra della montagna, ma in quelle frasi è raccolta l’energia di tempo e spazio: “Ogni passo è un dojo”, ogni passo è una dimora, potremmo tradurre, un luogo raggiunto e fatto proprio, un luogo che condensa in sé tutti i luoghi del mondo, il punto più avanti di tutti nel proprio cammino, che prende il nome di vita. (Simone Nebbia)