Lo scorso sei aprile moriva a Napoli Roberto De Simone. Ricercatore e musicologo, musicista e regista teatrale, animatore culturale e molto altro ancora. A distanza di un mese, dopo telefonate lunghe e brevi, scambi di pagine e di pensieri, di analisi e considerazioni, di immaginazioni e constatazioni, di nessi trovati e persi, dopo aver elencato tutti quelli con cui avremmo voluto parlarne e aver capito che non avremmo mai potuto esaurire l’argomento così facilmente …
La Madonna, sei sorelle, il presepe, un flauto magico

«E queste parole erano quelle imparate dalla gente che ancora sa parlare perché chiama festa un giorno in cui si dice la verità e tutti la capiscono e chiama gioco la fatica di avere paura per non avere paura. E queste parole dai cento occhi affollavano i dialoghi di questa favola con una storia scritta perfettamente senza essere scritta. E queste parole erano sempre le stesse ed erano una grotta, dove una vergine perde una scarpa ed erano la cenere del focolare e una pianta fatata come il dattero e il basilico ed erano sei sorelle come sei Madonne ed erano una gatta come una donna o una donna come una gatta ed erano ancora un giorno di festa nel palazzo del re o in una chiesa dorata e una carrozza con dodici paggi quanti sono i mesi di un anno oppure quante sono le ore di un giorno o di una notte».
Il tempo è clemente con certi morti, come se finendo diventasse infinito, lascia scivolare alcuni placidi e dimenticati, di altri fa dei santi e di altri ancora invece dei santini, sembra quasi che la sparizione del trapasso sia indispensabile per farli riapparire all’improvviso, per tornare a vederli. Ci pensiamo tentando di ricostruire e mettere a fuoco il profilo di Roberto De Simone e tutto quanto al suo riguardo è stato detto e scritto nelle ultime settimane. Profilo complesso, impossibile da redimere in un’unica dimensione o da schiudere alla restituzione con una sola chiave di lettura. Musicologo, musicista, compositore e maestro, esperto della tradizione popolare e della sfera cultologica (sacra e profana) della Campania e del Meridione, regista d’opera e non solo, studioso di fonti scritte e orali, antiche e contemporanee, artista, animatore culturale e direttore istituzionale, accademico e polemico, figlio d’arte e figlio del popolo, per sua stessa ammissione maternamente legato a Napoli eppure abitato da una tensione nazionale, europea, avanguardista, profondo conoscitore di quello che viene comunemente definito “teatro napoletano” qualunque cosa voglia dire e possessore, pure fosse suo malgrado, dei sistemi di codifica delle tensioni di quello che altrettanto frequentemente cifrano come lo spirito drammatico della città, stigmatizzatore del canone come gabbia di concrezione dell’immobilismo espressivo. E non basta ancora.

Ricomponendo il suo volto, andando a cercare nella memoria ci sembra che, scendendo le scale della casa di Via Foria, la sua voce si impasti ai suoni che intermittenti arrivano dai balconi del conservatorio San Pietro a Majella per creare un varco di luce tra i palazzi della piccola via che lo collega a Piazza Bellini e che poi ci lasci a procedere scalzi come fujenti fino al Santuario della Madonna dell’Arco. Indimenticata e indimenticabile, certo, La gatta Cenerentola la cui introduzione all’edizione Einaudi citavamo in principio per metterci comodi. Tratta da Lo cunto de li cunti di Basile, l’opera debutta nel 1976, quando l’esperienza da animatore della Nuova Compagnia di Canto Popolare è in procinto di esaurirsi. È d’altronde in procinto di esaurirsi anche quell’ondata della “controcultura” di cui il fenomeno del folk revival ha rappresentato una delle declinazioni, dei baluardi in una riconsiderazione socio-politica che ha portato i lemmi della coscienza di classe a rifrangersi sulle superfici porose dell’estetica e delle estetiche artistiche tra la fine degli anni Sessanta e Settanta. Riannodando i fili delle sue ricerche troviamo i riferimenti al mondo magico e al tarantismo di Ernesto De Martino, non senza passare per i viaggi di Alan Lomax e gli studi di Diego Carpitella. Il lavoro desimoniano in tale direzione si acclara tuttavia quasi come un unicum che nel prendere le distanze dal concetto di “ricalco” (ovvero la riproduzione fedele di canoni e stilemi di brani del patrimonio per come ricostruiti, fissati o riprodotti dalle fonti) trova il proprio approdo di congiunzione maggiore con il lavoro di ricerca sulle fonti della tradizione popolare di Pier Paolo Pasolini. Fedeltà e traslitterazione diventano così i due poli di fusione di un nucleo solo ove è il meccanismo e quindi il processo a diventare il principale elemento di veicolazione del messaggio e non il prodotto così da evitare, data la continua mutazione delle condizioni e degli assiomi socio-culturali, che la riproposizione diventi più che altro il reperto di un’archeologia deteriorabile e deteriorata da una concezione antistorica.
Dentro e fuori da tutte le cose, il processo di esplorazione delle dimensioni espressive in De Simone si configura continuo, plurimo e profondo come un’apnea. La sua dinamica ampia, tuttavia, non è mai quella di un vortice tale da sospenderne l’inclinazione critica, qui intesa nel senso etimologico di capacità di discernimento, di scelta. Così si compie il più compiuto incontro con Basile e la sua produzione, nella delineazione di un profilo intellettuale e creativo simile a uno proprio dell’epoca barocca.

Non volendo operare una compartimentazione impossibile, ma tentando di focalizzare l’attenzione sull’applicazione alla scena, si capisce come La gatta Cenerentola o La cantata dei pastori si offrano più che altro quali capitoli, uno apicale e l’altro apoteosico volendo, ma pur sempre capitoli di un percorso più ampio che vede l’interesse e gli studi demologici germinare dalla congiunzione alchemica con la formazione ricevuta in conservatorio (dove si iscrive nel 1943), partendo dalla musica popolare di Béla Bartòk per arrivare alla canzone napoletana tra-scritta da Russo e Di Giacomo passando per i teatrini di guarattelle, i banchi dei presepi di San Gregorio Armeno, Il flauto magico di Mozart e le stanze in cui ha composto Cimarosa, l’incontro di interpreti come Peppe Barra al Teatro Esse, le ricerche compiute con Annibale Ruccello, un passaggio al Trianon, i tributi a Viviani. È lo stesso autore, d’altronde, a sottolineare come ne La gatta Cenerentola di fatto non accada nulla se non la narrazione. Il percorso si compie allora pure in sincronia con la tendenza che vede la crisi del testo drammaturgico inteso come sistema monolitico e immutabile di parole quali principali veicolatori semantici e con l’avvento di quello che è storicamente definito teatro di scrittura scenica, in cui al lemma “testo” si accosta l’accezione più ampia di “drammatico”. Quello che lo stesso De Simone definisce teatralizzazione diviene allora il principale polo di conversione e riconversione del processo di elaborazione e rielaborazione espressiva sul piano teatrale e si congiunge al concetto di narrazione di cui sopra acquisendo una centralità che rimarrà immutata per quanto attiene alle fonti, siano esse letterarie o orali, di musica popolare o accademica, di derivazione classica o contemporanea. Per questa via si acclara forse molto netta l’incisione della vocazione di un’intera esistenza di studi e pratica teatrale e non, la messa a fuoco dell’immaginario, insieme orizzonte di riferimento ultimo dello sguardo e centro di propulsione di una dinamica che conserva una connotazione diacronica funzionale al disvelamento, alla discesa in un abisso, anzi a un ritorno, la risalita fino all’archetipo.

Questioni basilari, complesse nella plasmazione marmorea del lessico che tenta di distillarle più di quanto non lo siano state per la fisiologia della pratica della scena, sia essa intesa come piazza o scatola ottica del palcoscenico poco importa. E questioni che pure ci permettono di valutarne la gittata in un’ottica che prende in considerazione l’idea di evoluzione come imprescindibilmente legata a quelle di derivazione e continuazione, non solo per quanto riguarda la parabola individuale dell’opera desimoniana, ma per quanto concerne il suo inserimento all’interno dell’universo teatrale, sul piano tanto della cronaca quanto della storia. Potremmo tornare allora sul “battesimo” e la collaborazione con Annibale Ruccello prima che decidesse di dedicarsi integralmente all’ attività di autore, andare a ricercare un elemento qui e uno là tra il corpus di testi che si è voluto ascrivere alla dicitura di Nuova Drammaturgia Napoletana, potremmo elencare la miriade di affermazioni polemiche su Eduardo, che pure era l’unico attore di cui avesse una foto in casa, citare quella Novena ed Egloga per Eduardo che accompagna l’introduzione di un’edizione Einaudi Natale in Casa Cupiello di anni fa per sconfessare e ribadire tutto, potremmo dire che pure ci sembra che certi barlumi di fondo, certe ombre, certi bofonchi di morti vivi, certi echi ritmici che salgono dagli antri oscuri dell’epica primigenia e viscerale dei personaggi di Mimmo Borrelli non ci sembrano così distanti da quanto abbiamo detto, o da quanto abbiamo provato a dire sapendo di non poterci riuscire perché altrimenti non avremmo capito davvero. E allora ci faremo indicare la strada ancora una volta e con le “istruzioni utili per leggere correttamente questo libro” ci troveremo a guardare Il presepe popolare napoletano (Einaudi, 1998) : «La ninna nanna va letta a letto nel gioco del Lotto di ossa e brandelli di zampognari defunti. Percorrendo attentamente questo cimitero, scorgerete tre dita del piede di Salvatore Di Giacomo, un’unghia di Ferdinando Russo, un occhio di Raffaele Viviani, la tibia di Armando Gill, la mandibola di Totò, lo sterno di Libero Bovio con una costola del Nicolardi, un orecchio di Eduardo De Filippo, il tutto condito con le verdure tradizionali della gran minestra maritata del Natale in casa Cupiello».
Addormentatevi guardando il volto di una madonna, l’incarnato diafano, la rotondità degli occhi, un cielo stellato a fare da cornice, lo sfregio sulla guancia sinistra che il culto vuole segno di un sanguinamento miracoloso dopo il colpo fortuito di una palla lanciata da un ragazzino. Riaprite gli occhi l’indomani, guardatela al riflesso del primo sole sulla parete di broccato antico della carta da parati, tra il silenzio e i rumori soffocati dalla lontananza delle strade che si svegliano, prima sommesse poi più rumorose, a covare progressivamente i tumulti di gioie cosmogoniche e tragedie ordinarie, di storie, leggende, afflizioni e glorie nate, serbate, dimenticate e risalite dai ventri, nelle pance e nei volti della moltitudine di passanti che le attraverseranno di lì a poco. Vi chiederete se quanto avete sognato è vero o se sognate adesso, se è possibile, se è accaduto, se il mondo, il vostro, quello più profondo, indicibile e poetico, incarcerato e libero può disintegrarsi in un attimo per tornare a ricostruirsi, sempre uguale a quello di tutti, se basta travalicare di un passo il limite del passato, sospendere ebro quello del futuro, per tentare di fuggire la coscienza del presente, solo per conquistarla, nell’eterno ritorno dell’uguale.
Marianna Masselli
Una lettera due insegnamenti

2 febbraio 2009. Una nota del Ministero dei Beni Culturali racconta il progetto di restauro del Teatro di San Carlo: Struttura di missione, accelerazione dei lavori con il loro inserimento tra le opere per i 150 anni dell’Unità d’Italia, 54.750.249 euro di partenza come budget. S’avranno, in «tempi record», sale prova per i professori d’orchestra e per coro, ballo e regia, foyer climatizzato, l’accessibilità ai disabili motori da piazza Trieste e Trento, gli ottocento rolli di carta vellutata sostituiti da tessuto sintetico, aria condizionata (utile «a garantire una stagione produttiva ininterrotta e quindi potenziale volano di un nuovo turismo estivo») e il Ridotto, un nuovo atrio sotto la platea in cui fare incontri e conferenze, che avrà bar, bookshop e sarà aperto non solo nelle serate di spettacolo. Sia chiaro, dice il Ministero: il San Carlo (impegnato anche nell’altro grande riordino: la parità di bilancio, la salvezza economica) non diventa «diverso da quello che la memoria della città ricorda»: avrà il rosso e le dorature mentre, rispetto all’acustica, «quando la musica tornerà ad appropriarsi della sala allora sarà evidente che della precedente sonorità nulla è andato perduto».

Detto, fatto. Il 30 aprile 2010 Nastasi termina il triennio da Commissario Straordinario, nel 2011 torna nel Cda – «sono commosso per la scelta di Caldoro» (la Repubblica, 13 dicembre 2011) – e il 17 a Il Sole 24 Ore spiega che la ristrutturazione «è stata un passaggio fondamentale», possibile perché «la Regione Campania ha creduto al nostro progetto di rilancio e messo a disposizione sessantacinque milioni di euro di fondi europei», e che i lavori («curati dalla Presidenza del Consiglio», «vigilati e approvati dalle strutture tecniche del Ministero») sono durati 18 mesi, in cui «non abbiamo mai chiuso». Tant’è, il 2 febbraio 2010 c’è La clemenza di Tito, maestro direttore e concertatore Jeffrey Tate, regia di Luca Ronconi: «spettacolo non di grandi apparati spettacolari» si legge in brochure, «scenografia, costumi e condotta registica tendono a privilegiare i rapporti intersoggettivi». In platea c’è Roberto De Simone che assiste, ascolta, poi raggiunge Rosanna Purchia, Sovrintendente, per dirle che è stato colpito in negativo dalle sonorità. A conferma, il 16 giugno 2011, da la Repubblica: «Il maestro mi aveva parlato delle sue perplessità oltre un anno fa, la sera dell’inaugurazione de La clemenza di Tito. Gli specialisti mi spiegarono che l’impianto scenografico, con inserimenti di gomma e tessuti particolarmente pesanti, poteva aver prodotto la sensazione di un eccessivo assorbimento del suono». Cosa avviene intanto? El Diego. Concerto n.10, in cui le immagini di Maradona a schermo sono accompagnate dal Concerto n.1 in re maggiore per violino e orchestra di Paganini e da Litanie per la scandalosa e la magnifica – Inno a Iside di De Simone (giugno 2010) e due sue regie: Pergolesi all’Olimpiade per la stagione 2011; L’osteria di Marechiaro di Paisiello in estiva. Tre occasioni in cui il maestro «aguzza l’attenzione». Risultato? Il 16 giugno 2011 invia una lettera a Purchia e al sindaco Luigi de Magistris, pubblicata dai giornali: «Sono in grado di comunicare tutte le mie conclusioni in merito all’acustica, che è palesemente mutata».

De Simone durante i tre allestimenti si muove dal retro al sottopalco e analizza trasmissione sonora, posizione d’orchestra e cantanti, microfoni e casse, i materiali impiegati, poi chiama a confronto Giuseppe Principe e Giacinto Caramia, «che a lungo hanno frequentato la buca d’orchestra come primi strumenti» e «che hanno assistito alle recenti rappresentazioni», quindi scrive. «I suoni non girano in palcoscenico e in sala come una volta», «nei brani d’assieme si percepisce una fusione che non consente di distinguere il timbro dei singoli esecutori» e «l’emissione vocale non giunge più all’ascoltatore indipendentemente dalla distanza che separa lo spettatore dal cantante, ma è l’ascoltatore a dover aguzzare l’udito per raggiungere la bocca del cantante». Il suono «si percepisce inasprito», la «musica interna dalle quinte» costringe all’uso di «amplificazioni microfoniche» che «snaturano la timbrica e penalizzano il senso spaziale della fonte», «i violini risultano opacizzati» mentre l’orchestra «assume un suono d’insieme di tono grigiastro» se gli archi s’aggiungono agli strumentini a fiato. Insomma, «quella che era da trecento anni la migliore acustica teatrale è un malinconico ricordo di chi, come me, ha frequentato per più di sessantacinque anni quel teatro come esecutore d’orchestra, come spettatore, compositore e allestitore di melodrammi».
Lo scritto spacca l’opinione pubblica e produce risposte immediate. Riccardo Muti invita a «stringersi a corte» perché «Napoli ha bisogno di costruire e mai più di demolire» e d’altronde assicura: «Sono tornato al San Carlo tre volte, dopo il restauro, una con i Berliner Philharmoniker» e «sono rimasto molto soddisfatto dal suono, che è addirittura più nitido e certamente migliore rispetto alle mie precedenti esperienze» (la Repubblica, 16 giungo 2011). Jürgen Reinhold, di cui il San Carlo pubblica la perizia, dice che «è stata posta una grandissima attenzione alla conservazione delle ottime proprietà acustiche del teatro», del quale sono state «interamente conservate» geometrie e proprietà al punto che le sonorità sono «in parte persino migliorate» mentre Rosanna Purchia (la Repubblica, 16 giugno 2011) prima ricorda che «dei tanti artisti che si sono alternati sul nostro palcoscenico nessuno si è mai lamentato», poi (Corriere del Mezzogiorno, 5 novembre 2012) ribadisce che «il restauro è stato eseguito ai massimi livelli». Insomma: «Mi dispiace per Roberto De Simone, a cui sono legata, di cui stimo l’enorme cultura, di cui forse ho tradito le aspettative. Gli direi però di essere più generoso, si è incattivito, ce l’ha con il mondo». E inoltre capisca il maestro che la situazione è cambiata: «Noi avevamo l’imbarazzo della scelta, potevamo» cioè «scegliere il lavoro che volevamo. Ora non è così. Lo stesso maestro De Simone non ha più sul piatto offerte e compensi di una volta, ma non perché valga meno, non ci sono soldi. Questa è l’unica verità».

Roberto De Simone è morto il 6 aprile. Non è più importante stabilire chi avesse ragione. Ma nel lutto che rende soffusi i toni di chi resta quella lettera merita forse d’essere ricordata per due motivi almeno. Primo. De Simone scrive di spessore e colore delle voci, che risultano «alonate». Esamina «la pasta qualitativa del suono», si sofferma sulla sua «riverberazione», analizza «la morbidezza e la spazialità degli armonici», approfondisce «plasticità» e «rotondità» degli effetti. Denuncia il rapporto, invertito per intensità e direzione, tra palco e platea (musica e canto non arrivano, sono io che dalla poltrona devo come allungarmi verso di loro), lo slabbramento della diffusione, la falsificazione che produce il mal uso dei microfoni e lo fa tecnicamente: la prevalenza dei bassi sui violini, la scrittura contrappuntistica che s’appiattisce e uniforma, l’assenza degli «sforzati», le alternanze «tra piano e forte» che non risultano più come dovrebbero. All’oggettività evocata da chi gli si contrappone – «l’acustica è una scienza» gl’imputano, come non lo sapesse – aggiunge la sensibilità di colui il quale con tutto ciò non lavora ma coincide. De Simone melodia e musica (di cui amava lo sconosciuto: «È come Dio. Dobbiamo scoprire ciò che non sappiamo di lui») le aveva nella carne quanto le schegge sottopelle del falegname che da una vita ha a che fare col legno, di cui riconosce età e nodi già solo col tocco. Quest’aderenza artigiana della vera maestria, che non può esprimersi se non nel modo in cui si esprime, è una lezione perché De Simone non rinunciò mai all’impiego delle parole esatte dell’arte dinnanzi al lessico da terziario che ha preso possesso delle discussioni produttivo-culturali. Insomma, rispetto alla rinominazione capitalista di teatro, musica, letteratura, danza o poesia ha impiegato il proprio sapere senza vergognarsene mai, opponendo sapienza al neo-gergo del mercato perché questa stessa sapienza avesse peso, spessore e dignità nel confronto.

Secondo. La valutazione negativa «non la negherei neanche sotto tortura», «doveva essere conosciuta da tutti i napoletani e dal pubblico, al quale il teatro appartiene» (Corriere del Mezzogiorno, 15 luglio 2011). De Simone polemizza a voce alta: dal riconoscimento dello Stabile come Nazionale, utile se non si limita a un accumulo di denaro e di cariche ma genera invece «un progetto culturale», alla direzione di Luca De Fusco («Non nominiamolo, che facciamo più bella figura»; la Repubblica, 25 febbraio 2015); dalle mediocrità di destra e sinistra (le promesse di de Magistris; Stefano Caldoro e «gli assessori De Mita e Miraglia» che agiscono «con fare da viceré»; la Repubblica, 17 settembre 2013) alle paghe degli artisti: «Vede, questi nostri attori bravissimi prendono ottanta euro lorde a serata. E di serate ne faranno un paio a settimana. Un Comune giorni fa ne ha spesi settantamila per l’esibizione di un noto cantante. Le pare ci sia proporzione?» (la Repubblica, 29 dicembre 2013). Il Forum delle Culture finito nel nulla, la gestione del San Carlo, la ricerca di consenso che muove scelte e denaro della Regione. «I nostri teatri sono in mano a degli incompetenti» ma «si tace. Perché?». Artigliato ai fatti, dicendo i cognomi. Nell’assuefazione amorale quest’uomo, che non ha mai smesso di chiedersi «a che serve oggi essere un musicista?» e «per chi svolgo la mia attività?», ha detto di chi gestiva soldi e potere subendone conseguenze (tournée annullate, debutti rimandati, una crescente sporadicità di presenza in stagione e l’archivio in parte negli scatoloni). Venerato da morto, fu offeso da vivo – quasi quanto Eduardo, più di quanto accadde a Luigi Compagnone o Anna Maria Ortese. Definito ora «un gigante» (Roberto Andò), capace di inventare «mondi culturali» prima di lui inesistenti (Ruggero Cappuccio), De Simone in realtà è morto in una Napoli che «non ha ricambiato» (Riccardo Muti, Il Mattino, 8 aprile 2025) e che ha un punto lo ha considerato un fastidio, pur senza riuscire a farlo tacere: neanche quando è rimasto in poltrona, pochi denti in bocca e addosso il pigiama. D’altronde «era una forza del passato» scrive Marco Ciriello su Il Mattino il 9 aprile annodandolo a Pasolini. Forse perché entrambi venivano dalle pale d’altare, sapevano cos’è il fango o un crepuscolo e hanno vissuto nella carne il dissidio tra popolo e borghesia, cristianità e paganesimo, sdegno e poesia incidendo il presente dall’orlo estremo «di qualche civiltà sepolta» e indomabile. Di certo perché a suo modo anche De Simone ha provato a compiere fino in fondo il dovere di un intellettuale che, per dirla proprio con Pasolini, è «quello di esercitare prima di tutto e senza cedimenti di nessun genere un esame critico dei fatti», «la possibilità di una protesta». Ebbene, da domani chi alzerà pubblicamente la voce di fronte agli scandali con cui avremo a che fare?
Alessandro Toppi