Dal 31 luglio al 3 agosto si è svolta Profana, la “Festa d’arte, Spiritualità, Pensiero” organizzata da Dynamis In collaborazione con Teatro Vascello e Amat. Luca Lòtano ha partecipato alle giornate e ha scritto un racconto dall’interno.

Lasciando gli spazi secolari del Monastero di Fonte Avellana, circondati dai boschi e dai 1700 metri del monte Catria, resta aperta una domanda. Cos’è, e cosa sarà ancora Profana?
Residenza artistica e pratica filosofica, festival e esperienza laboratoriale, vita monastica contemplativa e creazione di una comunità temporanea e laica. Concepita da Dynamis (Andrea De Magistris, Marta Vitalini e Donato Loforese) e Gianni Giacomelli, monaco camaldolese, con il sostegno di Teatro Vascello e AMAT, Profana appare tra le proposte teatrali estive una soglia inedita. Profana, pro “avanti” e fanum “tempio”, “quod pro fano est” cioè ciò che è innanzi al tempio, fuori, in balìa del pubblico. Profana è quattro giorni e quattro notti in cui la ricerca filosofica del performativo è per il pubblico, per una comunità temporanea e transgenerazionale composta da un’ottantina di persone che vivono insieme: artiste, pensatrici, giovani in formazione, interessate, curiose, pensionati, frequentatrici di Fonte Avellana, filosofe, monaci, giornaliste… Nei luoghi del monastero il pensiero, il cibo, le pratiche, il riposo, la parole e i corpi, tutto è intimo e al tempo stesso tutto sembra far parte dell’esperienza pubblica, tanto che è difficile capire cosa poter e non poter raccontare in questo articolo. Che ruolo può avere la narrazione di quanto accaduto? Le persone che vivono i giorni di Profana sperimentano frammenti di ricerca prima di assistere alle visioni, diventano a tratti un corpo unico accordando voci e movimenti,i ruoli di conduzione si alternano, le pratiche laboratoriali si contaminano e si richiamano tra loro espressamente. Nella direzione artistica di Dynamis della soglia tra sacro e profano se ne indaga la porosità, riportando al centro un’idea antica, eppure dimenticata: che pro-fanum, ciò che è fuori dal tempio (del teatro? dello spirituale? dell’intellettuale?) non è semplicemente “non sacro”, ma può esserne un’estensione: uno spazio dove ciò che facciamo – che viviamo – non è dogma ma pratica, esperienza, vibrazione condivisa. Il concetto di profanazione si rivela allora come riapertura generativa: profanare è restituire il sacro a se stesso, togliendolo dall’alone esclusivo e restituendolo al mondo come atto accessibile, per tutte e tutti.

Ogni giornata di Profana si è articolata in una trama ritmica che ha seguito i tempi del monastero — lodi, vespri, silenzio, lentezza. Nell’architettura del luogo, spazio scenico e paesaggio spirituale, ogni stanza, pietra, vetrata, eco campanaria abita la drammaturgia delle quattro giornate, assumendo la forma di un paesaggio interiore da contemplare, ascoltare e attraversare, così come proviamo a fare con l’architettura di questo racconto.
Lo Scriptorium di San Pier Damiani
Gianni Giacomelli: “Gli spazi che abbiamo occupato sono spazi che abbiamo abitato per stare insieme. Sono accomunati dal fatto che hanno un senso se ci si vive dentro insieme. Oggi cosa si agisce in questi luoghi?”
Entrando nello Scriptorium si rimane impressionati dalla sua luminosità, dalle pietre bianche, dalle file di monofore che si aprono alla luce. Luogo di scrittura e di parola costruito secondo le regole della misura aurea, lo Scriptorium è fin dall’XI secolo il cuore speculativo del monastero, e se si resta in silenzio si riescono ancora a immaginare i monaci amanuensi che obbedendo alle disposizioni della Regola di San Benedetto realizzavano preziosi codici miniati. È in questa luminosità che si apre e si chiude Profana. Avviene qui il dialogo tra Maria Bianco, Alessandra Pigliaru e Gianni Giacomelli. A partire dalla poesia e dal pensiero femminista, emerge l’idea che il sapere autentico sia situato, cioè radicato in corpi e storie che fanno palpitare il cuore, come quelle di Audre Lorde, Clarice Lispector e Antonia Pozzi, e in questo pensare con la carne abitare la marginalità come postura epistemica. In un tempo in cui il linguaggio tende a dominare, qui ci si riferisce a un’altra forma di logos: sensibile, vulnerabile, situato. È nel refettorio poi che l’ultimo giorno si consuma l’ultimo atto di Profana, il dialogo partecipato di chiusura: quaranta minuti aperti a tutte e tutti, una restituzione “che sia utile al lavoro, alla comunità, alla persona”. Il dialogo va avanti fitto, e dobbiamo interromperci passati i quaranta minuti perché gli interventi da parte di tutte le persone presenti sarebbero proseguiti a lungo. Non è un incontro post spettacolo nel quale interviene chi riesce a formulare una domanda acuta, o un pensiero emozionato. Qui, stiamo parlando di qualcosa di nostro, di pratiche performative e filosofiche che abbiamo vissuto insieme. Riporto l’applauso con il quale si chiude Profana, un applauso circolare, un gesto collettivo di riconoscenza reciproca.

Il Refettorio Antico
Antonio d’Egitto: “ ‘Avete qualcosa da mangiare? Un fantasma non mangia e non beve’
Così ha detto. La fame è la prova della resurrezione, non il parlare”
(da L’infinito carnale, di Claudia Castellucci)
Nel luogo del nutrimento ci si siede tra lo scricchiolare del legno delle sedute e il monumentale affresco del sacrificio di Sant’Andrea firmato dalla scuola di Guido Reni. Il Refettorio diventa così spazio del dialogo prima e della visione poi. Nel dialogo iniziale che introduce Profrana, tra Andrea De Magistris e Gianni Giacomelli, si fa spazio l’immagine di un percorso linfatico: non lineare, ma organico, capace di attraversare i corpi e il paesaggio con la stessa ebbrezza incerta di un neonato che articola il suo primo gesto. L’invito non è a capire, ma a contemplare: le pietre, gli alberi, gli interstizi del pensiero. È qui nel refettorio che si susseguono poi le pratiche filosofiche, le performance e i pensieri notturni condivisi.

La compagnia Mòra, diretta da Claudia Castellucci, porta in scena il rigore poetico de L’infinito carnale; i corpi del pubblico e dei due performer (abbacinanti Sissj Bassani e Pier Paolo Zimmermann) agiscono immersi tra noi e l’architettura stessa del refettorio, in un dialogo tra due eremiti cristiani Antonio d’Egitto e Ilarione di Gaza tessuto insieme al dialogo silenzioso dei corpi con le loro geometrie secolari. Entriamo tutte, artiste e pubblico, dall’unica porta del refettorio: un varco che è anche soglia tra l’estetico e il rituale, ritrovandoci così davvero non a capire ma a contemplare un lavoro prezioso che si muove criptico e fulminante come una visione in un deserto. Qui si svolge anche il denso confronto tra il filosofo Emanuele Dattilo e Gianni Giacomelli: la possibilità di un pensiero pre-linguistico, che si esprima per immagini e sensazioni. Si rilegge Jung, si attraversa l’antropologia e la filosofia della mente per affermare che possono esistere forme di conoscenza non catturabili dal linguaggio. Il logos non è solo parola: è corpo, è immagine, è organismo vivo. Un pensiero “arcaico”, nel senso che precede la dicotomia tra razionale e irrazionale, tra corpo e mente. Un pensiero che si attua nella contemplazione, non come ritiro ma come apertura radicale all’altro e al mondo.

La Sala Belenghi
Agnese Banti: «È come se il suono muovesse lo scheletro che accompagna questo movimento».
Un tempo stalla, oggi rifugio di pratiche somatiche e vocali, nella Sala Belenghi si entra scendendo da una scala come in un ventre ovale, materico, aperto al suono che a tratti rimbomba tra le pietre della volta.
Francesca Siracusa ci guida qui in una pratica di movimento che scardina l’idea classica di “esercizio” e accoglie il corpo nella sua interezza. Si inizia sdraiati, si attraversano gesti minimi, movimenti invisibili della colonna, respiri sonori. Si passa da un ascolto profondo del corpo fino ad arrivare a camminate condivise, distanza e prossimità, danza cieca e contatto. Un gesto diventa pensiero, un tocco diventa linguaggio.

Nei giorni successivi, la Sala ospita l’Immersione nel suono di Agnese Banti e Andrea Trona e le pratiche di teatro e vocalità della stessa Banti insieme a Marta Vitalini. La voce è esplorata come estensione del corpo: la M vibra sulle labbra, la U nella colonna vertebrale, la A nei polmoni. Una vera e propria cartografia vocale si disegna, risalendo dal ventre fino al volto. A occhi chiusi, in cerchio, si percepisce il canto non come esecuzione, ma come ascolto attivo. Il suono non è prodotto: è accolto, attraversato.

Il Coro della Basilica Minore
Ludovica Manzo: “Avere questa percezione di collegamento elastico con il nostro corpo inteso come un bacino, un lago, uno specchio che prende una forma che vi si deposita attraverso il suono”.
Qui, prima della colazione, si aprono le giornate di Profana con le lodi cantate insieme ai monaci; e qui si apre il festival con Microscopia Impromptu, di Daniele Roccato e Ludovica Manzo, performance per contrabbasso e voce e con il laboratorio della stessa Manzo. Luogo sacro per eccellenza, il Coro è la cassa armonica della spiritualità camaldolese e con Manzo e Roccato accoglie suoni che sembrano provenire da una liturgia altra, le vibrazioni si aggrappano alle pietre, le campane rispondono al corpo. La pratica canora che Ludovica Manzo condivide con noi, alle spalle dell’altare, mira alla ricerca di una corrispondenza tra una visione del suono e come questa si deposita in noi; dopo un riscaldamento guidato e un lavoro di improvvisazione a coppia sul cantare intimo che passa per il sussurro, tutte insieme ci uniamo – sorprendendoci per il risultato – in un canone a quattro voci, una ninna nanna in greco moderno di Giorgios Kouroupos e Andreas Angelakis, nenia che continueremo intimamente a intonare nei giorni successivi, camminando con qualcuno o bevendo un caffè.

La Cripta
Una partecipante: «Il canto non era solo per noi, ma per il luogo, per ciò che ci circondava e ci precedeva».
È il cuore nascosto del monastero, il nucleo originario della chiesa attorno alla quale c’erano nel bosco le casupole degli eremiti. Là dove tutto ebbe inizio, nella pietra più antica, risuona uno degli eventi più attesi della residenza, il canto a cuncordu con il gruppo Sos Zovanos de su Rosariu. Forse perché concentrano in sé la volontà rituale prima ancora che quella artistica, Tonio Cadau (Bassu), Antonio Meloni (Contra), Nicola Migheli (‘Oghe), Roberto Iriu (Cuntraltu) condividono con noi l’abito della confraternita, l’immobilità, l’ascolto reciproco, il canto a quattro voci di tradizione orale sarda. È un’esperienza che rimanda a un tempo in cui rito, pensiero e arte non erano separati e al quale oggi proviamo a tendere di nuovo. Lì, nel buio scavato della cripta, avvertiamo che il sacro non è tanto un’idea, quanto un’azione che tiene insieme. Il canto non è solo estetico, ma cosmico: è un modo di stare al mondo.
Fuori.
Andrea De Magistris: “Quest’ebbrezza è un invito a ognuno per passare un tempo di contemplazione, a vuoto. Contemplazione delle pietre, degli spazi, del bosco. In questo riverbero tra momenti intensivi ed estensivi del tempo”.
I sentieri del bosco, il tasso secolare, il cimitero dei monaci, la grotta di San Pier Damiani sono parte integrante dell’esperienza di Profana. Il giorno prima di partire comincia a piovere, ma con altre tre persone decidiamo di salire comunque sul monte alle spalle dell’eremo dove ho dormito con Filippo Lilli, sound artist che ne curerà una restituzione sonora, e Mario Nardulli (Pigment Workroom) che con lo Studio Co-co ha curato il progetto grafico.

Nella tensione del raggiungere la cima, mentre si diradano gli alberi, tra pareti fatte di cardi, di grilli enormi da passarsi tra le mani, di respiri affannosi, di tuoni, di pietre bagnate e di nuvole attorno alla croce di fronte a noi sul Monte Catria, accade ciò che non è verbalizzabile. La natura non è più sfondo, ma interlocutrice. Nello stesso momento, lo racconterà poi nell’incontro di chiusura, una partecipante è arrivata dall’altra parte della valle da sola nella grotta di San Pier Damiani, sotto il diluvio, e lì in quel buio sente nascere un canto spontaneo, e in quel gesto c’è tutto quello che sto provando anch’io: paura, intuizione, appartenenza. Sono le pratiche di questi giorni, e quel logos che si fa corpo, il linguaggio che smette di nominare. Allora la domanda non è più: “Che cos’è Profana?” ma “Che cosa posso profanare ancora per farlo rinascere nel mondo?”.
PROFANA
direttore generale Andrea De Magistris
ideazione, Organizzazione e Direzione artistica
Dynamis (Andrea de Magistris, Marta Vitalini, Donato Loforese)
in collaborazione con Monastero di Fonte Avellana (Gianni Giacomelli – Monaco Camaldolese)
curatrice artistica Marta Vitalini
progetto grafico e comunicazione Studio Co-Co (Donato Loforese, Roberto Memoli)
partner del progetto Teatro Vascello, AMAT Associazione Marchigiana attività teatrali e Monastero di Fonte Avellana
Microscopia Impromptu
azione sonora per voce, contrabbasso ed elettronica
di Ludovica Manzo: voce, elaborazione del suono
Daniele Roccato: contrabbasso
Pratiche di movimento
con Francesca Siracusa
L’infinito carnale
Di Claudia Castellucci, Compagnia Mòra
Interpreti: Sissj Bassani, Pier Paolo Zimmerman
dialogo, coreografia e scene: Claudia Castellucci
recitazione del dialogo: Adele Masciello, Pier Paolo Zimmerman
Composizione sonora e musicale: Stefano Bartolini
Abiti dell’epilogo: Haimana, Moldova
Immersione nel suono
Di Agnese Banti e Andrea Trona
Pratiche di canto corale
Con Ludovica Manzo
Canto a Cuncordu
Sos Zovanos de Su Rosariu
Tonio Cadau – Bassu
Antonio Meloni – Contra
Nicola Migheli – ‘Oghe
Sergio Scalas – Cuntraltu
Pratiche di teatro
Con Marta Vitalini (Dynamis)
In collaborazione con Agnese Banti
Dialoghi:
Maria Bianco, docente di filosofia politica (corso Ecofemminismo) presso la Pontificia Università Antonianum
Emanuele Dattilo, filosofo
Andrea De Magistris (Dynamis)
Gianni Giacomelli, monaco benedettino camaldolese del monastero di Fonte Avellana
Alessandra Pigliaru, filosofa e femminista, redattrice culturale “il manifesto”













