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LIFE: raccontiamo il festival che guarda alle zone grigie della realtà

A Milano un nuovo festival si inserisce nei palinsesti teatrali conosciuti. Si chiama LIFE ed è curato da Zona K, ma si espande in altre aree urbane della città, in un dialogo che fa del teatro e della sua transdisciplinarietà un terreno vivo in cui produrre riflessioni sul mondo di oggi e su quello di ieri.

Who’s Afraid of Representation? Rabih Mroué e Lina Majdalanie, ph. Luca Del Pia

Quando la stagione estiva incalza e si avvicina, Milano diventa una città più indulgente e permissiva: nei weekend si inaridisce, svuotandosi dell’appariscenza performativa che la contraddistingue, durante la settimana si affatica, costringendo i suoi abitanti a rinchiudersi in uffici climatizzati in attesa della famigerata fuga al bacino d’acqua più vicino. Anche la programmazione teatrale soffre di questa migrazione. Registi e artisti sembrano dissolversi, in quell’aria tanto densa e nociva che rende la metropoli lombarda un’ambizione quanto una condanna, per trasportarsi altrove, seguendo il ritmo discontinuo di residenze e festival disseminati lungo lo stivale. A rimanere, in fondo, sono solo i pazzi o gli affezionati. E chi crede che la città abbia ancora qualcosa da dire.

È in questo paesaggio nomadico che si inserisce LIFE, festival curato da Zona K alla sua prima edizione, che si è sviluppato tra maggio e giugno invadendo gli spazi urbani di Milano, da Fabbrica del Vapore al Teatro Fontana, dal Teatro Out Off alla stessa Zona K: una mappa che disegna i confini di una nuova geografia e che mette in rete i centri teatrali a nord della città, come forse mai fatto prima, per tessere una trama, esplicitamente orientata a decostruire le logiche centripete della cultura urbana – che vanta di noti centri di attrazione gravitazionale – in un percorso abitato da artisti ma anche operatori culturali, associazioni umanitarie, attivisti ed esperti del settore, giornalisti e semplici appassionati.

Cronache di un’apartheid, PROSPEKT

Quello che spinge tutti questi soggetti a ritrovarsi in questi luoghi del teatro nel caldo delle serate milanesi va riscontrato in una cifra ben sviluppata dalle ideatrici del festival, Valentina Kastlunger e Valentina Picariello,  da una sorta di “curvatura transdisciplinare” che è riuscita a lavorare davvero orizzontalmente in modo da avvicinare pubblici diversi, distanti da un certo mondo dello spettacolo, ma che ad esso si sono avvicinati non solo per la porosità dei linguaggi artistici proposti ma anche e soprattutto per la molteplicità dei formati di fruizione: teatro con spettacoli partecipati ed esperienze collettive, installazioni di arti visive, mostre fotografiche e proiezioni di cinema documentario vengono attivati da momenti di dialogo e incontro con professionisti del settore ed operatori umanitari per delle vere e proprie inchieste giornalistiche sullo stato del mondo di oggi.  Sulla densità intrinseca della Storia. Sul groviglio di verità scomposte e contraddittorie. Sul grado di opacità dell’informazione. Inchieste che fanno del teatro non più solo un dispositivo di rappresentazione, ma una lente d’ingrandimento, uno strumento critico di apertura e riflessione su quelle che sono le zone grigie della narrazione.

Sand in the Eyes, Rabih Mroue, ph. Luca Del Pia

Ma cosa sono oggi le zone grigie? Sono spazi di neutralità o resistenza? Aree di conflitto o di tregua? Luoghi di verità o di parzialità? Marina Lalovic (giornalista serba nata a Belgrado nell’ex Jugoslavia) durante un confronto davvero intenso con Gigi Riva (anche lui giornalista di una generazione precedente che ha seguito assiduamente le guerre balcaniche degli anni Novanta) sui Balcani e il loro stato di “esilio” dalla geopolitica mondiale, OUT OF THE MAP come riporta il titolo del talk, ne parla intendendo per esse quei territori difficili da raccontare proprio per la vulnerabilità e parzialità delle informazioni di cui dispongono, sono dunque faglie che si sottraggono alle logiche binarie di incasellamento perché ospitano al loro interno lo statuto della complessità. LIFE abita questi luoghi incerti, li nutre con dei contenuti che coincidono con il metodo stesso, mettendo in relazione discipline e sguardi, forme estetiche, materiali documentari e il modo in cui essi vengono osservati, selezionati, restituiti attraverso il racconto. È in questa direzione che si muove Sand in the Eyes di Rabih Mroué, una conferenza che si interroga proprio sulla natura delle immagini, sulla loro ambiguità e sul ruolo che esse giocano nella costruzione dell’opinione pubblica. Nato da un archivio di fotografie provenienti dal conflitto siriano, in particolare da quelle prodotte dagli stessi miliziani dello Stato Islamico, il lavoro di Mroué ci interroga sullo statuto delle nostre aspettative, sui pregiudizi, sugli automatismi che entrano in gioco nel momento stesso in cui si innesca il nostro atto del guardare, indotto al tempo stesso a digerire e reiterare la violenza attraverso strumenti mediali di consumo.

Un’analoga tensione attraversa anche il lavoro presentato dalla compagnia Kepler-452, La zona blu, che assieme a Odissea Minore si colloca nell’ambito di un teatro documentario che si espone in prima persona, interrogando costantemente il proprio ruolo e posizione rispetto ai materiali che maneggia. La zona blu, in particolare, nasce da un’esperienza di imbarco civile su una nave della ONG Sea-Watch nel bel mezzo del Mediterraneo. Nicola Borghesi ne ripercorre la tratta “dalla posizione in cui non sai niente”, con uno sguardo così lucido da sembrare tagliente, attraverso una lettura che sfugge alla retorica emozionale del salvataggio per riflettere piuttosto le ambiguità della testimonianza, il ruolo dell’osservatore (“Questa cosa di essere abituati non mi piace per niente”), la responsabilità della narrazione. La “zona blu” non è soltanto lo spazio di chi non ce la farà, ma un luogo metaforico dove si ridefiniscono i limiti della convivenza e della rappresentabilità, simbolo dell’opacità con cui scegliamo di guardare — o non guardare — ciò che accade ai margini dell’Europa.

Centroamérica, Lagartijas Tiradas al Sol, ph. Luca Del Pia

Anche Centroamérica della compagnia Lagartijas Tiradas al Sol parte da un’esperienza autobiografica, da un viaggio compiuto da Luisa Pardo e Lázaro Gabino Rodríguez attraverso la regione che si estende oltre il confine meridionale del Messico, e che nel discorso pubblico messicano rimane spesso un vuoto, un’assenza, un altrove stigmatizzato. Tra video documentario e arte performativa, il palcoscenico si trasforma in uno spazio di dubbio e di rischio dopo l’incontro con una rifugiata nicaraguense che chiede loro di diventare parte attiva anche della sua storia, con un gesto tuttavia che richiede il nascondimento, il mascheramento e la finzione.
Questa complessità e ambivalenza del racconto torna anche in The Mountain di Agrupación Señor Serrano, nella ricerca di Arkadi Zaides in The Cloud, e nel lavoro di Jean Peters, attivista e performer tedesco, che costruisce una performance a partire da un’indagine giornalistica sull’estrema destra in Germania. Una tematica ripresa anche da Blickwechsel, di Janina Möbius, un documentario che attraversa la scena artistica tedesca per mostrare come le arti performative resistano all’ascesa dell’estrema destra, diventando spazi attivi di pensiero critico, inclusione e difesa della democrazia. In questo panorama di realtà sovrapposte, Who’s Afraid of Representation di Lina Majdalanie e Rabih Mroué riflette criticamente sui livelli della rappresentazione accostando due materiali apparentemente distanti: le pratiche estreme della Body Art europea degli anni Settanta e la storia reale di una serie di omicidi commessi da un impiegato in un ufficio libanese. La scelta di confrontare questi due piani – artistico e criminale – solleva interrogativi sul rapporto tra immagini e realtà, sull’uso del corpo come strumento politico e sulla possibilità del teatro di restituire la complessità della violenza, attraverso la sua riproduzione.

Lavori che colpiscono perché attestano un cambio di paradigma che attraversa l’intero festival: dal teatro partecipativo, che costituiva il cuore di Zona K, al teatro d’inchiesta e della testimonianza. Un passaggio che non agisce più nello spazio pubblico per trasformarlo, ma che decifra lo spazio informativo per frammentare e questionare il nostro sguardo su di esso. Quello che, dunque, apprezziamo di questo nuovo festival è l’attenzione alla forma del racconto, alla costruzione dell’informazione come processo aperto, mai definitivo. Apprezziamo la capacità di essersi inserito in un palinsesto per nulla semplice, come quello di Milano, riuscendo a rivendicare non solo uno spazio proprio di appartenenza ma anche un’identità forte, chiara, immediata. Apprezziamo lo sforzo di raccogliere spettacoli di compagnie internazionali che stanno ancora costruendo il proprio percorso di ricerca e di riportare invece a sé, con un atto di cura e continuità, compagnie già ospitate e introdotte per primi nella scena teatrale. Apprezziamo la rinuncia a un’idea di oggettività o neutralità, nei temi e nell’approccio, e l’offerta orizzontale che ha permesso di sperimentare in modi diversi le contraddizioni che investono il nostro stesso sguardo sul mondo.

“To see Life; to see the world” era il motto della rivista statunitense di fotogiornalismo da cui il festival ha preso il nome, da cui LIFE festival eredita la tensione condivisa verso la responsabilità del raccontare, verso il coraggio di restituire le ambiguità che la narrazione dominante tende a censurare, per un racconto plurimo delle zone grigie che ci aspettiamo possa ritornare anche il prossimo anno.

Andrea Gardenghi

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Andrea Gardenghi
Andrea Gardenghi
Andrea Gardenghi, nata in Veneto nel 1999, è laureata all’Università Ca’ Foscari di Venezia in Conservazione e Gestione dei Beni e delle Attività Culturali. Prosegue i suoi studi a Milano specializzandosi al biennio di Visual Cultures e Pratiche Curatoriali dell’Accademia di Brera. Dopo aver seguito nel 2020 il corso di giornalismo culturale tenuto dalla Giulio Perrone Editore, inizia il suo percorso nella critica teatrale. Collabora con la rivista online Teatro e Critica da gennaio 2021.

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