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La verità, vi prego, sul presente. Conversazione con Antonio Latella

Al Teatro Astra di Torino, nella stagione “Cecità” del TPE diretto da Andrea De Rosa, arriva in prima nazionale Wonder Woman, diretto da Antonio Latella, che firma il testo con Federico Bellini. Abbiamo incontrato il regista/autore per una conversazione sul terribile fatto di cronaca da cui prende vita lo spettacolo e per una riflessione sul nostro teatro di oggi. 

Le attrici durante le prove. Foto Andrea Macchia

Ha appena debuttato in prima nazionale Wonder Woman, con in scena un quartetto di giovanissime attrici (Maria Chiara Arrighini, Giulia Heathfield Di Renzi, Chiara Ferrara, Beatrice Verzotti) guidate da uno dei registi più rappresentativi del teatro di oggi, Antonio Latella. In attesa di vedere lo spettacolo nei prossimi giorni, raggiungiamo quest’ultimo al telefono per una ampia conversazione che spazia dall’essenza della verità a ciò che di terribile oggi permettiamo che ancora accada. Non è solo un fatto di cronaca localizzato, ma forse un più ampio spirito di accondiscendenza che sta dilaniando le nostre posizioni etiche e la responsabilità condivisa circa gli eventi che si succedono attorno a noi e la maniera in cui li raccontiamo, li riceviamo e, guardandoli, ne modifichiamo la storia e il senso.

Le attrici durante le prove. Foto Andrea Macchia

Questo testo fa parte di una trilogia che ha prodotto altri due spettacoli in Germania e che si concentra sulla figura del “supereroe”, le virgolette mi sembrano d’obbligo: dopo I tre moschettieri e Zorro arrivi ora a Wonder Woman, l’unico personaggio femminile, che è anche l’unico spettacolo della trilogia oggi apparso anche in Italia. Comincerei con il raccontare questo progetto e, più in generale, il tuo lavoro in Germania, il tuo luogo di residenza ormai da molti anni.

A differenza della mia attività in Italia, quando lavoro in Germania spesso io e Federico Bellini siamo chiamati a scrivere, mi chiedono di essere autore e regista. Si tratta di tre lavori che si domandano che cosa sia oggi un supereroe e perché oggi ci sia ancora bisogno di loro. In tutti e tre i passi abbiamo cercato dei fatti concreti o realistici da cui partire, abbiamo individuato alcune ferite del Ventunesimo secolo. La ferita che dà origine a Zorro è quella dei poveri, delle persone senza fissa dimora e che vivono per strada: raccontiamo, in un modo totalmente diverso, la violenza del capitalismo. Zorro (creato nel 1909 dallo scrittore e sceneggiatore statunitense Johnston McCulley, NdR) è il primo supereroe che entra in campo in una grande crisi economica americana per aiutare i poveri.

Le attrici durante le prove. Foto Andrea Macchia

I tre moschettieri è nato sei anni fa ed è ancora in repertorio a Monaco, è diventato un cult di cui il pubblico quasi conosce le battute a memoria. Siamo partiti dal motto “uno per tutti, tutti per uno”, per chiederci se sia poi davvero così. Già dal titolo si parla di tre moschettieri, quando poi sono quattro, e poi è diventato un affondo su ciò che il drammaturgo in teatro nasconde e mette a tacere. E poi c’è Wonder Woman, scritto tre anni fa. Non pensavo di riproporlo in Italia, ma quando Andrea De Rosa mi ha parlato della sua stagione “Cecità”, ho risposto che avevamo un testo che si concentrava sulla questione della Verità, su come questa possa essere messa a tacere o come possa finire per accecare.

La versione italiana è tale e quale a quella tedesca?

È un po’ diversa. Mentre in Germania conservava un tono più grottesco, qui abbiamo tagliato e siamo rimasti fermi sull’origine che ci ha ispirato, la sentenza di una commissione di giudici (donne) che hanno ritenuto non colpevole gli imputati che hanno stuprato “Nina”, la chiamiamo così, perché ritenuta troppo mascolina per subire una violenza. Nella prima parte vengono usate proprio le parole testuali delle giudici e il fatto di cronaca di partenza, che pure era lo stesso, per le attrici tedesche era assolutamente incomprensibile. Per questo abbiamo dovuto spostarlo sul grottesco. Qui abbiamo voluto delle giovanissime attrici; nessuna di loro è un “nome”: non volevamo che il lavoro risultasse compiaciuto. Sono tutte attrici conosciute nelle varie scuole, due delle quali seguono il mio progetto su Giovanni Testori. Il testo è stato scritto tre anni fa, quindi è chiaro che non abbiamo voluto trattare questo argomento per cavalcare il momento attuale.

Le attrici durante le prove. Foto Andrea Macchia

Però oggi l’Italia è il terzo paese in Europa per numero di femminicidi. E oggi il dibattito pubblico sembra essersi molto concentrato su questa grave piaga. Posizionandosi oggi e in questo paese che cosa pensi che lo spettacolo possa dire, soprattutto rispetto alla questione della Verità?

Da uomo che vive all’estero sono totalmente schifato in maniera indicibile; non è ammissibile la violenza, sia sulle donne o sugli omosessuali, il fatto che nel Ventunesimo secolo stiamo ancora parlando di questo è terrificante. Il Paese che ancora viene definito “la culla della cultura” si trova invece molto arretrato anni luce sul piano culturale. È un momento particolare perché oggi le donne denunciano in maniera più chiara. Ma ho visto Processo per stupro, (un documentario realizzato da giovani programmiste e mandato in onda dalla RAI nel 1979, NdR) che racconta il primo di questi procedimenti, datato 1976: le domande sono le stesse, portano la donna a subire una terza violenza. Tanto più qui, dove addirittura la donna viene considerata un uomo. Dunque non posso che pormi domande sul mio paese. Rispetto agli altri lavori, questo è forse meno mainstream, ma è un lavoro voluto, cercato ma doveroso: nel momento in cui succede quello che succede in Italia chi sta guidando i teatri e i luoghi della cultura deve prendere posizione, è impossibile tacere di fronte ad alcune vergognose dichiarazioni che passano dalla politica o dai giornali.

Foto Andrea Macchia

Tu parli del 1976, ma mi è capitato di ascoltare una conferenza in cui un intervento ricostruiva il processo ad Agostino Tassi, accusato di stupro ai danni di Artemisia Gentileschi. 1612. Anche allora le domande erano le stesse. Incredibile. Appunto, incredibile, come quando tu porti un caso italiano all’attenzione di attrici tedesche, che lo reputano inconcepibile. Non ci credono, non può essere vero. Ed ecco un altro modo in cui lo spettacolo tratta il tema della verità, raddoppiando il livello.

Naturalmente questa “impossibilità” è il punto di partenza da cui noi poi romanziamo, perché bisogna avere la consapevolezza che, mentre si fa politica, si deve fare intrattenimento o satira. Per le attrici tedesche era doloroso che in un Paese della Comunità europea – perché non siamo gli unici – potesse accadere qualcosa di simile.

Qui veniamo al tuo modo di pensare la macchina teatrale. Nel tuo teatro dietro al materiale di partenza, sia esso un testo drammaturgico, un documento o un fatto, viene posto sempre un concetto, che allarga il campo.

Parto proprio dal concetto. Lo spettacolo ha come titolo Wonder Woman, la prima donna che diventa supereroe. Nella ricerche fatte da Federico viene fuori che William Marston, creatore della striscia, è anche l’inventore della macchina della verità. Questo aggancio per me è stato fondamentale: un’eroina che con un lazo cattura i nemici e questi vengono poi costretti a dire la verità ci sembrava una metafora molto forte attorno al concetto di verità, alla lucidità del pensiero o a come essa viene piegata. Le giudici del processo si sono basate sulle fotografie, sui fatti, mi auguro che la sentenza si sia legata a una loro paura – essendo donne – di apparire troppo immediatamente “dalla parte delle donne”. Ma, come dici tu, la lettura si presta a più livelli e mi chiedo oggi cosa sia la verità e se siamo in grado di accettarla e reggerla. Tutti, anche i genitori o gli amici di una persona stuprata. Come mai uno dei gesti primi quando si muove guerra è quello di stuprare le donne? Anche nelle guerre di questi giorni.

Le attrici durante le prove. Foto Andrea Macchia

Mi viene in mente un’immagine terribile, che potrebbe dar senso a queste domande. È come in una partita di Risiko!, in cui – per potere della sineddoche – un carroarmatino rappresenta un certo numero di armate; nel gioco, quando si attacca, si è in svantaggio rispetto alla difesa. Quindi si decide di tentare la conquista di un territorio quando si è in forte superiorità numerica, quando il numero può schiacciare la resistenza. E allora forse l’attacco di molte persone contro una (anche quello di un gruppo di giudici e avvocati verso un’imputata) è una sorta di simulazione dimostrativa.

È assolutamente così. A differenza del “maniaco sessuale”, lo stupro di gruppo è il segno di un branco: a qualsiasi livello (fisico, mentale, economico), il branco rappresenta qualcosa di specifico, manda un messaggio preciso. E io credo che siamo tutti responsabili. Quanto una notizia di stupro diventa una materia di comunicazione e di capitalismo? Uno stupro diventa discussione nei talk-show e tamburino di giornale; spesso diventa, ahimè, “consigli per gli acquisti” in prima serata, sono parte del palinsesto. Purtroppo una delle cose più orrende avviene quando leggi il giornale online, vuoi vedere un reportage video dal fronte e quando clicchi devi prima sorbirti le pubblicità. Questo è il massimo della pornografia e i direttori dei giornali dovrebbero evitare questo ennesimo atto di violenza, questo ennesimo stupro. Non è ammissibile che, per vedere delle donne in guerra che piangono i propri morti devi prima vederti lo spot di Coco Chanel o la famiglia perfetta che mangia le merendine.

Foto Andrea Macchia

Pornografia è proprio un termine fondamentale, la spinta a cercare e mostrare qualcosa che dovrebbe rimanere, se non nascosto, almeno protetto. Che lo faccia l’informazione è di per sé osceno, nel senso etimologico, mentre questo tipo di arte e di rappresentazione potrebbe – forse dovrebbe – sempre tentare operazioni simili. A questo proposito, vorrei che mi dessi un commento sul nostro teatro di oggi.

Oggi si parla moltissimo di numeri, è ciò che chiede il Ministero. Sono contento che i teatri oggi siano pieni, è molto importante, ma la questione per me è che cosa vogliamo far vedere agli spettatori. Come aiutiamo a crescere e a riflettere? Il lockdown c’è stato in tutto il mondo; qualcosa di terribile ma che è stata anche una grande occasione. Non dovevamo più guardare i numeri e potevamo porre attenzione alle scelte. E non lo abbiamo fatto. Anzi, siamo tornati indietro perché andavano riempiti i teatri e questo vale per l’Italia come per gli altri Paesi: alla fine vince la forza del capitalismo. E nel nostro Paese la politica entra a gamba tesa nel teatro e questo non dovrebbe accadere, perché fa sì che la meritocrazia non conti quasi nulla.

Foto Andrea Macchia

La questione dei numeri era centrale quando a mancare era il pubblico, ma è rimasta centrale ora che il vero problema è la circuitazione. È come se, vista la richiesta di stanzialità, ciascun luogo si sentisse la coscienza a posto nel momento in cui le sale sono piene.

In Germania gli spettacoli sono stanziali ed entrano in repertorio. La questione è che in una sola città ci sono cinque grandi teatri e ogni anno “si gioca il campionato”. E allora la scelta di essere accattivanti genera una forma di concorrenza assolutamente costruttiva, perché quel testo lo vai a vedere in quel teatro e la gente si sposta per andare a vederlo. Se in ogni parte del Paese si presentano oggetti uguali uno all’altro non si crea la dovuta differenza e varietà. Se andiamo a monte, troviamo che manca ogni forma di rispetto per gli attori. Un giovane che fa questo mestiere, che se va bene fa una tournée di due o tre mesi, poi per il resto dell’anno sta a casa, come fa? Forse non siamo stati noi capaci di creare un rispetto per queste figure, forse gli attori prima non hanno pensato che a sperperare, e oggi è necessario avere un piano B. E allora dico qualcosa che magari è forte e impopolare: non sono assolutamente d’accordo con il nuovo capocomicato, perché i nostri predecessori si sono sforzati di alzare il livello dello spettacolo. Il capocomico che fa anche il regista piega il testo sempre e solo al proprio punto di vista. Ma siamo andati anche oltre: oggi il capocomico dirige il proprio spettacolo, è in scena e dirige anche un teatro. E questo, invece di lanciare la regia italiana, la sta uccidendo e riportando al proprio ombelico. I teatri italiani sono pieni di capocomici alla direzione e questo è il tratto più pericoloso. In passato figure come Ronconi, Castri o Castellucci hanno “svoltato” lo sguardo del teatro e non stiamo avendo rispetto di questo, stiamo diventando autoreferenziali, mentre ci si dovrebbe assumere la responsabilità di proteggere le generazioni di attori.

Sergio Lo Gatto

Teatro Astra TPE – Torino gennaio 2024

WONDER WOMAN

di Antonio Latella e Federico Bellini
regia Antonio Latella
con Maria Chiara Arrighini, Giulia Heathfield Di Renzi, Chiara Ferrara, Beatrice Verzotti
costumi Simona D’Amico
musiche e suono Franco Visioli
movimenti Francesco Manetti, Isacco Venturini
produzione TPE – Teatro Piemonte Europa
in collaborazione con Stabilemobile

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Sergio Lo Gatto
Sergio Lo Gatto
Sergio Lo Gatto è giornalista, critico teatrale e ricercatore. È stato consulente alla direzione artistica per Emilia Romagna Teatro ERT Teatro Nazionale dal 2019 al 2022. Attualmente è ricercatore presso l'Università degli Studi Link di Roma. Insegna anche all'Alma Mater Studiorum Università di Bologna, alla Sapienza Università di Roma e al Master di Critica giornalistica dell'Accademia Nazionale d'Arte Drammatica "Silvio d'Amico" di Roma. Collabora alle attività culturali del Teatro di Roma Teatro Nazionale. Si occupa di arti performative su Teatro e Critica e collabora con La Falena. Ha fatto parte della redazione del mensile Quaderni del Teatro di Roma, ha scritto per Il Fatto Quotidiano e Pubblico Giornale, ha collaborato con Hystrio (IT), Critical Stages (Internazionale), Tanz (DE), collabora con il settimanale Left, con Plays International & Europe (UK) e Exeunt Magazine (UK). Ha collaborato nelle attività culturali e di formazione del Teatro di Roma, partecipato a diversi progetti europei di networking e mobilità sulla critica delle arti performative, è co-fondatore del progetto transnazionale di scrittura collettiva WritingShop. Ha partecipato al progetto triennale Conflict Zones promosso dall'Union des Théâtres de l'Europe, dove cura la rivista online Conflict Zones Reviews. Insieme a Debora Pietrobono, è curatore della collana LINEA per Luca Sossella Editore e ERT. Tra le pubblicazioni, ha firmato Abitare la battaglia. Critica teatrale e comunità virtuali (Bulzoni Editore, 2022); con Matteo Antonaci ha curato il volume Iperscene 3 (Editoria&Spettacolo, 2018), con Graziano Graziani La scena contemporanea a Roma (Provincia di Roma, 2013). [photo credit: Jennifer Ressel]

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