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HomeArticoliFare sistema in Umbria, tra formazione, festival e residenze

Fare sistema in Umbria, tra formazione, festival e residenze

A qualche settimana dalla chiusura della terza edizione di Umbria Factory Festival, abbiamo intervistato gli organizzatori Adriana Garbagnati e Emiliano Pergolari, in rappresentanza de La MaMa Umbria International di Spoleto e di Zut! di Foligno. Una lunga conversazione attorno al sistema-Umbria, al concetto di azione di cura, ma anche al rapporto tra cultura e natura e a tutto quello che definiamo “corpo estraneo”.

Illustrazione di Norma Nardi

In un pomeriggio di inizio novembre, freddo e umido, finalmente autunnale, guido verso Foligno, per intervistare Adriana Garbagnati e Emiliano Pergolari, in rappresentanza rispettivamente de La MaMa Umbria di Spoleto e di Zut! di Foligno, organizzatori della terza edizione di Umbria Factory Festival, che si è conclusa da poche settimane. Mi continua a tornare in mente un articolo che ho letto al mattino. Una danzatrice umbra, Daria Menichetti, utilizzava, per spiegare il proprio lavoro, la nozione di “naturalculturale” elaborata dalla filosofa Donna Haraway, intendendo l’esplorazione di una possibilità benefica di integrazione e sincretismo, in un sistema sociale, quello contemporaneo, che sembra invece ragionare per coppie oppositive: natura/cultura, essere umano/animale, abilità/disabilità, scienza/arte.

Si tratta di un pensiero che in qualche modo consuona al lavoro svolto da C.U.R.A., Centro Umbro Residenze Artistiche: un acronimo “parlante” sotto il quale si raccolgono, dal 2018, cinque soggetti del territorio umbro che si occupano di spettacolo dal vivo. Oltre a Zut! e La MaMa, ci sono Indisciplinarte srl di Terni, Centro Teatrale Umbro di Gubbio e Micro Teatro Terra Marique di Perugia e, tutti insieme, disegnano una particolare mappa, sentimentale e operativa, della regione.
L’Umbria è una regione dominata da dinamiche e politiche spesso silenziose, dalla pretesa, tipica della provincia, di bastare a se stessa ma, allo stesso tempo, graziata dalla bellezza naturale e da alcuni investimenti culturali preziosi e rari.
Tra questi, il lavoro che C.U.R.A porta avanti, articolato in molte sezioni: c’è la formazione (laboratori, simposi, playwright retreat), ci sono i progetti nati nei territori toccati dal sisma (strumenti delicati per una geografia umana nuova), il coraggioso ripensamento della curatela, anche in termini digitali (Fase X e, per espansione e approfondimento, XL) e, infine, le residenze per operatori culturali (Fase Y). Lo sguardo rivolto davvero a un’iperscena che, a partire dalla propria radice territoriale, si proietti in un altrove che si amplia e si amplierà.

Il tratto comune credo sia un rispetto quasi “inedito” della temporalità artistica, concepita in termini non astratti. Quello che intendo è che inizia davvero, in Italia, a farsi largo (ovvero a essere rappresentata e resa pubblica) l’idea che, in ambito creativo, anche la ricerca “in negativo”, ovvero apparentemente infruttuosa, sia ricerca e che dunque il tempo impiegato in essa debba essere valorizzato e protetto. In altre parole, una differente e più sensibile attenzione al processo. Il punto è, come spesso, la messa a terra concreta dei propositi virtuosi, che richiede operatività e finanze. Il lavoro di cura, insomma, non si fa da solo.

L’etimologia di festival è “festivalis die” e suggerisce un’idea di eccezione e anomalia. In senso lato, anche di “corpo estraneo”. Il vostro lavoro in queste tre edizioni di UFF (qui un articolo di Simone Nebbia dedicato all’edizione 2022) mi sembra vada, invece, in un’altra direzione, scegliendo un formato dilazionato, distribuito nel tempo e in spazi diversi. Ci leggo un impegno curatoriale importante, a rendere più profonda la relazione con i luoghi, ma allo stesso tempo è evidente che conduca nei luoghi esperienze e persone che, altrimenti, forse non ci sarebbero mai arrivate…

“Danza Cieca” di Virgilio Sieni. Foto di Nicola Cirocchi

Emiliano: Credo che UFF, per la concentrazione di proposte, eventi e attività, abbia tutte le caratteristiche di un festival che, però, tenta di mantenersi “a misura d’uomo”, evitando sovrapposizioni, sovraesposizioni e sovrabbondanza di offerta. A essere eccezionale, forse, è il coinvolgimento del territorio: di tanti settori della città e di una comunità fatta di aficionados ma anche di persone che si sono avvicinate tramite il passaparola, o per vie traverse. E poi c’è la grande disponibilità di adesione a questa idea da parte degli artisti, la loro volontà di creare dialogo con le persone in quanto cittadini, non solo in quanto spettatori.
Il talk Upside down, che apre l’ultima domenica di festival, i laboratori e workshop disseminati nelle settimane sono momenti di questo dialogo. Se poi intendiamo parlare della relazione tra UFF e le attività che C.U.R.A. svolge nel corso dell’anno, sì, è effettivamente molto forte e rappresenta bene il modo in cui vanno a connaturarsi i processi creativi. Il fatto che (come C.U.R.A., come Zut! o come La MaMa) siamo diventati un punto di riferimento per alcuni artisti comporta che festival e residenze lavorino in modo complementare, passo a passo, magari a contatto con comunità cittadine di riferimento. Questo genera una specie di “meccanismo di ritorno”, anche quando il lavoro studiato in residenza viene magari poi prodotto da altri. È andata così con Fettarappa/Guerrieri che hanno presentato, in questa edizione di UFF, La Sparanoia, una produzione Sardegna Teatro, che ha mosso i primi passi in residenza a Foligno. Così le persone che hanno assistito al primissimo studio sono le stesse che, mesi dopo, lo vedono debuttare in forma di spettacolo concluso. In alcuni casi, abbiamo attivato delle triangolazioni importanti anche dentro la regione, con Dance Gallery, Teatro Stabile dell’Umbria, Fontemaggiore.

“La Sparanoia” di Fettarappa/Guerrieri. Foto di Nicola Cirocchi

Adriana: Dal mio osservatorio spoletino, noto alcuni aspetti che, seppure non negativi in senso stretto, sono di sicuro più problematici. Nonostante qualche visione divergente, il lavoro di concerto tra di noi e tutta la parte organizzativa funzionano in modo ottimo. Trovo però che, per quanto riguarda Spoleto, ci sia bisogno di “insistere”, dal punto di vista della ricezione del pubblico, di allargare ancora di più. Le azioni sul territorio ci sono, esiste una risposta, ma percepisco che è necessario individuare quel “click” ulteriore, per coinvolgere maggiormente le comunità. Per deformazione professionale tendo sempre a chiedermi: quale è il passo successivo? Noleggiare bus? Rafforzare il raccordo, anche logistico, con Foligno? Un battage pubblicitario diverso, condotto con altri mezzi?

E: In parte questo vale anche per noi. Al di là di qualche momento “pubblico” in senso molto forte, alcune cose rimangono come non colte. Marco Martinelli ha messo in scena la sua Azione corale nella corte di Palazzo Trinci: c’era pubblico, certo, ma per la sua portata, sarebbe potuto essere un evento molto più partecipato. Forse si tratta di un problema più profondo e più vasto, che riguarda un certo tipo di teatro e di spettacolo dal vivo.

Voi offrite due osservatori molto distinti, Foligno e Spoleto sono due città vicine e diverse. In che modo la morfologia del territorio condiziona l’azione produttiva, creativa e curatoriale? Penso anche alle zone colpite dal terremoto, alle modalità per entrare in relazione con il trauma dei luoghi. Inoltre l’Umbria, a volte mi pare, ha una natura quasi “insulare”. Intendo che esiste una modalità di lavoro (ma anche una mentalità diffusa) che fa pensare che “voglia bastare a se stessa”. Credo che qualsiasi intervento debba accogliere la sfida di operare in questo contesto, senza snaturarlo…

“Mi ritrovai” di Marco Martinelli. Foto di Nicola Cirocchi

E: Goffredo Fofi diceva, scherzando, che l’Umbria somiglia alla “città dei Puffi”: un luogo dove si opera un’assegnazione interna di ruoli e funzioni, senza considerare il contesto esterno. È anche una regione in cui, a temperare un po’ il discorso di Adriana, ha poco senso parlare di “grandi numeri”, ma esiste il rischio di un’altra insularità, quella di una programmazione e di una ricezione puntiformi: vedo quello spettacolo, e stop, senza creare un vero percorso, senza tessere delle reti.
Nei luoghi del sisma sono stati immaginati dei piccoli interventi, con artisti scelti, in un contesto protetto, senza mortificare l’azione artistica, ma, credo, sapendola calibrare. Alcune presenze umane, prima ancora che artistiche, hanno funzionato, come è naturale, più di altre. Ci sono stati molti momenti preziosi, che hanno permesso alle comunità di riappropriarsi di valori un po’ dispersi nel post terremoto, ma anche nel post pandemia. Ricordo, a Sant’Anatolia, il progetto di comunità ideato da Floriane Facchini attorno alla “memoria collettiva”: non si tratta di un intervento che fa numero, rilevabile in modo significativo dalle griglie quantitative. Ma si tratta di veri e propri doni, che a volte non sono neanche consapevolmente (o immediatamente) ricevuti. L’azione a volte è invisibile, o visibile solo in parte.
In ogni caso, non possiamo mai prescindere dalla comunità. Nella mia visione, sarebbe fallimentare un festival che inanella debutti “calati dall’alto”, che non dialogano con i luoghi, solo per la gioia di fare la prima, o per un’esigenza di eccezionalità. Forse questo esempio umbro può essere utile in generale. Non che l’arte debba essere utile in senso stretto…

A: La MaMa Umbria, negli anni, ha tentato di fare proprio questo, di interagire con le comunità. In verità, iniziano a cogliermi i dubbi. Preso atto che gli abitanti dell’Umbria corrispondono a quelli di un quartiere di Milano, la domanda è: sono pronti gli Umbri, oggi, a questo lavoro che noi facciamo da anni? Alcuni sì, e rispondono bene. Altri no. Mi chiedo se parlare così non voglia dire riprodurre, in piccolo, lo stesso fenomeno che si vedeva sui social, all’indomani del Nobel per la Letteratura a Jon Fosse, quando tutti si scandalizzavano del fatto che in Italia fosse appena conosciuto: siamo un gruppo di “addetti ai lavori” che se la cantano e se la suonano? Quello di cui mi accorgo sempre di più è che, anche quando qualcosa funziona, poi c’è una grande fatica a mantenere quell’esito, e a rinnovarlo.

E: Eppure, io percepisco sempre una forte fascinazione per l’Umbria da parte degli artisti. Per fare un solo nome: Virgilio Sieni. È rimasto incantato dall’architettura di Piazza San Domenico, dalle sue linee di fuga, dalla Calamita Cosmica di Gino De Dominicis, e ha lavorato benissimo nella sua lezione aperta alla comunità, non solo folignate.

Credo dipenda dal tipo di attenzione che rivolgi a questi luoghi. Se hai uno sguardo viziato dalle fatiche e dai “muri di gomma” che hai incontrato, ricadi in una rassegnazione che si fonda sui conteggi. Gli sguardi che vengono da fuori hanno, come è ovvio, una verginità diversa, che consente l’incanto. Anche a me, a volte, arrivano feedback pieni di un entusiasmo e una curiosità che mi sembrano fuori scala. Però viviamo in un territorio interessante, costellato di fenomeni strani, basta guardare a Solomeo, alla programmazione del Teatro Cucinelli. Per certi versi, è un discorso opposto a quello che stiamo conducendo qui: John Malkovich che “atterra” a Solomeo è veramente “l’ufo”. Poi però pensiamo anche che il Ministero della Cultura ha assegnato al Teatro Stabile dell’Umbria il primo posto in Italia per la sua programmazione di danza per il triennio 2022/24, curata da Marco Betti. D’accordo, siamo a Perugia meno Puffi di altri Puffi però è un dato da rilevare.

“Somewhere” di Lucia Guarino e Ilenia Romano. Foto di Nicola Cirocchi

E: La proposta di Marco Betti ha il pregio di essere ricercata e di qualità, sostenuta da un pensiero profondo. Di conseguenza, chi siede in platea può anche non cogliere tutto, ma resta affascinato. Ci insegna anche la temporalità, la gradualità: con il passare degli anni, sempre un po’ di più, si può provare a spingersi in altre direzioni. Pensa a Oltrepassare, la danza itinerante di Silvia Dezulian e Filippo Porro, presentata a Foligno poche settimane fa: a noi sembra la cosa più normale del mondo, non è scontato che sarebbe stato così quindici anni fa.
Un discorso simile vale per l’interdisciplinarità. Può essere un modo di toccare altri bacini e può essere recepita come una novità ma, a ben guardare, è una ricerca che La MaMa porta avanti già da anni. Non so se la danza possa davvero ambire a proporsi come “medium narrativo”, ma la mia sensazione è che dal comparto coreografico arrivino dei contributi di sguardo sulla contemporaneità sempre più significativi, un approfondimento tematico e un pensiero autoriale – e in alcuni casi filosofico e sociologico – che non è scontato ci sia, e non è così frequente neanche nel teatro.

Donna Haraway ha coniato una parola, “naturalculturale”, per racchiudere un’idea di integrazione tra istanze, in un’epoca che, invece, procede per dicotomie. Tra l’altro penso che questa “separazione”, quasi opposizione, tra natura e cultura non vada quasi di mai di pari passo con una specializzazione dello sguardo, o del pensiero. L’idea che la cultura stia sempre in altri luoghi rispetto a quelli in cui sta la natura è una stortura occidentale?

E: Mi pare che, sempre più, ci sia l’esigenza di produrre percorsi e processi artistici all’interno di luoghi naturali, di avventurarsi fuori dai perimetri convenzionali dello spettacolo dal vivo. Isabel Paladin, ospitata proprio in residenza da noi, sta svolgendo un lavoro dedicato alla connessione con le piante, per elaborare un modo di farle risuonare attraverso il movimento. Ma potrei citarti anche Dezulian/Porro, Daria Menichetti, Leonardo Delogu… Credo che sia una sorta di risveglio, un’esigenza profonda di ristrutturare la relazione con la natura e che non appartenga solo agli artisti, ma sia un sentimento piuttosto comune post-pandemia. La grande città ha un’offerta che si fonda su evidenze contingenti e logistiche, però l’arte inizia a essere investita da (e portatrice di) un’attenzione ecologica diversa, non solo come tematica di lavoro ma soprattutto come contesto e come sensibilità.

Parliamo di futuro: siamo all’inizio di un nuovo triennio. Ma anche di futuro in senso più ampio. Voi, già da anni, siete impegnati nella costruzione di percorsi di formazione online, che vanno sotto il nome di Fase X, dove “X”, come in matematica, indica la “variabile indipendente”. So che si tratta di una domanda semi-impossibile, ma: secondo voi che succede? La nuova frontiera, il nostro passaggio a nord ovest, è certamente l’intelligenza artificiale. Ma, mentre parliamo di estensione e implementazione potenzialmente infinita delle funzioni dell’intelligenza, il corpo che fine fa? Non il corpo efficiente – che è sempre più sostituibile – ma il corpo performante. Senza dimenticare che i Subsonica lo cantavano quasi venticinque anni fa, il sogno di «una carne sintetica, nuovi attributi, un microchip emozionale» …

Illustrazione di Norma Nardi

E: Questo è stato proprio il tema del nostro talk Upside down. Il ragionamento collettivo era costruito attorno a tre domande: se scomparissero le arti performative, cosa ti mancherebbe di più? Cosa rende unica l’esperienza delle arti performative? Cosa potrebbe sostituirle? L’elemento del corpo è emerso con prepotenza, portato al centro dell’attenzione anche dal pubblico. Sulla sostituibilità dell’esperienza artistica, alcuni – per tornare al punto precedente, al legame tra istanza ecologica e istanza culturale – hanno detto: «Allora vado a vivere nella natura!». Anche se, nella provocazione dei conduttori, tutto è stato definito replicabile per mezzo di sostanze sintetiche, il tema del qui e ora – della compresenza che l’arte dal vivo custodisce – è rimasto uno dei punti più resistenti rispetto a un’ipotesi di futuro. È una forma di unicità che, per adesso, suona come qualcosa di irrinunciabile, e di romantico.

A: Per quanto io sia una sessantottina, non possiamo far finta che questa frontiera non esista. Anche nel nostro campo, sappiamo che queste tecnologie ci sono, e che prenderanno sempre più piede. Il raccoglimento nella natura è splendido, io sono la prima che a cercarlo, ma dobbiamo avere un occhio aperto, spalancato, pur sapendo che l’Italia, tanto per cambiare, è un po’ il “fanalino di coda” dell’Europa. Poi credo anche che i corpi vivi, le persone, siano insostituibili, per quanto si possa programmare e fantasticare.
Però, sai, Mara Oscar Cassiani sta lavorando, proprio in questi giorni, a un progetto che esplora la possibilità (e le implicazioni) di una storia d’amore con un bot. Si tratta di casi che esistono veramente, e anche l’arte deve farci i conti. Si tratta di allargare la visione, ma approfondendo il pensiero. Questa tecnologia, che noi chiamiamo futuro, non deve essere percepita, in arte, come “protesi”, decorazione, attributo. E neppure essere utilizzata per produrre soltanto esiti legati all’online, altrimenti tutto rischia di diventare riduttivo e auto-riferito.

E: È come il microfono per Carmelo Bene: uno strumento in più, ma per percorsi che ne hanno bisogno. E concordo anche sull’esigenza di una ricaduta nella performance dal vivo, come esperienza concreta. Credo che le tecnologie ci servano per capire le possibilità delle tecnologie stesse, integrandole, immaginandole in nuovi contesti. Non può mai essere un atterraggio, un dire «figo, forse lo uso». Si tratta, di nuovo, dello stesso principio: uscire dalla logica del “corpo estraneo”.

Ilaria Rossini

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Ilaria Rossini
Ilaria Rossini
Ilaria Rossini ha studiato ‘Letteratura italiana e linguistica’ all’Università degli Studi di Perugia e conseguito il titolo di dottore di ricerca in ‘Comunicazione della letteratura e della tradizione culturale italiana nel mondo’ all’Università per Stranieri di Perugia, con una tesi dedicata alla ricezione di Boccaccio nel Rinascimento francese. È giornalista pubblicista e scrive sulle pagine del Messaggero, occupandosi soprattutto di teatro e di musica classica. Lavora come ufficio stampa e nell’organizzazione di eventi culturali, cura una rubrica di recensioni letterarie sul magazine Umbria Noise e suoi testi sono apparsi in pubblicazioni scientifiche e non. Dal gennaio 2017 scrive sulle pagine di Teatro e Critica.

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