Le giornate della NID Platform, ospitate quest’anno a Cagliari, hanno mostrato al sistema danza italiano il potenziale di un’occasione per fare il punto, precisare progettualità, presentare novità e negoziare politiche costruendo ponti.
La delusione è un po’ palpabile. La programmazione della NID di quest’anno a Cagliari, dal titolo Fluidity. Spazio corpo movimento, ha disatteso qualche aspettativa e confesso che ora sarebbe anche troppo facile sparare immaginando un facile bersaglio. Però devo rilevare con vera sorpresa la larghissima partecipazione del sistema danza italiano, e sarà questo anche un bene perché dice dell’attrattività (e necessità) che il formato piattaforma ha per creare l’occasione di fare il punto, precisare progettualità e negoziare politiche costruendo ponti con l’estero, vista anche la folta delegazione di operatori stranieri, provenienti anche dalle più disparate realtà. L’ospitalità e l’organizzazione tecnica delle giornate è stata mirabile, e devo dire in tutto sempre all’altezza.
Fra gli incontri, tra i meglio riusciti e utili, c’è stato senz’altro quello dedicati alla danza in Sardegna, mirabilmente e in modo esaustivo introdotto e poi condotto da Fabio Acca (con schemi e numeri ha documentato la crescita di attenzione da parte delle istituzioni nei confronti della danza di questo territorio), e quello dedicato alle piattaforme internazionali. Qui sono emersi temi e questioni che dicono da una parte la necessità per il nostro sistema di perseguire e incentivare una riconoscibilità internazionale, dall’altra, l’ampio spettro di politiche future che ci aspettano al varco, e che occorre assumere e condividere per affrontare, con la danza e la performance, le crisi del presente e del futuro (in termini di programmazione, risorse economiche, mobilità).
La scelta dei (pochi) titoli, è invece stata demandata a una commissione, la cui composizione nonché le modalità con le quali essa ha valutato i materiali dovranno forse essere riviste (impossibile fidarsi solo dei video; irragionevole credere che un curatore, per quanto autorevole e illustre, ma a digiuno di ciò che succede in Italia, sia in grado di scelte più neutre e dunque giuste).
In generale, tra (più brevi) Open Studios e la sezione ‘a serata’ della Programmazione, la mia impressione è che siano state fatte scelte un po’ fuori dal mondo, pochissimo rappresentative e forse anche inadatte a un formato come questo della piattaforma, perché invece di dispiegare lavori/progetti con un potenziale vero su cui attirare attenzioni ed eventualmente investimenti, sono state fatte scelte che mostrano già, nei confini della presentazione, breve o compiuta, tutti i loro attuali e futuri limiti.
Alcune performance sono ripiegate solo sul processo o sul frammento (e sembra proprio che lì resteranno), oppure ancora sempre nella fase/formato studio che equivale a una condanna, perché sempre-sembra-che-tutto-vale-sempre. Di gran lunga peggio sono le danze mono-idea, capaci solo di estenuata ripetizione e forzata disciplina (nostalgia dei beati anni del castigo?), con una impegnativissima drammaturgia sonora per tutto quel che in scena purtroppo non c’è. Per non parlare poi degli irrisolti problemi col balletto, che è sempre da irridere (ma, verrebbe da dire, fatevi aiutare…): insomma, moltissimo bisogno di uniformarsi ai trend in corso e già visti. Un bisogno che tradisce ansia di riconoscimento più che idee da far vivere. Un discorso a parte meriterebbe la totale assenza di proposte sarde, forse non dovute, di certo però augurabili, in un contesto così relazionale e di documentata crescita.
Alla fine, le scelte fuori posto sono quelle che più hanno emozionato: Nicola Galli in apertura degli studî ma senza alcuna introduzione né spiegazione, ha caricato di attesa ed enfasi ciò che invece sembra esigere una meraviglia fatta di distanza e sobrietà. Fabrizio Favale, che per storia ed età meritava una ospitalità meno contenuta di un open studio, con il geniale Danze Americane ha letteralmente tirato giù il teatro tra una dimostrazione di tecnica Limón, poi Brown e poi Cunningham. Una bella sorpresa di nuovo fra gli studios: il frammento coreografato da Roberto Tedesco in forma di assolo per Laila Lovino, Decisione consapevole, secondo una linea del grottesco che non ha bisogno di ammiccare al pubblico, né della risatina complice, né dell’applauso immediato e compiaciuto; una proiezione video conclusiva ha inoltre esemplificato molto chiaramente tutto il potenziale realizzativo della sua proposta.
Nella programmazione, Paola Bianchi con Brave porta in scena (dopo 9 anni) Valentina Bravetti, anche se in uno spazio non adatto alle necessità drammaturgiche del lavoro, poiché si tratta di un vero e proprio tracciamento di una mappa a terra di tutta una nuova anatomia. La forza e l’intesa delle due interpreti hanno generato una partitura di posture del vivente capace però di superare ogni limite di visione e di esplodere nella percezione degli sguardi e dei cuori più disponibili. Una sicura conferma è stato anche il lavoro solista di Daniele Ninarello, Nobody etc., che ha funzionato perfettamente in uno spazio più grande e plateale di quel che invece sarebbe richiesto, data l’intimità e la confidente urgenza (purtroppo attualissima) di denuncia contro bullismo e sessismo violento di questa sua performance (con tanto di canzone live e intonazione sotto stress impeccabile). Infine Luna Cenere con Shoes on, calzate da Michele Scappa e Davide Tagliavini, ha mostrato di saper pure giocare con la nudità attraverso il pop dei New Order. Sembrava un feticismo un po’ visto e rivisto, è stato invece il più intelligente tradimento della realtà di ogni sua pretesa.
Stefano Tomassini