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Arianna Pozzoli. Il teatro come l’impossibilità di mettersi al sicuro

Intervista. Dal palco di India con Tre sorelle di Muta Imago al red carpet di Cannes nel giro di pochi giorni, Arianna Pozzoli continua un percorso denso di incontri con autorialità e linguaggi diversi, accomunati dalla sue prove attoriali sempre esuberanti e convincenti

Quando il volto di Arianna Pozzoli è comparso sul grande schermo, nei panni dell’aiuto regista di Nanni Moretti ne Il sol dell’avvenire, ho avvertito la sensazione, forse un po’ infantile, di riconoscere una presenza cara, nonostante non conoscessi davvero di persona l’attrice. Ri-conoscere, come a dire conoscere due volte: prima sub specie teatrale, poi con quel salto di scala che insieme espande e sottilizza la presenza. Quasi volendo tendere l’indice verso l’immagine proiettata, qui sì in maniera infantile, e a voler dire “è lei!”, con stupore immotivato. Sarà che pochi giorni prima l’avevamo apprezzata nel folgorante Tre sorelle di Muta Imago a India, nella sua febbrile presenza fisica, nella voce energica e al bisogno crudele, nella ritmicità sempre sottilmente coreografica. Mosso dalla curiosità di motivare quello stupore, di rimarginare due figure complementari della stessa attrice, la raggiungo telefonicamente.

Da cosa credi che debba iniziare questa intervista? Come pensi a chi ci sta leggendo dall’altra parte dello schermo?

Tre sorelle – foto Luigi Angelucci

La tua domanda mi fa pensare a qualcosa che ultimamente avverto spesso: credo che ci sia una sempre più forte pretesa di essere universali, di poter parlare a un bacino di persone più ampio possibile. Questa però è una mistificazione della realtà, perché ognuno di noi vive, a suo modo, dentro a bolle sociali, economiche, culturali, e direi anche grazie a Dio! Sono felice di non essere, come dire, una cittadina del mondo. Dunque inevitabilmente ci saranno delle persone che non sono interessate a quello che diciamo, o delle persone, invece, che sono terribilmente interessate a quello che diciamo, qui o in scena. Sicuramente però è sano che soprattutto la nostra generazione si domandi a chi stiamo parlando e cosa stiamo facendo, perché non possiamo vivere in maniera, permettimi il termine, automatica, ovvero: le cose si fanno così, prima l’accademia, poi i provini, poi si incontrano i registi, etc… A ritmo sempre più veloce negli ultimi anni, o a voler fissare degli anniversari potremmo dire dalla morte di Ronconi, i linguaggi stanno cambiando e sento che ci troviamo in una fase di transizione, e dunque forse anche un po’ di confusione, una confusione però positiva. Quindi quello di cui io e te dovremmo parlare sicuramente è lo stato dell’arte del teatro, magari semplicemente perché ci stiamo dentro. Magari possiamo partire da un punto di vista che è interno, e poi provare ad allargare il teatro al mondo che ci circonda, provare a fare incontrare un po’ quelle bolle lontane in cui viviamo. Perché poi è questo che il teatro fa: ci permette di incontrare i corpi degli artisti. È questa la cosa bellissima: il fatto che i nostri corpi siano presenti, che non siano da un’altra parte nello spazio e nel tempo. Però, in realtà, a me piacerebbe pensare anche che il teatro sia un po’ ovunque. Pensando all’attualità, ad esempio, quanto teatro, quanta performatività c’è nelle proteste degli attivisti di Ultima Generazione?

Hai messo l’accento sui corpi, e in effetti la tua presenza attoriale è sempre esuberantemente fisica. Come vivi il rapporto con i corpi del pubblico e di chi è in scena con te?

Prima dell’inizio degli spettacoli, quando possibile, da dietro le quinte mi avvicino all’ingresso in sala per sentire gli spettatori entrare. È un momento che mi rilassa. Contare le persone mi ricorda che ho di fronte delle individualità, perché al contrario molto spesso il pubblico, dalla scena, mi dà l’impressione di essere un macroelemento, come una cosa sola. Invece è bello vedere la singolarità di fronte a me: chi è in jeans, chi coi pantaloni a coste, chi ha gli occhiali e chi no, chi, magari, ha perso il portafoglio e ancora non lo sa. È bello ricordare che in fondo sono loro che sono venuti a vedere me. Io faccio delle cose davanti a loro e niente più di questo: niente di più magico e semplice. Quanto ai miei compagni e alle mie compagne di scena, io parto sempre da loro. Il mio lavoro parte sempre da dove sono gli altri, cosa fanno gli altri, che siano corpi, musica, suono o luce.

E quando invece sei nei panni della spettatrice, come vivi il rapporto con gli altri corpi?

Mi piace, mi piace stare in mezzo alle persone, ci sto bene. Accetto il fatto che le persone possano infastidirmi, bisogna accettare che la presenza di tante persone possa essere difficile da gestire, però è importante continuare a farlo, continuare ad incontrarsi in spazi dove ci sono persone che noi ancora non conosciamo, ma che possiamo conoscere magari quella sera stessa. O magari semplicemente andare lì e stare per gli affari nostri, da sole. Condividere o non condividere nulla, condividendo però sempre quello stare nello stesso luogo. E poi per me gli attori sul palcoscenico sono splendidi da guardare. Fin da quando ero piccola ho vissuto come uno scandalo questa differenza del teatro rispetto al cinema e alla televisione.

Il corpo oggi è raccontato e vissuto come un soggetto politico attivo e proattivo. Quanto è politico il tuo corpo, nel tuo mestiere?

The making of Anastasia, di Martina Badiluzzi, 2020

Mi piace affermare che tutta la mia presenza in scena sia politica: quello che cerco è una mia totale compromissione rispetto al materiale che sto portando, è assumermi totalmente quello che sto dicendo e quello che sto facendo, in quanto Arianna. Sempre in maniera diretta, dunque, e non mediata. Per fare un esempio, mi è capitato a volte di dover gridare in scena: mamma! guardando dritto davanti a me, verso gli spettatori. Ecco, in quel momento davanti a me c’è mia madre. Per questo le parole sono sempre difficili da scegliere, perché c’è un’incessante ricerca di autenticità. Quando qualche cosa che fa o dice il mio personaggio non mi torna, mi sento in imbarazzo. Allora se mi sento in imbarazzo capisco che quella cosa che sto dicendo-facendo forse non è giusta, in qualche modo. Al di là del teatro e dell’arte, è un po’ il modo in cui mi piacerebbe che le persone vivessero intorno a me. Al contempo però non voglio confondere arte e attivismo: sono pratiche interdipendenti, ma che procedono attraverso metodi differenti. L’attivismo è assertivo; l’arte, dal mio punto di vista, deve nutrire il dubbio, deve collocarci sul crinale, in una posizione scomoda.

Hai parlato di fatica, responsabilità, lavoro. In Tre Sorelle di Muta Imago, andato in scena a Roma in maggio, il tuo personaggio, Irina, grida a più riprese contro la fatica del lavoro…

Per come lo abbiamo letto noi, con Riccardo, Claudia, Monica e Federica, il personaggio di Irina cerca di autodeterminarsi, a prescindere dagli uomini che la vogliono sposare. Nel fare ciò, compie una sorta di percorso in cui parte considerando il lavoro un’opportunità di liberazione, per poi finire a viverlo come una forma di oppressione indefinita, che le impedisce di esistere. “A forza di lavorare, mi si è inaridito il cervello”, dice. A forza di provare, di studiare il testo, mi piaceva che quel pezzo fosse una sorta di recriminazione universale contro il lavoro. O almeno io lo vivo così mentre lo porto in scena: che cosa fa il lavoro? Il lavoro inaridisce, la vita di Irina scorre via. Noi lavoriamo, mentre la vita scorre via.

L’arte è lavoro?

Dipende cosa intendiamo per lavoro. Il teatro è un mestiere: ci sono scadenze, contratti, c’è la tecnica, la disciplina etc… Quel tipo di lavoro che inaridisce è quello che fanno le persone quando dicono “quando smetto di lavorare, finalmente sto bene”. Quello che mentre lo fai, pensi che lo stai facendo solo per poterti guadagnare la possibilità di vivere. Quanto all’arte, se il mio mestiere è arte, allora è anche un privilegio.

Il tuo percorso professionale, sia pur breve per dato anagrafico, è già consolidato. Rispetto alla tua esperienza, senti che in questa fase storica la rappresentatività del linguaggio teatrale sia in crisi?

Fak Fek Fik, di Dante Antonelli, 2015

È da un po’ che mi chiedo se è solo perché oggi ho trent’anni (e prima ne avevo venti, ventuno, ventidue, ventitre…) che il mio rapporto con le cose è sempre meno ideale e più concreto: meno spazio per sognare, e più spazio per fare, anno dopo anno. In questo momento, che è un momento buio a livello politico per il nostro Paese, mi sembra che davanti a tante difficoltà storiche il teatro viva una sorta di sospensione, di attesa di qualcosa che sta arrivando. Una deflagrazione che avverrà per l’accumulo di energie nascoste: mi sembra che ci sia una polarizzazione sempre più netta, un crescendo di frizione fra parti di realtà contrapposte. Penso ad esempio all’orribile lettera di Barbareschi a Repubblica e alla risposta di Amleta e del Campo Innocente, o alla lunga crisi istituzionale del teatro romano contrapposta ai tentativi di fioritura che la città periodicamente rinnova (fra i tanti esempi, penso al lavoro di Francesca Corona a India a quello di Ilaria Mancia al Mattatoio). Siamo in una sorta di periodo di mezzo.

In questa situazione sospesa, quali sono i bisogni che senti di rivendicare rispetto alle politiche di settore, al sostegno istituzionale, etc..? Cosa ti farebbe sentire più libera nell’esercizio del tuo lavoro?

Prendiamo ad esempio il percorso di una generazione precedente, magari proprio di Muta Imago, che hanno avuto modo di crescere e sperimentare in uno spazio indipendente come il Collatino. Ci sono sempre meno luoghi, soprattutto a Roma, dove le giovani compagnie, e in generale tutte quelle che non sono sovvenzionate né direttamente né indirettamente dai grandi teatri, si possano incontrare. Abbiamo bisogno di spazi pensati per essere vissuti in un altro modo, che possano favorire la creazione di reti. L’epoca della solitudine degli artisti e delle compagnie è finita. La vicinanza, l’intimità di una lingua comune è quello che differenzia il teatro dal cinema.
Spesso mi viene detto che al cinema ci sono molte più cose belle e al teatro meno, che si è delusi dal teatro. Ma questo è un paragone che non si può fare, cinema e teatro non partono dalle stesse condizioni. Il cinema è un’ industria che permette di vedere film da tutto il mondo, puoi apprezzare film coreani, olandesi, francesi e vedere film di artisti da tutta Italia. Il teatro non funziona così, noi vediamo quasi solo spettacoli italiani (a parte durante i festival) e spesso quasi solo spettacoli che riescono ad arrivare a Roma, il bacino è molto più ristretto. Per questo secondo me è un paragone violento, quello di confrontare una grossa industria che si muove su scala mondiale con il mondo del teatro, che è quasi regionale e che non ha le forze economiche del cinema.
Eppoi naturalmente abbiamo tutte e tutti bisogno di aumentare la circuitazione. Lo ripetiamo da troppo tempo: lavoriamo anni per creare uno spettacolo che poi termina il suo ciclo di vita in due settimane al massimo. Due anni in due settimane. Questo è assurdo, tanto più in un settore che spesso funziona ancora attraverso il passaparola.

Da Dante Antonelli a Muta Imago, da Massimiliano Civica a Emma Dante e ora Nanni Moretti (al cinema e prossimamente nella prima regia teatrale del regista romano), hai avuto modo di attraversare sensibilità e linguaggi altissimi e molto diversi, tutti con un’identità molto radicale e radicata. Quanto è difficile riadattare il proprio modo di esistere sulla scena? Hai trovato un metodo, o si tratta di operare un reset ad ogni nuovo incontro?

Il sol dell’avvenire, regia di Nannni Moretti

Io ho incontrato tutte queste persone che hai citato, così come è vero che loro hanno incontrato me: l’incontro è sempre reciproco, molto di più di quanto si possa pensare. Ci si sceglie, in fondo, vicendevolemente. Direi che ho maturato una mia grammatica, o una mia pratica in cui credo e alla quale mi rivolgo per ogni nuovo lavoro. Ma non parlerei di metodo, perché intendo il metodo come il tentativo di assicurarsi la riuscita, mentre vivo il teatro come l’impossibilità assoluta di mettersi al sicuro. La riuscita di quello che stai facendo non è mai una questione di buona volontà, non basta applicarsi. Bisogna essere soprattutto disposti a ricredersi molte volte, a capire magari alla terza settimana di prove che no, avevi ragione alla prima settimana e quindi devi tornare indietro. C’è sempre un movimento. Avanti, indietro, avanti, indietro… Nulla è stabile, così come quando il linguaggio della performance “sporca” un po’ il teatro, a me piace che sia così. Un desiderio che ho, nel mio lavoro di attrice, è di dare l’impressione di una sporcatura che però sia il frutto di un lavoro ponderato. Che possa così mettere in discussione che io stia “solo” rappresentando, e che invece mi riguardi direttamente.

Quello che descrivi è intimamente teatrale, ma negli ultimi tempi ti abbiamo vista al cinema ne Il sol dell’Avvenire, che ti ha portato anche a Cannes sul famigerato red carpet. Hai vissuto la tua esperienza cinematografica come un momento eccentrico rispetto al percorso teatrale?

In realtà Nanni Moretti mi ha dato subito l’impressione di essere una persona di teatro, nonostante paradossalmente la sua primissima regia teatrale, che ricordavi, sarà a ottobre a Torino. Moretti ha quell’energia, quella follia scanzonata che io nella mia esperienza riconduco alle persone di teatro, con un’esposizione costante alle emozioni, come andassero costantemente a fuoco. Sicuramente il lavoro sul set è stato eccentrico rispetto alle mie abitudini, banalmente perché tutto è molto più spezzettato, si rifà la stessa scena tante, tante volte, magari tutto il giorno. Ma questa è un’esigenza tecnica. La differenza principale è che al cinema sei molto più dentro alla finzione. Per esempio, nella scena in cui io e Moretti siamo in macchina, eravamo davvero seduti vicino, c’era la strada, c’erano le macchine, etc… Lo spazio non è come in teatro, dove devi farti sentire fino all’ultima fila, e fino all’ultima fila devi riuscire a far immaginare la strada, la macchina, etc…

Immagina un luogo e una fine per questa intervista.

Se fossimo, chessò, di notte in una spiaggia griderei che il teatro dev’essere un’assemblea. Abbiamo bisogno di continuare a fare assemblee, dobbiamo resistere alla tendenza di stare da soli.

Andrea Zangari

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Andrea Zangari
Andrea Zangari
Architetto, laureato presso lo IUAV di Venezia, specializzato in restauro. Ha scritto su riviste di settore approfondendo il tema degli spazi della memoria, e della riconversione di edifici religiosi dismessi in Europa. Si avvicina al teatro attraverso laboratori di recitazione, muovendosi poi verso la scrittura critica con la frequentazione dei laboratori condotti da Andrea Pocosgnich e Francesca Pierri presso il festival Castellinaria prima e Short Theatre poi, nel 2018. Ha collaborato con Scene Contemporanee, ed attualmente scrive anche su Paneacquaculture. Inizia la sua collaborazione con Teatro e Critica a fine 2019, osservando la realtà teatrale fra Emilia e Romagna.

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