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Marcos Morau. Nella danza la mia ossessione per il presente

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Intervista a Marcos Morau, coreografo, artista e direttore della compagnia da lui fondata nel 2005, La Veronal. Morau, residente in Spagna, è stato spesso ospite in Italia con diversi spettacoli. Tra il più recente, Opening Night programmato a Vie Festival e Romaeuropa.

Marcos Morau. Foto Albert Pons

Il tuo approccio alle arti è sempre stato multidisciplinare, hai individuate un’arte o un momento specifico grazie al quale hai iniziato a capire il tuo modo di essere artista?

Non so se ho la risposta giusta per questa domanda, in quanto non credo di riuscire a rintracciare un singolo momento, ho più la sensazione di un insieme di fattori, di più esperienze che ho intercettato durante la mia adolescenza – o prima ancora – e che mi hanno poi spinto a scegliere questa strada. Fin da piccolo sono sempre stato affascinato dalla creatività, amo dipingere e disegnare, andare per musei, sono stato sempre molto curioso, anche perché in Spagna durante gli anni Novanta tutto era in grande trasformazione, è stato un decennio turbolento ma nello stesso tempo pieno di stimoli. Non ero danzatore, amavo più l’arte o la musica, in quel periodo per me l’idea di movimento era più legata alla pratica sportiva, alla ginnastica. Però ricordo di aver visto in un programma televisivo la Compañía Nacional De Danza con una coreografia di Nacho Duato e credo di aver trovato in quell’operazione qualcosa che mi ha catturato.

Nei miei lavori in generale è sempre presente una forte connessione con l’arte, sia essa pittorica o fotografica; l’aspetto legato alla composizione dell’immagine è fondamentale nel mio lavoro. Tra gli artisti che mi toccano di più sicuramente riconosco Pablo Picasso o Francis Bacon di cui all’inizio non capivo nulla eppure non ho potuto far altro che amarlo fin dal principio. A volte ho bisogno di più dai linguaggi coreografici; ho lavorato nell’opera, nel circo, nel cinema, spesso utilizzo anche dei testi nei miei spettacoli… insomma, perseguo la creazione con quegli strumenti che sono più efficaci in ogni determinato caso. Ed è per questo che preferisco non guardare in un’unica direzione.

Pasionaria, foto Alex Font

Come tieni insieme allora tutti questi linguaggi? C’è qualcuno che prevale sugli altri, o un elemento da cui origina il tutto?

Non ho un metodo predefinito. Ogni creazione ha una diversa gestazione, un proprio principio ordinatore, che sia questo una musica, un dipinto… in ogni caso per iniziare devi avere una necessità precisa, in caso contrario tutto sarebbe semplice decorazione. A partire da questo bisogno, tutto il resto – il lavoro concreto, il significato, le domande, le scelte musicali… – arriva insieme, in maniera piuttosto semplice. Per esempio Pasionaria è molto concreto, con Sonoma volevo parlare di Luis Buñuel e della rivoluzione, Opening night è un po’ un’occasione per parlare dell’amore per il teatro per quella dimensione immaginifica dove tutto può accadere. Adesso sto creando una nuova produzione per La Veronal per la prossima stagione, incentrata sugli adolescenti e in generale sulle nuove generazioni, su come loro si relazionino con le arti, quale sia il loro rapporto tra vita e arte. Sono curioso riguardo a questa eredità. Mi sento molto distante da questo mondo e, tuttavia, anche io sono stato teenager con delle motivazioni, dei sentimenti, delle tentazioni riguardo alle arti; ricordo la scoperta delle grandi teorie, dell’impatto che potevano avere. Non voglio trasformarli in artisti, spero che possano appartenere a questo immaginario, a questa realtà. Mi chiedo allora come possano intendere la realtà oggi, immersi come siamo in mondi virtuali, nei social. Vorrei prendere tutto ciò che riguarda la “meta realtà”, il metaverso in cui ci troviamo adesso, che non è il nostro mondo ma ne è parte, e capire come poterlo esprimere e creare un panorama ad esso relativo. Certamente in una dimensione in cui si ha a che fare con la fiction, tutto è un gioco, tutto è distorsione di ciò che crediamo reale. Appunto per questo mi chiedo cosa sia la realtà.

Opening night, foto May Zircus e TNC

Opening night, lo spettacolo presentato a Romaeuropa e di cui parlavamo prima, trae un primo spunto dal film di Cassavetes del 1977, che è profondamente legato a Broadway e al mondo che ruota attorno e dietro allo show business. Il tuo spettacolo può dirsi metateatrale?

Lo spettacolo non ha diretti collegamenti con il film, come dicevo prima semmai quello è un punto di partenza perché come per Cassavetes (e in quel film lo racconta bene), anche per me e per molti altri artisti il teatro ha diversi livelli, la tua vita privata entra a far parte di questo gioco tutto il tempo. Contemporaneamente, il pubblico ama la finzione e in questa dimensione tu sai che quella finzione diventa parte della vita. In una certa misura potrei risponderti di sì, in quanto parlo del teatro in un teatro. Ma non è propriamente uno spettacolo metateatrale, in quanto proviamo ad estendere, a portare lontano questa idea. Non è un pezzo che ha una fine vera e propria, tant’è che all’inizio esordisco con una sorta di ringraziamento come quelli che avvengono alle prime. Partendo da qui, inevitabilmente ho iniziato a mostrare le mie paure, le mie ossessioni; in una certa misura è autobiografico, ma parlo di me nel linguaggio che padroneggio. Credo che in una certa misura il teatro parli sempre di se stesso, in questa occasione forse anche di più.

Sonoma, foto di Anna Fabre

Nei tuoi lavori tu crei spesso una specifica relazione con il pubblico, cosa ricerchi? Quali sono le strategie per intessere questa connessione in maniera originale?

Ogni pubblico è composto da persone ciascuna con differenti individualità, adesso credo che gli spettatori delle arti performative siano molto coscienti, in grado di captare i segni, di anticipare, trovare i segreti o i misteri che sottostanno al processo. Hai molto più di un paio di occhi intenti a guardare uno spettacolo: hai le orecchie, il cuore, lo stomaco, il cervello, tutto lavora assieme. Come fare qualcosa nel 2022 che sia legato al presente inteso come momento unico di incontro? Questa è la domanda. A volte è necessario fare qualche passo indietro e creare qualcosa di molto classico a volte invece spingere su una nuova ondata comunicativa, essere visionari e andare sempre avanti. Se tutto già esiste, l’unica opzione è mescolare cose, far deflagrare insieme immagini, idee per avere nuovi significati e lavorare su nuove direzioni.

In buona parte dei miei spettacoli sono ossessionato dal presente, dall’azione-reazione con il pubblico, da quei momenti in cui l’aspetto finzionale arriva dagli spettatori e quello reale dal palco; credo che sia molto interessante il cambio di prospettiva. Per esempio, in Simulacro (performance dentro a un parco romano pensata in occasione di Fuori Programma Festival, agita in mezzo agli spettatori e dal carattere fortemente immersivo, ndr) l’idea era piuttosto semplice ma nello stesso tempo affascinante. I danzatori erano in mezzo al pubblico senza che questi se ne accorgessero inizialmente, e anche quando danzavano rimanevano sempre in mezzo agli spettatori, spesso diventando pubblico a loro volta. In quel caso realtà e finzione erano la stessa cosa. Anche in Opening night riprendo questo principio ma applicato a uno spettacolo più “standard”, con una disposizione frontale, con un sipario, fiori, testo; tutto è come se fosse una bellissima opera sebbene poi inizia a mutare il punto di vista. Non ho bisogno di cambiare molto, anche perché è molto semplice sbagliare ed esagerare. Mi piace che in questo spettacolo affermiamo che ciò che è finto del teatro ci rende felici perché ci permette di non dover dire bugie, ci troviamo sia noi che agiamo che gli spettatori, tutti nello stesso spettacolo.

Opening night, foto May Zircus e TNC

Cosa rispondi a coloro che ritengono che il teatro sia morto, o che sia solo per una piccola élite?

Credo che sia vivo più che mai dopo la pandemia; tutto il potere che ha la virtualità o il mondo digitale non credo si possano comparare al sentire il calore, il sudore dell’altro. Continuare a fare teatro dal vivo è un atto rivoluzionario. È un luogo in cui possiamo scoprire la realtà di oggi, certamente, in alcuni casi sembra guardiamo un mondo morto, ma quando il teatro è in grado di mostrare l’arte del presente sono convinto riesca ancora a parlare a tutti. Per quanto riguarda la parola “élite” non la ritengo positiva, ovviamente capisco a cosa fai riferimento, perché sembra che sia solo per alcuni; per evitare ciò abbiamo bisogno di imparare quanto le arti performative stiano cambiando velocemente, quanto provino ad essere vicine al cambiamento e al progresso, in termini di composizione e di creatività. Bisogna capire cosa voglia dire fare e guardare teatro oggi. Credo ci siano diversi luoghi, diversi progetti, diverse proposte per cui bisogna avere un approccio organico, non separare tutto in compartimenti stagni perché stai facendo un lavoro “popolare” o “mainstream” contrapponendolo a quello etichettato come “intellettuale” o “cool”, anzi è ancora più controproducente; ciascuno ha bisogno di cose differenti e dobbiamo accettare che ogni approccio è necessario anche perché poi nella realtà tutto precipita insieme.

Essere un artista in Spagna è semplice? Quali sono le principali difficoltà, anche per un artista affermato, da dover superare?

Conosco abbastanza bene l’Italia per poter dire che ci sono molti aspetti in comune; in entrambe le nazioni sono presenti diversi bravi artisti, creatori, danzatori; ci sono alcuni problemi dal punto di vista della presenza spettatoriale, ma quelli principali riguardano soprattutto il supporto da parte della politica, a differenza di quanto accade in Francia o in Germania o Belgio dove gli artisti sono molto più tutelati. Ci sono molti aspetti da poter migliorare. Fortunatamente. io ho trovato negli anni oltre a supporti provenienti da Barcellona o dalla Spagna anche una rete di relazioni e sostegni da parte di altre nazioni europee come Berlino, Roma, Parigi, Londra, perché una nazione da sola non basterebbe.

Viviana Raciti

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Viviana Raciti
Viviana Raciti
Viviana Raciti è studiosa e critica di arti performative. Dopo la laurea magistrale in Sapienza, consegue il Ph.D presso l'Università di Roma Tor Vergata sull'archivio di Franco Scaldati, ora da lei ordinato presso la Fondazione G. Cinismo di Venezia. Fa parte del comitato scientifico nuovoteatromadeinitaly.com ed è tra i curatori del Laterale Film Festival. Ha pubblicato saggi per Alma DL, Mimesi, Solfanelli, Titivillus, è cocuratrice per Masilio assieme a V. Valentini delle opere per il teatro di Scaldati. Dal 2012 è membro della rivista Teatro e Critica, scrivendo di danza e teatro, curando inoltre laboratori di visione in collaborazione con Festival e università. Dal 2021 è docente di Discipline Audiovisive presso la scuola secondaria di II grado.

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