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Uno spettacolo che è una “cosa vuota”, un’opera didascalica

Ctrl+Alt+Canc ha portato in scena al Ridotto del Mercadante di Napoli ()pera Didascalica, vincitore della prima edizione del Premio Leo de Bernardis per artisti e compagnie under 35. Un incontro con la compagnia dopo la visione.

Ph. Mario Ghidelli

«Si resta lì, buttati, davanti agli occhi degli spettatori. […] L’incapacità di rappresentare si fa immagine di un’altra incapacità: quella di vivere.»
Raimonda Maraviglia, Alessandro Paschitto e Francesco Roccasecca fanno parte della compagnia Ctrl+Alt+Canc che a novembre ha portato in scena al Ridotto del Mercadante di Napoli ()pera Didascalica, vincitore della prima edizione del Premio Leo de Bernardis per artisti e compagnie under 35.
Mentre li aspetto nella biblioteca dell’Ex Asilo Filangieri (nel cui teatro autogestito si sono svolte le prime prove dello spettacolo) li ricordo muoversi disperati nel tentativo di trovare una postura. Viene da ridere a pensare che Ctrl+Alt+Canc è lo sblocco da uno stallo del sistema operativo; loro invece da quello stallo non si sono mai mossi.

Ph. Mario Ghidelli

Mi chiedo se è il caso comunicare la resistenza che ho avuto nei loro confronti, il fastidio di dover rimanere immobile a gambe incrociate a fissare gli annunciati fallimenti di ogni intenzione di azione. Mi dico che dovrei farlo. Lo faccio. Mi sorridono, ne sono contenti; Francesco mi guarda e annuisce. Raimonda, ma la chiamano affettuosamente Moma, mi confessa che lei prova disagio in quello che fa in scena. Però poi faccio presente che qualcuno ha riso. La risata è stato un fondamentale spunto di riflessione, e l’abbiamo analizzato ossessivamente: come elemento di fastidio, un richiamo all’attenzione, una risposta fiduciosa, un qualcosa di impensabile, una cura dall’angoscia, una possibilità. «È un rischio che noi ci assumiamo. Questo tipo di spettacolo cambia ogni sera, ed è stimolante dal punto di vista attoriale.», dice Francesco. Comincia tutto con uno «Io sto qui» che poi muta subito in un teso «Ma se mi spostassi lì…», per poi concludere che dopo aver compiuto quel paio di passi non è cambiato assolutamente nulla; per quale motivo muoversi? Non si sa. Quindi si fa un altro tentativo, più rabbioso, ma ugualmente deludente. Forse se ci si mettesse nei panni di qualcun altro, il cambio di prospettiva renderebbe tutto più chiaro? Si scambiano le magliette. Nulla, tutto uguale. E allora perché sono lì? Lo chiedono al pubblico. Cosa ci aspettiamo di vedere? Perché li stiamo fissando, gravandoli del peso di dover sostenere le aspettative del nostro sguardo? Nessuno risponde. «Può capitare che a una domanda non segua una risposta, ed è un dramma. Può capitare invece che a una domanda corrisponda una risposta insoddisfacente, ed è un altro dramma. Bisogna solo scegliere a quale dramma affidarsi. Nessuna domanda è mai pienamente soddisfacibile». I colori nevrotici delle espressioni di Alessandro mi danno la misura dell’onestà della sua scrittura. Continua: «L’obiettivo non c’era. Sono considerazioni che sono sopraggiunte per rimozione. La scrittura ruotava intorno a un vuoto centrale che non andava mai a riempirsi. Non riuscivo a suggerire una forma drammaturgica precisa. Solitamente un testo del genere si abortisce. Ma forse quel niente non andava riempito».

Ph Marco Ghidelli

Il niente è diventato il vuoto; il vuoto è «una cosa vuota». In scena Raimonda la mostra chiaramente. È in un angolo, e lei la perimetra con le mani dall’alto verso il basso. La cosa vuota è sempre stata lì, e tutti la guardiamo aspettando che succeda qualcosa. Ma il confronto con la cosa non genera alcun tipo di accadimento vero; non si può fare altro che stare insieme a lei e muoverla, seguirla, per poi lasciarsi seguire e tramortire. Ancora Raimonda si accascia a terra e con lo sguardo vacuo dice di voler diventare una semplice cosa senza una volontà, poi vorrebbe essere un cane perché quello la voglia ce l’ha e non deve farsela venire. Non c’è una precisa volontà nemmeno in un desiderio di essere. Considero lo sforzo immane di ogni tensione e rilascio muscolare proprio perché in quei movimenti non c’è nessuna proposta comunicativa ma solo un’evidenza di difficoltà a compiersi. Non posso evitare di portarli su qualcosa di più sgradevole: qualcuno dal pubblico, un uomo maturo, ha detto con accondiscendenza che “sono giovani”. Loro lo sono? Lo siamo? Non vorrei abbandonarmi a un possibile fallimento del mio giudizio e della loro azione, ma mi lascio prendere dallo sconforto. Effettivamente, ()pera Didascalica ha primeggiato in un bando per under 35. Era allora previsto il fattore “ingenuità”? Che succede dopo i 35 anni, per cui il confronto assume altre conformazioni? Possibile che i miei tormenti e le mie angustie, la convulsa instabilità di quella cosa vuota che mi rende in alcuni momenti vuota, siano legati a una questione generazionale? Possibile che quei loro movimenti, gli scatti e gli abbandoni, quella stessa traballante instabilità senza soluzione di tregua, si riducano a questo? Restano in silenzio per qualche attimo. Sia Francesco che Alessandro dichiarano tranquillamente di «non lavorare sul piano di identificazione, ma su un punto più intimo». L’assenza di una qualunque costruzione scenica, il più diretto e serrato contatto, quel «compromesso tra la colloquialità da villaggio vacanza e il rigore del mimo corporeo», concedono allo spettatore una completa autonomia di visione. «Ho fatto il personaggio del testo», tutto qui. «Vedano quello che pare più giusto, importante è che guardino»; loro sono, perché scelgono di esserlo, un solo strumento di osservazione talmente malleabile da adattarsi a qualunque occhio e personalità. Me lo dicono, e silenziosamente me lo ripeto e ripeto. Moma si è invece lasciata trafiggere come me, e si stupisce di non averci pensato. È concentrata a lasciarsi lavorare e decostruire da quel corposo copione (quaranta dettagliatissime pagine), tanto da chiedersi, dopo un anno e mezzo di prove, quanto sia stata violentemente permeata dalla scrittura “velenosa” di Alessandro. Non può, in piena rappresentazione, non vacillare quando ripete, dritta e ferma, le parole che il suo compagno, voltato di spalle, le suggerisce: «non potendo aggrapparsi a qualcosa, si aggrappa alla caduta»; non può non commuoversi quando Alessandro apre la finestra sul fondo della platea, defaticando la terribile tensione che ha preso tutti. Non può pensare, e credo sia per un atto di estrema fiducia e amore nei confronti del proprio lavoro e del pubblico, che l’età possa rientrare in una categoria di merito o no.
È delicata e pacata: «Sì, forse quelle parole pronunciate da me possono dare quell’impressione, ma io in realtà voglio credere che ci sia una livellatura tra le età. Voglio pensare che non sia una questione generazionale, ma epocale». Siamo d’accordo. «Considera, però, che questo è ancora un lavoro in costruzione. Prevedo che da qui a un anno ci sarà un ulteriore lavoro di riduzione di almeno un terzo». Limare il gesto naturale fino al nervo, attraversare il disagio, vivere il disagio, far subire il disagio.
Ben venga, che diano fastidio.

Valentina V. Mancini

Novembre 2021, Ridotto Teatro Mercadante, Napoli

( )PERA DIDASCALICA
testo e regia Alessandro Paschitto
con Raimonda Maraviglia, Alessandro Paschitto, Francesco Roccasecca
un progetto di Ctrl+Alt+Canc
in collaborazione con Theatron 2.0
produzione Teatro di Napoli – Teatro Nazionale
realizzato con il sostegno di C.U.R.A. Centro Umbro di Residenze Artistiche, Micro Teatro Terra Marique, Corsia Of-Centro di Creazione Contemporanea
foto Marco Ghidelli

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