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HomeArticoliCultura non è star sopra un albero. Mejerchol'd e il teatro dell'avvenire

Cultura non è star sopra un albero. Mejerchol’d e il teatro dell’avvenire

Siamo partiti da L’ ottobre teatrale 1918-1930, con gli scritti di Vsevolod Ėmil’evič Mejerchol’d, a cura di Fausto Malvocati, edito da Cue Press per una riflessione sulla rivoluzione teatrale russa, con uno sguardo al nostro presente. 

Il teatro è un’arma con la quale non si può scherzare, diceva Mejerchol’d. Un’arma pericolosa. Forse, potremmo aggiungere, innanzi tutto per sé stessi.

È il 1930, siamo in Russia. Lenin è morto da sei anni, ma il sogno del socialismo sovietico, il mito della grande Rivoluzione d’Ottobre, ancora vive, florido, nelle mani e nelle opere delle avanguardie artistiche. Ejzenstein già si dedica ai primi esperimenti cinematografici, Majakovskij morirà di lì a poco, ma per ora è ancora vivo, e la sua attività drammaturgica si è consolidata. In generale si parla di Costruttivismo: l’arte non ha più sé stessa come finalità ma deve farsi tramite e componente attiva nella costruzione del “nuovo mondo socialista”. Cue Press ha pubblicato, lo scorso gennaio, l’edizione rivista e ampliata de L’ottobre teatrale 1918-1930 con gli scritti di Vsevolod Ėmil’evič Mejerchol’d a cura di Fausto Malvocati.

Mejerchol’d non si dedicò mai in maniera organica alla scrittura: quello che rimane sono interventi, lezioni, discussioni spesso concise e fulminanti, trascritte da uditori non meglio identificati. Se L’attore biomeccanico, sempre pubblicato da Cue Press, racchiude in un breve volume gli schematici appunti sulla teoria per cui questo autore è spesso e volentieri ricordato, la biomeccanica, il nuovo volume si prefigge, riordinando materiali così eterogenei, di gettare uno sguardo più ampio sulla poetica-politica dell’artista russo, tenendola saldamente in relazione al contesto in cui essa si sviluppa e va, via via, dettagliandosi. L’Ottobre Teatrale è la narrazione della rivoluzione – e del suo fallimento – attraverso gli occhi del teatro. Mejerchol’d non è soltanto uno degli autori e – anche se inconsapevolemente – teorici più influenti del suo tempo: la sua curiosità, il suo spiccato spirito critico, lo portarono a mantenere un contatto sempre costante e affiatato con le pratiche e le teorie contemporanee; ai suoi allievi, così come alle conferenze e nei teatri in cui è invitato, parla della Russia e dell’Europa, della Francia e dell’Italia (quest’ultima in particolare, lo vedremo); continuamente tende relazioni tra teorici come Craig e, ad esempio, la vecchia guardia sovietica: Stanislavskij, Il maestro dapprima rifiutato, certo, poi superato ma, infine, riscoperto e rivalutato. Il risultato è un quaderno di appunti folgorante, agile e variopinto, un compendio sottile per gli attori, ma anche incredibilmente prezioso per registi e critici.

Gli argomenti affrontati da Mejerchol’d nei suoi interventi sono numerosi, ma tutti hanno un denominatore comune: la rivoluzione. Non si può riflettere sulla sua opera senza considerarla nel contesto non tanto della rivoluzione sovietica (fondamentale invece per quanto riguarda i contenuti della sua poetica) ma, più in generale, nel contesto dello stato di rivoluzione: questo coinvolge, una dopo l’altra, le componenti della scena. Il lavoro sull’attore, la biomeccanica, è qui solo uno dei momenti, per giunta preliminare, di una ricerca tutta volta alla fondazione non di una nuova pratica, ma di una completamente nuova, dalla disposizione di poltrone e camerini all’ideologia e alla drammaturgia, in grado di farsi “piazza d’armi per la fondazione dell’uomo nuovo”.

Tra questi materiali ho scelto di concentrarmi sul capitolo La ricostruzione del teatro (1929-1930), una brossura che raccoglie una serie di interventi di Mejerchol’d inerenti ai problemi di progettazione e costruzione di un teatro, apparsi separatamente nel corso del 1929. Qui l’autore si concentra sulla rigenerazione del fenomeno teatrale, partendo innanzi tutto dal suo rapporto con un nuovo e pericoloso concorrente: il cinema.

«Stiamo entrando in una fase nuova della drammaturgia, stiamo costruendo una nuova forma di spettacolo in cui il conflitto tra cinema e teatro è inevitabile. […] Nel cinema, il fascino esercitato dallo schermo sullo spettatore non è stato più sufficiente. […] Il pubblico ha preteso che l’attore, idolo del cinema muto, cominciasse finalmente a parlare». E conclude con parole anacronistiche: «Non vi sembra che dal momento in cui il film ha cominciato a essere parlato, l’importanza internazionale del cinema abbia cominciato a vacillare?». Egli non poteva davvero immaginare i problemi del nuovo millennio.

Il limite tra teatro e cinema non si pone tanto, per Mejerchol’d, sulla questione della presenza fisica delle parti, tanto meno sulla compresenza di spettatori – egli non può immaginare, infatti, l’esistenza di dispositivi che prevedano la fruizione individuale di qualsivoglia contenuto artistico. E il nodo della questione non è nemmeno, in realtà, la presenza fisica dell’attore, tant’è che l’evoluzione del cinema muto in cinema parlato rappresenta, per lui, un processo di teatrificazione dell’attore cinematografico. Il punto, per Mejerchol’d, sta nello spettatore in quanto individuo e in quanto co-attore dello spettacolo. Nel nuovo mondo comunista, l’operaio alimenta tramite l’arte il proprio bisogno di contribuire al progresso della società. È parte attiva, integrante e indispensabile, di questo processo. L’attore stesso è, ben prima di essere attore, operaio, e deve dedicarsi al teatro nella misura in cui anche lo spettatore si dedica ad esso. È chiaro come Mejerchol’d riprenda, mitizzandola, l’impostazione classica del teatro come spazio della società deputato alla costruzione e al miglioramento della società stessa, in cui ad agire, insieme, in maniera complementare, non sono attori e spettatori, bensì cittadini. In questo caso, proletari.

Le armi che vengono suggerite per assicurare la vittoria del teatro sul cinema ci si presentano come inattese e imprevedibili: «Noi stiamo costruendo un teatro che farà concorrenza al cinema, lasciateci solo portare a termine la nostra ‘cineficazione’ del teatro, lasciateci sperimentare sulla scena i mezzi tecnici dello schermo cinematografico (non nel senso che appenderemo uno schermo in teatro), lasciateci preparare un palcoscenico attrezzato con la tecnica più moderna, in grado di risolvere tutte le esigenze di uno spettacolo teatrale e a quel punto, vi daremo degli spettacoli che attireranno un pubblico non inferiore a quello dei cinematografi».

Ebbene sì: per competere con il cinema, il teatro del socialismo sovietico, dell’ideologia marxista, deve necessariamente ricorrere all’industrializzazione dei propri mezzi. Mejerchol’d parla specificatamente di taylorizzazione del processo di produzione teatrale: se organizzato meticolosamente, secondo gli standard della razionalizzazione socialista, deve essere l’ambiente di lavoro dell’operaio, altrettanto deve esserlo il suo ambiente di riposo. Un teatro che voglia coinvolgere la grande massa deve saper utilizzare con maestria tutte le conquiste tecniche. Tecnologia e ideologia devono stare sullo stesso piano, «il come è importante quanto il cosa». “Cineficazione del teatro”: un’espressione che, se isolata dal suo contesto, in questo preciso momento storico potrebbe farci rabbrividire, suonare come forzatamente contro corrente e provocatoria. Questo processo, per Mejerchol’d, dipende da una riorganizzazione globale del teatro e, soprattutto, dell’edificio teatrale. Una nave, così gli architetti devono immaginare il nuovo teatro: una nave con tiri di carico agili, con scene meccaniche che permettano di accelerare i processi di rappresentazione. Una platea ad anfiteatro e, soprattutto, un palscoscenico aperto per rendere sensibile la compresenza di attori e spettatori, per facilitare il loro percorso di collaborazione. Mejerchol’d dimostra un’attenzione affettuosa nei confronti dei lavoratori: i cambi scena devono essere rapidi, il buffet deve essere sostituito con il bancone all’italiana e gli atti trasformati in episodi in modo che il pubblico non debba correre per poter prendere l’ultimo tram. I camerini, ampi e attrezzati con docce, devono essere adiacenti al palco per permettere all’attore di seguire l’azione scenica e, soprattutto, per evitare che l’attore “si stanchi il cuore” correndo su e giù per le scale scoscese di un retropalco. Avveniristico, utopistico, senz’altro. Il teatro della parola e del movimento sarà competitivo solo quando avrà conquistato l’autonomia dei propri mezzi tecnici e, allo stesso tempo, ci dice Mejerchol’d – lasciando a noi non troppe speranze – si imporrà soltanto quando il sistema socialista si sostituirà a quello capitalista.

Nello stesso testo Mejerchol’d fa un appunto particolarmente interessante per quanto riguarda l’Italia – paese della cui tradizione teatrale, soprattutto rispetto alla Commedia dell’Arte (parteggiando per Gozzi e non per Goldoni), egli fu avido studioso e ammiratore. Dice: «Due o tre anni fa, viaggiando per l’Italia ho potuto constatare, con mio grande stupore, che in questo Paese, dove era nato lo splendido teatro dell’improvvisazione, […] oggi, il teatro non esiste. […] Le radici del teatro italiano sono sane, ma manca un’organizzazione capace di prendersi cura di questa tenera pianticella e di impedire che muoia soffocata».

Condanna Marinetti e il futurismo, il cui motto “Abbasso le tradizioni!” tradisce quel bisogno di spettacoli, quella formula, panem et circenses che, secondo Mejerchol’d, è di forte attualità: «Chi, allora, ha sfruttato questa particolare inclinazione del popolo italiano per un teatro puro, per un teatro di strada, per una teatralità festosa dalle forti tinte? I rappresentanti della Chiesa».

È il Papa – qui non senza l’ironia di un socialismo che dalla Chiesa Cattolica era stato ufficialmente disconosciuto – il più grande e abile dei registi, autore di un teatro solenne e insieme triviale, sensazionale, «per il quale si spende tanto danaro». Il Papa e, in coda, Mussolini: il fascismo che tende la mano alla Chiesa, il duce che non ci pensa proprio a costruire teatri e stadi, che «è pronto ad alternare le sue parate militari alle processioni cattoliche. Non gli occorrono teatri, gli basta poter disporre di un “regista” come il papa. I direttori dei teatri italiani potrebbero mai competere con uno spettacolo di questo genere? A chi serve un teatrino in un piccolo vicolo in cui c’è posto solo per qualche centinaia di persone?».

Abbiamo visto le immagini di Papa Francesco, solo nello sterminato piazzale berniniano, invocare la benedizione urbi et orbi; quelle immagini che sono state dichiarate tra le più potenti del nostro nuovo giovane secolo. E, del resto, il discorso del rapporto tra arte e potere e della politica trasformata in spettacolo è un discorso che certo, nel nostro Paese, non finisce con il fascismo (laddove si riesca a teorizzare una fine del fascismo). Basti pensare a come il rapporto tra spettacolarità e politica si è voluto partendo dai primi governi Berlusconi, fino alle piattaforme web, tipiche degli influencer, su cui gli attuali esponenti hanno trasferito le proprie performance elettorali.

Si virtualizza la politica, così come si virtualizzano le nostre relazioni e interazioni sociali. Può virtualizzarsi il teatro? Se, così come per Mejerchol’d il problema non risiede nel medium attraverso cui lo spettacolo passa, la presenza o meno di uno schermo, così potremmo assumere che forse la nostra esperienza culturale non dipende dal dispositivo che utilizziamo. La questione della cultura sembra qui essere, a tutti gli effetti, una questione di partecipazione. Il teatro, negli interventi mejercholdiani, coinvolge lo spettatore intellettualmente ma anche, e questo non va dimenticato, emotivamente. Lo spettatore è tale, e solo così può godere del proprio ruolo, non quando assiste ma quando partecipa attivamente e consapevolmente al completamento e alla realizzazione dello spettacolo. Mejerchol’d lo ricorda spesso, con insistenza, ai propri allievi: non è necessario che leggiate innumerevoli libri; anzi quando leggete, interrompete la lettura e cercate da soli di continuare la storia. Dovete viaggiare, che sia per il mondo o per le strade di Mosca, nel vero senso della parola. Cultura non è star sopra un albero: un’esperienza culturale non è acquisizione passiva di contenuti ma è partecipazione attiva, intellettuale ed emotiva: necessariamente corpo.

Angela Forti

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Angela Forti
Angela Forti
Angela Forti, di La Spezia, 1998. Nel 2021 si laurea in Arti e Scienze dello Spettacolo presso La Sapienza Università di Roma, con un percorso di studi incentrato sulle arti performative contemporanee. Frequenta il master in Innovation and Organization of Culture and the Arts all’università di Bologna. Nel 2019 consegue il diploma Animateria, corso di formazione per operatore esperto nelle tecniche e nei linguaggi del teatro di figura. Studia pianoforte e teoria musicale, prima al Conservatorio G. Puccini di La Spezia, poi al Santa Cecilia di Roma. Inizia a occuparsi di critica musicale per il Conservatorio Puccini, con il Maestro Giovanni Tasso; all'università inizia il percorso nella critica teatrale con i laboratori tenuti da Sergio Lo Gatto e Simone Nebbia e scrivendo, poi, per le riviste Paneacquaculture, Le Nottole di Minerva, Animatazine, La Falena. Scrive per Teatro e Critica da luglio 2019. Fa parte della compagnia Hombre Collettivo, che si occupa di teatro visuale e teatro d’oggetti/di figura (Casa Nostra 2021, Alle Armi 2023).

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