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Roberta Nicolai: “TDV13 è un prisma”

TDV13 Teatri di Vetro è la rassegna che dal 6 al 22 dicembre 2019 presenterà alla città di Roma e per la tredicesima edizione una proposta plurale: quattro sezioni per dialogare con la creazione contemporanea e ingaggiare spazi e contesti territoriali. La direttrice Roberta Nicolai ci spiega la sua operativa, e autoriale, curatela al progetto. Intervista realizzata in mediapartnership

Cos’è la scena contemporanea oggi e di cosa ha bisogno?

“Appartiene veramente al suo tempo, è veramente contemporaneo colui che non coincide esattamente con esso né si adegua alle sue pretese ed è perciò, in questo senso, inattuale; ma proprio per questo, proprio attraverso questo scarto e questo anacronismo, egli è capace più di altri di percepire e afferrare il suo tempo”.

[ndr G.Agamben, Che cos’è il contemporaneo, in Nudità 2009]

Questa definizione – autorevole e condivisa – non risolve i problemi di individuazione né la questione della pluralità e contrapposizione delle poetiche. Delimita l’oggetto e ci costringe ad affrontarne la complessità. La scena contemporanea non è un corpo unitario, non è un unico movimento. È una lista promiscua, composta di corpi dissimili in cui insistono a diversi livelli strati dei molti passati e spinte verso i futuri possibili. Che indica allora questo verbo essere? In cosa possiamo individuare o riconoscere o ricercare l’identità di un oggetto che definiamo come fosse unitario, come fosse uno – e invece sono molti? È un problema antico che il teatro risolve solo dall’interno della scena.

C’è una bellissima storia che Marjane Satrapi riporta in Pollo alle prugne. A cinque uomini viene chiesto di entrare in una stanza buia dove è rinchiuso un misterioso animale. Ad ognuno viene dato il compito di definire l’animale attraverso il tatto. Un uomo dice che è un enorme tubo; un altro che è una colonna; un altro corregge – le colonne sono quattro, le ho contate!; il quarto uomo dice – è un grande ventaglio; l’ultimo – vi sbagliate tutti! è una sedia.

Poi viene accesa la luce. E appare l’elefante.

In attesa della grande luce che impedisce all’oggetto di restare al buio, scelgo una prospettiva che possa autorizzare e rendere possibile un’operatività, cioè un’azione. Scelgo di accendere una lampadina che illumini la natura interna, la più fragile e dinamica.

La scena contemporanea, vista da questa prospettiva, è quell’atto poetico – e poietico – in cui l’assertività lascia spazio alla relazione; l’organismo prende spazio e restituisce corpo allo spettacolo, esponendo, saturandone gli stati; le discipline tendono a dissolversi e le barriere, i confini, i muri cadono sotto le azioni di cassette degli attrezzi fatte di strumenti e strumentazioni difformi; gli archivi individuali e quelli collettivi si intrecciano e la scena cerca ancora di essere come cosa viva. Vista da lì non ha bisogno che del proprio respiro. Di essere un corpo che respirando esiste. Come uno strano misterioso animale.

Quali sono stati i punti fermi che hanno caratterizzato Teatri Di Vetro nel corso degli anni e quali ti sei trovata a rimodulare? Per ragioni estetiche o legate a contingenze sociali, economiche, urbanistiche?

La conoscenza. Pratica e teorica. Questo il punto fermo. L’incursione di TDV nella mia vita – personale oltre che artistica – ha prodotto una trasformazione profonda spostando il mio sguardo su ciò che si muoveva fuori di me. Sguardo-conoscenza-parola. Questo è quello che rimane. Le trasformazioni in 13 anni sono state moltissime e causate da reticoli di ragioni e contingenze: cambiamento di luoghi, teatri, territori, mappe. Ma l’esigenza ultima, quella che ci porta al centro di questo triennio 2018-20, e che si esprime con la radicalizzazione dell’architettura progettuale in direzione delle sue stesse ragioni profonde, nasce dalla scena, dalle pratiche della scena e dalla convinzione che solo intervenendo materialmente in quel territorio, in quel campo di gioco e indagine, è possibile ricavarne teorie e farne parola e pensiero. Qualcosa di cui possiamo lasciare traccia. Qualcosa che possiamo trasmettere.

Oggi TDV è un prisma. Se guardi solo una faccia vedi un festival. Se riesci a guardare tutte le facce – ma è un’azione complessa poco in asse con l’imperio delle semplificazioni – vedi quello che è realmente, un campo di ricerca e di azione al tempo stesso. Un progetto fatto della stessa materia dei suoi oggetti. Sembra una battuta teatrale. Ma la domanda quando si alza il sipario, o si accende una luce o ancora da vuoto il palco diviene abitato da un corpo o da un’ombra – continua ad essere – Chi va là?

Il rapporto con la città di Roma: è ancora in grado e se sì perché, di accogliere una proposta artistica? Può ancora rendersi attraversabile e come?

Ogni rapporto è basato sulla reciprocità. E ogni proposta artistica – che lo sia integralmente – non può appiattirsi in direzione dello stratagemma. Se tratto la mia città con il rispetto dovuto ad un organismo. Arrivare alla città, arrivare al pubblico e coinvolgerlo hanno un punto di rottura proprio là dove corrompono la proposta artistica piegandola a necessità – del sistema, della società. Ho scelto di preservare l’autonomia dell’arte. È una scelta che ha pochi margini di deroga. Non si può essere contemporaneamente Basilio e Rosaura, il potere che sposta il piano della realtà e il corpo che è spostato. È una scelta poetica, estetica e quindi politica.

Oggi posso dire che creare o rinnovare questo rapporto con una città ormai inconoscibile, annaspante, confusa, è molto difficile. Siamo interlocutori che non ci conosciamo. E quindi la mia scelta è di innescare una proposta senza cedere su ciò che abbiamo di davvero prezioso. Così soprattutto là dove ci sono spettacoli che coinvolgono i cittadini – come nella programmazione del Teatro del Lido – la necessità nasce dai progetti artistici e il coinvolgimento non è strumentale ma interno ai processi di creazione che senza quelle incursioni dall’esterno sarebbero più poveri e manchevoli.

Quale ti auspichi sia la relazione che deve intercorrere tra un operatore e un artista?

La parola operatore è ormai troppo generica.

Non posso dire quale debba essere la relazione tra chi opera – artista e operatore. Posso dire che ho cercato di comprendere il posizionamento del mio sguardo perché fosse interno ed esterno al tempo stesso, lo sguardo di chi si prende in carico la narrazione. Quello sguardo non è da nessun luogo. È dentro quel sistema e da lì sono possibili osservazioni reciproche. Posso concepirmi operatore esclusivamente in questo modo. Per questo con gli artisti il confronto è sempre in atto e se avvio una relazione nuova, il dialogo comincia un anno e mezzo prima che si realizzi un’operatività condivisa. Non do per scontato che l’artista aderisca alla mia proposta, così l’artista non può pensare di esercitare un diritto alla distribuzione… non con me. Si tratta di avere il desiderio di lavorare insieme. Serve adesione reciproca, serve tempo, investimento di energia, molti viaggi. Metterci un pezzo di vita.

Come è nata la necessità di sviluppare, per questa edizione di TDV, una programmazione basata sulla restituzione di diversi processi di creazione?

L’attuale progettazione ha un respiro triennale. Per approfondire, riprendo un mio concetto che ho accennato in precedenza:

Dalle pratiche – il tempo trascorso nell’osservazione, nell’analisi, nello scambio e rilancio a contatto con gli artisti e con le loro creazioni – è nata l’esigenza di predisporre un luogo che potesse essere generativo e al tempo stesso ricettivo, esso stesso fatto della stessa materia dei suoi oggetti: un’architettura progettuale che costruisce nella direzione dettata dai suoi oggetti e – nella reciprocità – oggetti artistici che si muovono nella direzione di un’architettura progettuale. Un’azione congiunta per superare l’unicità della nozione di opera, affiancarla con quell’operatività dell’artista e quell’operazione del fare scena considerando i singoli gesti come il proprio primo materiale. Nell’atto, nel fare, nel gesto c’è un fremito, uno scarto, un fallimento. Sopravvive l’irrisolto, il dubbio, l’incerto. Marca la differenza con chi esibisce forza, potenza, certezze. Manca quell’appuntamento e così ci riguarda, tocca il nostro vivere nel presente. In ogni presente.

Coltivo. Nella fiducia che alla radice di ciò che chiamiamo contemporaneo possiamo rintracciare un atto originario, capace di farsi fondativo e salvifico rispetto alla dispersione fenomenologica e che questo atto fondativo debba avere le caratteristiche della sottrazione, del dolore, della resistenza interna tale da porre l’opera nell’ordine del mai finito e parte di un crocevia in cui accanto alla sintesi poetica continuano a manifestarsi i suoi resti, residui, macerie e che solo così, con l’affermazione della sua stessa fragilità, parzialità, del suo fallimento, la scena che siamo possa farsi epifanica per gli uomini e le donne del nostro tempo e possa andare avanti, in un moto continuo, verso la propria origine, verso l’unicità del proprio balzo nella Storia.

[ndr R. Nicolai, Oscillazioni, in C. Tafuri, D. Beronio (a cura di), Teatro Akropolis. Testimonianze ricerca azioni, vol. 10, Genova, AkropolisLibri, 2019, pp. 14-17].

Come può essere presentata questa fotografia in itinere anche a un pubblico “vergine”, che non è messo a parte di tutte le riflessioni sul teatro come “processualità di pratiche” e non solo come spettacolo “fatto e finito” che dal Novecento a oggi ha caratterizzato la ricerca teatrale e performativa?

Il teatro – il teatro e la danza – non sono quel gesto di andare in un luogo per vedere uno spettacolo, giudicare se è bello, brutto, carino o interessante. Questa attitudine – o abitudine – è figlia di un inaridimento delle pulsioni vitali da cui il teatro ha origine. Il teatro ci ri-guarda, ci restituisce lo sguardo, ci dice chi siamo. Andare a teatro è viversi, vivere la propria vita. Se poi il teatro invece di confezionarsi in forme precostituite e rassicuranti si spoglia e si destruttura davanti ai tuoi occhi, il regalo che ricevi come spettatore è immenso. È un dono in forma di carne e sangue. Siamo noi. Ognuno e tutti.

Non è difficile viverlo. È un po’ più difficile capirlo. Perché, come su ogni cosa, sul teatro è stato esercitato un potere – che quasi mai è dei migliori. Il ‘900, tra orrori e meraviglie, in realtà ha sviluppato infiniti anticorpi che noi abbiamo rimosso tornando ad una società altamente iniqua con eclatanti differenze sociali, con valori esili e slogan strumentali. In questo contesto culturale è sempre più difficile fidarsi gli uni degli altri.

Tengo caro il pensiero di Walter Benjamin: “Egli vuole la felicità: il contrasto in cui l’estasi dell’unicità, della novità, del non ancora vissuto, è unita a quella beatitudine della ripetizione, del recupero, del vissuto. Perciò egli non ha speranza di novità per altra via che non sia quella del ritorno, quando conduce seco un nuovo essere umano.”

[ndr W. Benjamin, Agesilaus Santander, in Gershom Scholem, Walter Benjamin e il suo angelo, Adelphi 1978, p.24]

Redazione

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