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Danio Manfredini: solo se è incerta l’arte rivela

Intervista a Danio Manfredini, in questi giorni in scena al Teatro di Roma con Al presente e Luciano; due spettacoli che, a distanza di vent’anni l’uno dall’altro, mantengono un legame profondo.

Al centro del teatro di Danio Manfredini vi è l’uomo, l’eterna tensione  tra incontro e solitudine. Manfredini, folgorato da La classe morta di Kantor a soli 18 anni, ha chiaro il valore della maschera, il potere vivo del “simulacro”; si interroga su come dar forma materica alle immagini, alle emozioni in grado di muoverci. Il teatro, ci racconta, per esprimere qualcosa non può farlo attraverso la certezza dell’imposizione, ma solo in un puro stato di incertezza. Grazie al “coraggio alla fragilità” come dichiara il suo quarto Premio Ubu. Lo raggiungiamo telefonicamente durante una pausa dalle prove di Luciano.

Nel nostro sistema teatrale mantenere un proprio repertorio è un’operazione sempre più difficile. Tu resisti a questa logica della produzione seriale, dai tempi velocissimi; le tue produzioni hanno una lunga gestazione e non sono rare le riprese di spettacoli precedenti. Al presente è un’opera che ha più di vent’anni; l’ultima, Luciano, è del 2017: come vivi questo passaggio temporale? C’è qualcosa che rimane filtrato, che si è trasformato nel corso del tempo?

Al presente, Foto di Ulisse Cannone

Per quanto riguarda la prima questione che poni, ritengo inaccettabile la dimensione imposta dal decreto ministeriale, la trovo vergognosa. Gli spettacoli che vengono fuori non possono essere di grande qualità. Non per un problema degli artisti, ma perché è difficile lavorare a queste condizioni, in tempi brevi ma soprattutto con testi o attori su cui non si ha libertà di scelta… Questa è la logica proposta oggi e gli artisti sono chiamati a essere soltanto manodopera a servizio del sistema. Sappiamo benissimo che la distribuzione è basata su logiche esclusive: se non sei dentro a quel gioco rimani fuori, non trovi dove andare. Se parliamo poi delle grandi città è deprimente che i grandi centri non paghino i cachet e che lo spettacolo debba andare a incasso; ma se non pagano coloro che prendono più soldi dal Ministero, chi è che deve pagare? Apri una ferita aperta in questo momento, su questa questione, lo dico chiaramente perché non bisogna tacere su come vanno le cose oggi. Probabilmente figure come me sono destinate a sparire perché non ci stanno dentro a questo tipo di gioco, io ho ancora rispetto del mio lavoro e del teatro; poi non è detto che la cosa che fai venga bene ma devi avere le condizioni per cui possa accadere.

Riguardo Al Presente l’avevo lasciato per un po’ di tempo, poi La Corte Ospitale mi ha chiesto di riprenderlo e non sapevo neanch’io come avrei rivisitato quel lavoro. E invece mi attraversa ancora in maniera viva, anche se ovviamente sono cambiato io, sono cambiate le percezioni, è cambiata l’età, lo sguardo sul mondo: non siamo uguali, forse proprio per questo. Le tematiche che vengono attraversate possono andare dai ricordi alle immagini, da stati d’animo a fantasie; sono dei piani della coscienza sempre presenti e che, a seconda del tempo in cui sei, reagiscono dentro di te in un certo modo. Lo spettacolo è la risultante di una sorta di “espressione del tuo presente”.

Il tempo è sempre una questione importante nel nostro lavoro. Luciano mantiene un parallelo con Al presente: è sempre un lavoro che tratta il tema della coscienza. Questa volta in scena il protagonista è un paziente psichiatrico che nei corridoi di un ospedale sopravvive, divagando nell’immaginazione, nei ricordi e in quelli che potrei chiamare i “colori dell’anima” [Al presente  nasceva anche in seguito al suo essere stato a lungo operatore negli ospedali psichiatrici, ndr]. Evoca delle situazioni abitate da presenze come tossicodipendenti, omosessuali…


È molto presente in questo spettacolo la dimensione dell’omosessuale, ma parlo della questione più ostica da vedere e da cogliere, che è la condizione di solitudine, che si rivela nei parchi di notte, nei cessi di stazione o nei cinema a luci rosse. Questa è una dimensione difficile da vedere e che si distanzia da una morale comune. Luciano è una figura un po’ estranea che trasversalmente entra i questi mondi, un po’ dentro un po’ fuori, mantiene uno sguardo di accoglienza, non di giudizio e di condivisione, in grado di cogliere e di relazionarsi con queste diverse solitudini. Ovviamente, poi, sono sempre interessato allo specifico di qualcuno: tutte le presenze che sono dentro lo spettacolo, interpretate da Ivano Bruner, Cristian Conti, Vincenzo Del Prete, Darioush Forooghi e Giuseppe Semeraro, assumono le varie parti immaginifiche attraverso le maschere, i fantasmi della mente di Luciano, che invece è un personaggio realmente esistito, qualcuno che ha davvero attraversato la mia vita.

Mi racconteresti allora qualcosa di più sul processo creativo con cui dai vita ai tuoi spettacoli?

Io lo considero un viaggio nel tentativo di cogliere per me quel casino che ci portiamo dentro, un flusso inarrestabile, poco rivelato che col mio lavoro provo invece a far emergere: portare alla luce questo invisibile che si muove con noi e che continua a muoverci. Poi, che uno abbia quel tipo di immaginario oppure un altro, è sempre relativo.

Parlando ad esempio di Luciano, sono arrivato in sala con una serie di disegni e di annotazioni legata a dei mondi immaginifici che in qualche maniera percepivo sarebbero potuti andare in scena; dunque abbiamo cominciato a dare forma a questi quadri. Abbiamo iniziato a incarnare queste figure su carta e poi piano piano ho compreso che serviva qualcuno che potesse cucire il tutto; non “Danio” ma una figura diversa da me che potesse dare però uno sguardo che fosse accogliente ma anche esilarante, tragico e comico al contempo, dunque la figura di questo paziente mi è venuta in aiuto per cercare di trovare quale fosse il filtro di quello sguardo. Siamo arrivati a una sempre maggiore definizione dei quadri, dei movimenti, del testo e della luce. Poi certo, poterlo replicare vuol dire poterlo sedimentare, perché è un lavoro molto nuovo quindi c’è bisogno di replicare.

Due aspetti fondamentali che hai già citato sono da una parte l’uso della maschera spesso presente nei tuoi lavori e dall’altro l’uso della pittura, che dalla trasparenza dei tuoi acquerelli spazia all’inchiostro più denso. In quale rapporto si trovano con gli spettacoli che crei?

Acquerello di Danio Manfredini per Al presente

Da un lato mi capita di fare dei disegni preparatori che diventano una suggestione per gli attori, un modo per poter trasmettere una percezione, un carattere, uno stato d’animo da poter leggere nei tratti, nei colori che abbiamo sulla carta; quando iniziamo a lavorare sulla scena capita a volte che ridisegni in seguito per come il tutto ha preso forma sul palco, come un tableau successivo.

Per quanto riguarda le maschere, in questo caso ne avevo preparate alcune prima che iniziassero le prove, per vedere se effettivamente l’uso della maschera fosse plausibile oppure se lavorare con gli attori a faccia nuda o con dei trucchi; ma siccome i personaggi erano molti e i cambi rapidi, alla fine si è rivelata più adatta la dimensione della maschera. Dunque, questa scelta corrispondeva da una parte a un’esigenza scenica, ma anche a anche a una drammaturgica, poiché essendo quelle delle figure fantasmatiche, alcuni sono già morti altri presenze della memoria, la dimensione maschera portava immediatamente a quel piano altro.

In un’intervista di qualche anno fa hai parlato della tua visione del teatro come di un’arte incerta: quale forza si cela in questa mancanza di certezze?

A parte l’incertezza della situazione economica in cui viviamo sempre, siamo in molti a dover lavorare così. Non solo per la nostra categoria, la questione fondamentale è che il teatro è un’arte che ha da dire qualcosa in ogni epoca. Ci sono delle figure che sono in grado di portare alla luce che cosa, in questo momento, il teatro ha da dire. Poi, se lavoriamo con la forza della nostra volontà, e vogliamo imporre le nostre visioni, le nostre idee o i nostri modelli culturali vogliamo rendere l’arte certa, ma solo quando è incerta, solo quando è in uno stato di ascolto, di disarmo e di non volontà che l’arte può diventare ricettore, rivelando davvero.

Nell’altro caso è forzata, imponiamo una visione personale che crea dei fenomeni culturali, però il teatro è diverso da una interlocuzione associativa. Il teatro ha una dimensione popolare che non andrebbe persa, con questo non intendo che devi fare la commediola per intrattenere e basta. Per quanto possa essere complessa la tua proposta, deve essere abbordabile e coinvolgente anche per il popolo, anche se non è semplice quello che stai mettendo in scena non devi essere criptico. Il teatro chiede di essere espresso, ma l’espressione dell’identità teatrale richiede di astenersi dalle imposizioni della volontà dell’artista.

Mi racconteresti di uno spettacolo che ha segnato particolarmente il tuo modo di vedere il teatro?

La prima volta che vidi uno spettacolo in teatro fu La classe morta di Tadeusz Kantor, avevo diciotto anni, credo che quello spettacolo fu davvero significativo per me, così come tutti gli spettacoli di Pina Bausch, e in particolare Café Müller; l’ultima musica di Luciano viene da là.

Viviana Raciti

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Viviana Raciti
Viviana Raciti
Viviana Raciti è studiosa e critica di arti performative. Dopo la laurea magistrale in Sapienza, consegue il Ph.D presso l'Università di Roma Tor Vergata sull'archivio di Franco Scaldati, ora da lei ordinato presso la Fondazione G. Cinismo di Venezia. Fa parte del comitato scientifico nuovoteatromadeinitaly.com ed è tra i curatori del Laterale Film Festival. Ha pubblicato saggi per Alma DL, Mimesi, Solfanelli, Titivillus, è cocuratrice per Masilio assieme a V. Valentini delle opere per il teatro di Scaldati. Dal 2012 è membro della rivista Teatro e Critica, scrivendo di danza e teatro, curando inoltre laboratori di visione in collaborazione con Festival e università. Dal 2021 è docente di Discipline Audiovisive presso la scuola secondaria di II grado.

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