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Teatrosofia #89. Il mito di Sisifo di Crizia. Un inganno a fin di bene?

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IN TEATROSOFIA, RUBRICA CURATA DA ENRICO PIERGIACOMI – collaboratore di ricerca post-doc e cultore di storia della filosofia antica presso l’Università degli Studi di Trento – CI AVVENTURIAMO ALLA SCOPERTA DEI COLLEGAMENTI TRA FILOSOFIA ANTICA E TEATRO. OGNI USCITA PRESENTA UN TEMA SPECIFICO, ATTRAVERSATO DA UN RAGIONAMENTO. Il numero 89 presenta alcune ipotesi su alcuni versi di Sisifo, personaggio di un’opera attribuibile a Crizia, oltre a quel dramma satiresco omonimo di Euripide

La riflessione dei sofisti Protagora e Damone ha avuto modo di esaltare il carattere edificante della poesia sul piano politico. Questi risultati hanno potuto mostrare, per estensione, come la Sofistica potesse ambire a generare la virtù sotto il paravento dell’arte. Un’altra figura che si situa bene in questo alveo culturale è il sofista Crizia. Considerato sin dall’antichità un personaggio politico importante ma controverso, soprattutto per essere stato uno dei Trenta Tiranni, filo-spartano e attentatore del regime democratico di Atene, egli risulta oggi interessante soprattutto per le sua attività poetica.

Crizia fu infatti sicuramente un valente autore di poesie. Forse scrisse anche almeno quattro drammi teatrali (Tennes, Radamanto, Piritoo, Sisifo). Questi ultimi sono in realtà attribuiti più spesso dalla tradizione a Euripide, pur a volte con il sospetto che siano testi spurii. Dei primi tre drammi, solo il Piritoo è considerato da Ateneo di Naucrati come di possibile paternità di Crizia. La faccenda è invece più complessa per quel che riguarda il Sisifo. Un ampio insieme di versi contenuto nel libro IX del Contro i matematici di Sesto Empirico viene attribuito a Crizia, che invece, da parte di Aezio, viene considerato come scritto da Euripide. D’altro canto, Sisifo è anche una tragedia che fu scritta da Eschilo e da Sofocle, nonché un dramma satiresco stavolta sicuramente di Euripide,  messo in scena insieme alle Troiane e di cui ci è rimasto un unico frammento.

Per fortuna, quel che ci interessa esaminare da vicino in questa sede sono solo i versi citati da Sesto Empirico, che descrivono l’origine della credenza in un dio che sorveglia le vicende umane. Egli è probabilmente nel vero quando lo attribuisce a Crizia. Aezio potrebbe essersi infatti confuso e aver attribuito al dramma satiresco di Euripide quello che appartiene al sofista. Questo testimone ci dà, in ogni caso, un dettaglio importante. A pronunciare questi versi non è direttamente l’autore del Sisifo, bensì il personaggio di Sisifo. Sarà un dettaglio che, come vedremo, rende ancora più complicato il quadro già di per sé intricato. Per il momento, va precisato che le difficoltà di attribuzione dei versi teologici del Sisifo e in generale delle opere teatrali di Crizia invitano a prendere le considerazioni che seguono come altamente ipotetiche.

Sisifo narra che, originariamente, l’essere umano viveva in una condizione ferina dove dominava la violenza, che solo l’istituzione delle leggi riuscì in parte a frenare, prevedendo una retribuzione per i buoni e una punizione per i malvagi. L’accorgimento riusciva però a trattenere solo dalla violenza praticata allo scoperto, ma non da quella compiuta di nascosto. Sisifo suppone allora che un uomo saggio convinse i suoi simili che le vicende umane non sono sorvegliate e punite solo dalle leggi. Esiste anche una divinità eterna, collocata in cielo, che governa gli eventi naturali e che soprattutto percepisce / conosce tutto ciò che gli uomini o le donne non solo fanno, ma anche meditano di fare. Lo spavento destato da questo racconto fu tale che l’illegalità o l’ingiustizia commessa di nascosto venne di colpo spenta. Tale emozione fu poi la causa scatenante di un’opinione che venne col tempo mantenuta ferma e vera da tutti: che gli dèi esistono e si occupano di noi mortali.

L’aspetto che interessa sottolineare è che Sisifo sostiene che quel saggio individuo del passato «divulgava il più gradito degli insegnamenti, / avvolgendo la verità in un finto racconto». Abbiamo dunque due livelli da tenere in considerazione. Da un lato, c’è un contenuto veritativo nel discorso del saggio del passato, che molto probabilmente coincide con una verità di tipo pratico: è opportuno e un bene astenersi dall’ingiustizia. Dall’altro lato, è presente anche un elemento di menzogna, che consiste nell’invenzione teologica degli dèi interessati alle vicende umane. Tale insegnamento è del resto qualificato nel testo come «gradito» o piacevole, non come vero. E la piacevolezza potrebbe a sua volta dipendere dall’abilità artistica con cui la “nobile menzogna” è raccontata, oppure dai suoi effetti benefici a livello psichico. Sempre il discorso di Sisifo, infatti, accenna che il racconto del saggio non procurò solo spavento ai malvagi. Esso diede in più alcune «consolazioni» alla misera via umana. Forse il riferimento va ai buoni che patiscono ingiustizia e si astengono da essa, che potevano appunto consolarsi immaginando che le loro sofferenze presenti sarebbero state curate dagli dèi e che il loro retto comportamento sarebbe stato retribuito, in questa vita o dopo morti.

Come si accennava, il fatto che tutto questo discorso sia pronunciato da Sisifo rende il quadro più labirintico. Bisogna infatti ora chiedersi: il personaggio espone le idee di Crizia, sempre ammesso che sia egli l’autore? Sesto Empirico è convinto che sia così, dunque che il sofista fosse un ateo che affermava l’inesistenza degli dèi, o almeno di dèi che si occupino di noi. Aezio crede lo stesso, aggiungendo però che l’attribuzione del pensiero al personaggio di Sisifo sia un modo per esporlo in maniera discreta, mettendosi così in guardia da eventuali ritorsioni. Detto ciò, non vi sono ragioni cogenti per concludere che uno dei due testimoni debba per forza avere ragione. Potremmo anche supporre che Crizia non condividesse nulla di quanto Sisifo dicesse, oppure solo una parte del suo discorso. Sappiamo, del resto, che il mito di Sisifo non si concludeva bene per il personaggio. Egli sarebbe stato alla fine condannato a trascinare su per una collina dell’Ade un grande masso che non fa che rotolare sempre a valle. Nulla impedisce così di supporre che il Sisifo di Crizia potesse addirittura aver rappresentato Sisifo a pronunciare un discorso ateo che, col procedere della vicenda, sarebbe stato punito provvidenzialmente dagli dèi di cui nega l’esistenza. Il dramma poteva insomma inscenare un atto di empietà destinato a essere corretto.

Non avendo altre citazioni o parafrasi del Sisifo, l’unica possibilità per rendere il quadro meno oscuro è operare un rapido confronto con altri testi scritti certamente da Crizia e verificare se questi sono compatibili con il discorso di Sisifo, o almeno con una sua parte. Ora, il risultato è che c’è un buon margine di probabilità che il sofista condividesse con il personaggio l’idea che un discorso possa essere ingannavole perché piacevole. Crizia loda infatti esplicitamente Anacreonte proprio per queste sue qualità: per essere un «ingannatore di donne» e autore di canti lieti, senza affanni. Per converso, egli biasima Archiloco per aver descritto in modo troppo sincero la sua biografia nella sua poesia, costruendosi così la fama di uomo adultero, litigioso, sensuale e debosciato. Può darsi che, se avesse usato un po’ di menzogna, la sua figura sarebbe apparsa ai posteri più degna di essere ricordata e apprezzata. Sulla visione teologica di Crizia, abbiamo invece solo un altro testo. Si tratta di una poesia in lode della capacità degli Spartani di moderarsi nel bere, che conduce tra le varie cose «alla Salute, delle dee la più gradita ai mortali, / ed anche alla Temperanza, compagna della Religione». Purtroppo, un simile testo è forse ancora più ambiguo, perché può essere interpretato sia come il veicolo di una visione positiva del divino (= astenersi dall’ubriachezza allontana dagli atti di empietà, il che implica che gli dèi esistono e vanno rispettati), sia come una concezione discretamente negativa. Le divinità in senso proprio non esistono. Quelli che chiamiamo dèi sono semmai personificazioni di cose che gli esseri umani reputano buone, vale a dire la salute e, nel caso del Sisifo, la tranquillità garantita dalla giustizia.

Questo confronto non risolve insomma il problema, ma almeno consente di isolare un piccolo punto meno controverso. Se il Sisifo è di Crizia, egli poteva almeno ammirare Sisifo perché era un bravo sofista consapevole di come l’inganno della poesia può essere usato a fin di bene, o come un modo per veicolare delle verità in forma piacevole.

Tutto il resto va lasciato nell’incertezza, fermo restando che anche questa conclusione può essere rovesciata e farci ripiombare in nuove tenebre. Se infatti il teatro è un inganno, allora anche il discorso in lode della “nobile menzogna” di un enunciato teatrale può essere ingannevole. In altri termini, si potrebbe mentire proprio nel dire che la capacità menzognera attuata dai personaggi o dagli autori teatrali sia una cosa buona ed edificante. Ci troveremmo così di fronte a un inganno che inganna gli altri e anche se stesso.

 

—————————————-

 

Dei drammi di Euripide tre sono considerati spurii: Tennes, Radamanto, Piritoo (Anonimo, Vita di Euripide p. 135 = Crizia, fr. 88 B 10 DK)

 

Plemochoe, vaso d’argilla a forma di trottola… è usato in Eleusi l’ultimo giorno dei misteri, il quale appunto da esso si chiama giorno delle Plemochoe… lo nomina anche l’autore del Piritoo, o che sia Crizia il tiranno, oppure Euripide: «Affinché queste plemochoe già nella voragine / della terra per buon augurio effondiamo» (Ateneo di Naucrati, I sofisti al banchetto, libro XI, § 93 = Crizia, fr. 88 B 17 DK)

 

Nell’anno della novantunesima Olimpiade (quella nella quale Esseneto di Agrigento vinse la corsa nello stadio) gareggiarono tra loro Senocle ed Euripide. Senocle (chiunque mai fosse) ottenne il primo premio con Edipo, Licaone, Baccanti e il dramma satiresco Atamante; Euripide giunse secondo con Alessandro, Palamede, Troiane e il dramma satiresco Sisifo. È una cosa ridicola – non è vero? – che Senocle abbia vinto e invece Euripide abbia perso, per giunta con tragedie di quel livello; quindi, delle due l’una: o i giudici erano folli, ignoranti e incapaci di giudicare rettamente, oppure erano stati corrotti. Entrambe le spiegazioni sono strane e del tutto indegne degli ateniesi (Claudio Eliano, Storie varie, libro II, cap. 8)

 

Salve a te, o nobile figlio di Alcmena… / e al furfante che è crepato (Euripide, Sisifo, fr. 1)

 

Anche Crizia, uno dei tiranni di Atene, sembra appartenere al gruppo degli atei, per aver detto che gli antichi legislatori finsero dio come una specie di ispettore delle azioni umane, sia buone che cattive, con lo scopo che nessuno recasse ingiuria a tradimento al suo prossimo per paura d’un castigo degli dèi. Dice testualmente così: «Tempo ci fu, quando disordinata era la vita degli uomini, e ferina, e strumento di violenza, quando premio alcuno non c’era pei buoni, né alcun castigo ai malvagi. In seguito, parmi che gli uomini leggi punitive sancissero, sì che fosse Giustizia assoluta signora egualmente di tutti e avesse ad ancella la Forza; ed era punito chiunque peccasse. Ma poi, giacché le leggi distoglievan bensì gli uomini dal compiere aperte violenze, ma di nascosto le compivano, allora, suppongo, dapprima un qualche uomo ingegnoso e saggio di mente inventò per gli uomini il timor degli dèi, sì che uno spauracchio ci fosse ai malvagi anche per ciò che di nascosto facessero o dicessero o pensassero. Laonde introdusse la divinità sotto forma di Genio, fiorente di vita imperitura, che con la mente ode e vede, e con somma perspicacia sorveglia le azioni umane, mostrando divina natura; il quale Genio udirà tutto quanto si dice tra gli uomini e potrà vedere tutto quanto da essi si compie. E se anche tu mediti qualche male in silenzio, ciò non sfuggirà agli dèi; ché troppa è la loro perspicacia. Facendo di questi discorsi, divulgava il più gradito degli insegnamenti, avvolgendo la verità in un finto racconto. E affermava gli dèi abitare colà, dove ponendoli, sapeva di colpire massimamente gli uomini, là donde sapeva che vengono gli spaventi ai mortali e le consolazioni alla lor misera vita: dalla sfera celeste, dove vedeva esserci lampi, e orrendi rombi di tuoni, e lo stellato corpo del Cielo, opera mirabilmente varia del sapiente artefice, il Tempo; là donde s’avanza fulgida la massa rovente del sole, donde l’umida pioggia sovra la terra scende. Tali spaventi egli agitò dinanzi agli occhi degli uomini, e servendosi di essi, costruì con la parola, da artista, la divinità, ponendola in un luogo a lei adatto; e spense così l’illegalità con le leggi». E poco oltre aggiunge: «Per tal via dunque io penso che in principio qualcuno inducesse i mortali a credere che vi sia una stirpe di dèi» (Sesto Empirico, Contro i matematici, libro IX, § 54 = Crizia, fr. 88 B 25 DK)

 
Euripide il tragediografo non volle manifestare direttamente le sue idee, per timore dell’Areopago, ma le fece capire nel modo seguente: mise in scena Sisifo rappresentante di quest’opinione, e gli fece esprimere questo giudizio: «Tempo ci fu, quando disordinata era la vita degli uomini, e ferina, e strumento di violenza». Sèguita poi col dire che l’illegalità cessò con l’introduzione delle leggi; e poiché la legge poteva bensì impedire i reati palesi, ma di nascosto molti continuavano a commettere azioni malvagie, allora un qualche saggio stabilì che bisognasse con una falsa leggenda adombrare la verità, e far credere agli uomini che c’è un dio «che con la mente ode e vede, e con somma perspicacia sorveglia» (Aezio, Lasciti dei filosofi, libro I, cap. 7, § 2 = fr. 88 B 25 DK; trad. modificata)

 

Per i suoi canti ad Amore l’elegante Anacreonte corre sempre sulle bocche di tutti. Così si esprime su di lui anche il valentissimo Crizia: «Lui che un tempo per donne canti melodiosi compose, / l’amabile Anacreonte, Teo qui sospinse in Grecia, / eccitator di conviti, ingannatore di donne, / ostile agli auli, amico della lira, lieto, privo d’affanni. / Giammai l’amicizia per te invecchierà, né morirà, / finché l’acqua nei calici col vino mescolata / porti il coppiere in giro, a destra versando pel brindisi, / e cori femminili celebrino le sacre feste notturne, / e il disco, figlio del bronzo, poggi in cima sull’alta / punta del cottabo, sotto lo spruzzar di Bromio» (Ateneo di Naucrati, I sofisti al banchetto, libro XIII, § 74 = Crizia, fr. 88 B 1 DK)

 

Crizia biasima Archiloco per avere diffamato se stesso. «Infatti» dice Crizia «se Archiloco non avesse diffuso tra i greci una tale nomea a suo riguardo, noi non sapremmo né che era figlio della schiava Enipo, né che lasciò Paro per recarsi a Taso perché era povero e privo di mezzi, né che – giunto colà – si rese inviso agli isolani, e neppure che parlava male in ugual misura degli amici e dei nemici. Inoltre» continua Crizia «se non ce ne avesse informati lui, non sapremmo che egli era un adultero, un lascivo e un violento, nonché – ignominia ben più grave – che abbandonò lo scudo. Archiloco non è stato davvero un testimone favorevole a se stesso, visto che ha lasciato questa bella fama di sé e voci del genere sul suo conto». Questi rimproveri ad Archiloco, non sono io a muoverli, bensì Crizia (Claudio Eliano, Storie varie, libro X, cap. 13 = fr. 88 B 44 DK)

 

Invece i giovani Lacedemoni bevono sol tanto, / che basti a volger la mente a gaie speranze, / e la lingua a benevole parole, e a moderato riso. / Tal modo di bere è utile al corpo, / e alla mente e alla borsa; / ben si accorda all’opre di Venere, / e al sonno, che è il porto delle fatiche, / e anche alla Salute, delle dee la più gradita ai mortali, / ed anche alla Temperanza, compagna della Religione (Ateneo di Naucrati, I sofisti al banchetto, libro X, § 41 = Crizia, fr. 88 B 6 DK, vv. 15-22)

 

[Le fonti su Crizia sono citate nella traduzione italiana di Maria Timpanaro Cardini, in Gabriele Giannantoni (a cura di), I Presocratici: testimonianze e frammenti, Roma-Bari, Laterza, 1983. Il frammento di Euripide è citato da Olimpio Musso (a cura di), Tragedie di Euripide. Volume quarto, con la collaborazione di Annalaura Burlando, Torino, UTET, 2009. Infine, la traduzione dei passi di Eliano è di Claudio Bevegni in Nigel Wilson (a cura di), Eliano: Storie varie, Milano, Adelphi 1996].

Enrico Piergiacomi

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Enrico Piergiacomi
Enrico Piergiacomi
Enrico Piergiacomi è cultore di storia della filosofia antica presso l’Università degli Studi di Trento e ricercatore presso il Centro per le Scienze Religiose della Fondazione Bruno Kessler di Trento. Studioso di filosofia antica, della sua ricezione nel pensiero della prima età moderna e di teatro, è specialista del pensiero teologico e delle sue ricadute morali. Supervisiona il "Laboratorio Teatrale" dell’Università degli Studi di Trento e cura la rubrica "Teatrosofia" (https://www.teatroecritica.net/tag/teatrosofia/) con "Teatro e Critica". Dal 2016, frequenta il Libero Gruppo di Studio d’Arti Sceniche, coordinato da Claudio Morganti. È co-autore con la prof.ssa Sandra Pietrini di "Büchner, artista politico" (Università degli Studi di Trento, Trento 2015), autore di una "Storia delle antiche teologie atomiste" (Sapienza Università Editrice, Roma 2017), traduttore ed editor degli scritti epicurei del professor Phillip Mitsis dell'Università di New York-Abu Dhabi ("La libertà, il piacere, la morte. Studi sull'Epicureismo e la sua influenza", Roma, Carocci, 2018: "La teoria etica di Epicuro. I piaceri dell'invulnerabilità", Roma, L'Erma di Bretschneider, 2019). Dal 4 gennaio al 4 febbraio 2021, è borsista in residenza presso la Fondazione Bogliasco di Genova. Un suo profilo completo è consultabile sul portale: https://unitn.academia.edu/EnricoPiergiacomi

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