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Da Pasolini a Benjamin. Appunti su religione e marxismo in Teorema

Davide Carnevali (drammaturgo) con questo scritto indaga le relazioni tra religione e marxismo nel capolavoro di Pier Paolo Pasolini, Teorema. Il saggio accompagna il testo Atti osceni in luogo pubblico (Modi ameni di attendere l’arrivo del messia) pubblicato su Hystrio (IV 2017) e in scena al Grec Festival di Barcelona per il Teatre Nacional di Catalunya. Il testo è scritto per l’edizione catalana (Barcelona, Arola Editors, 2017)

davide carnevali
Foto May Zirkus / TNC

Teorema racconta l’irruzione della figura messianica all’interno di una famiglia borghese, con tutte le conseguenze che questo evento comporta; a partire dalla distruzione, violenta, del suo equilibrio.

Tutti gli abitanti della casa si innamorano del giovane ospite, che ricambia quell’amore. Questo fatto scardina in primo luogo quell’usanza che riconduce le relazioni personali, sentimentali e sessuali alla logica del calcolo. Il messia, al contrario, viene come un dono, come qualcosa che si dà, che concede se stesso – nell’opera di Pasolini, anche e soprattutto in senso fisico – gratuitamente, senza interesse; senza, cioè, essere origine e parte di uno scambio e una mercificazione. Tale evento fa saltare un sistema di pensiero, un modello di comportamento e uno stile di vita che sono indissolubilmente legati a una logica economica: quella che designa come priorità, in ogni tipo di operazione, l’atto di produrre e generare un plusvalore, un beneficio. Anche nella sfera sentimentale: l’amore deve essere sempre conveniente. In questo senso, la venuta del messia in un contesto borghese non può che presentare un carattere prettamente rivoluzionario.

L’interpretazione pasoliniana recupera così una certa visione del messianismo che, nella dottrina cattolica occidentale, è spesso rimasta in ombra. La nostra tradizione tende infatti a porre l’accento, nella parousia, sul momento del giudizio, della valutazione del bilancio e della revisione dei conti. Cristo dovrebbe dunque tornare per giudicare l’esistenza umana in termini di profitto o di perdita, di risultati ottenuti o mancati; per approvare o sconfessare quanto prodotto dall’uomo durante la sua vita. Un punto di vista che spiega l’altrimenti inspiegabile accordo tra Chiesa e capitalismo; inspiegabile se pensiamo che l’insegnamento originario di Cristo, tale e come è riportato nei vangeli, pareva indirizzare la vita sociale delle prime comunità cristiane verso una forma di proto-comunismo. Tesi tante volte ripresa e sostenuta in epoca medievale e tante volte sconfessata e bollata come eresia. Il messia di Pasolini non viene come revisore, né come giudice, ma come colui che, con il suo amore, rompe la logica del calcolo e che sospende il giudizio.

Davide Carnevali
Foto May Zirkus / TNC

C’è una parabola, nel vangelo di Matteo, che mi è sempre parsa crudele; si tratta della parabola dei talenti. Il padrone parte da casa e lascia tre servi ad amministrare i suoi beni. A uno affida cinque talenti, a un altro due e a un altro uno, a ognuno secondo le sue capacità. Al ritorno dal suo viaggio, il padrone passa a riscuotere; i primi due servi hanno investito il denaro e l’hanno raddoppiato, mentre il terzo ha nascosto il suo unico talento in un campo, e al padrone non ha nulla di più da offrire di quanto gli avesse lasciato. Quest’ultimo servo è punito, poiché «a chiunque ha, sarà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha, sarà tolto anche quello che ha». In questo senso, mi è sempre sembrata crudele: se ai servi è dato secondo le loro capacità, non si capisce perché un servo che già aveva poco –a livello di capacità economiche- e che si era premurato di non far perdere al padrone il proprio denaro, dovesse essere privato anche di quel poco che aveva, a vantaggio di chi già aveva molto. Una parabola sull’imprenditorialità, apparentemente, che può essere letta come un’istigazione al rischio dell’investimento e alla necessità di mantenere in attivo un sistema (finanziario o di pensiero) che deve sempre tendere all’orizzonte del beneficio. Con il tempo, però, sono giunto alla conclusione che questa parabola vada letta da un altro punto di vista, in aperta contraddizione con il precedente. L’attività cui sono chiamati i servi e il rischio che sono invitati a correre non sono da intendersi in senso letterale, ma come metafora dell’attività intellettuale, critica e, in ultima analisi, rivoluzionaria. I talenti rappresenterebbero allora le capacità intellettuali e critiche di ognuno, le capacità di cui Dio dota l’uomo; quelle stesse capacità che, messe a frutto, dovrebbero permettere all’uomo di intendere e interpretare correttamente il progetto di Dio e preparare la venuta del messia. Il ritorno del Cristo, dunque, è intimamente vincolato all’attività dell’uomo nel mondo durante la sua assenza. Il paradosso potrebbe apparire kafkiano. Kafka probabilmente direbbe che sono i servi stessi a giustificare il comportamento del padrone, nella misura in cui si sentono responsabili della sua dote. Così, il ritorno del padrone dipenderebbe dal modo in cui i servi attendono quella venuta. Il padrone non torna a suo capriccio, ma può tornare solo quando i servi hanno fatto fruttare i talenti che egli ha lasciato loro: quando, cioè, la dote si è concretizzata; quando ciò che era in potenza ha espresso il suo potenziale. Perché il padrone in qualche modo era in quella dote ed era quella dote: il padrone si era lasciato ai servi, e i servi – o meglio: i primi due servi- hanno fatto in modo che lui tornasse a manifestarsi. Il messia torna solo per chi lo attende attivamente.

Lo stesso si dice, in fin dei conti, in Teorema, se interpretiamo l’opera come una panoramica sulla passività della piccola borghesia. Per Pasolini, il borghese è colui che non ha mai dovuto lottare, perché abituato al fatto che tutto gli è già dato; il borghese è abituato, cioè, a non fare, e verrebbe a essere quel terzo servo della parabola che non sa far fruttare il suo talento. Per questo il borghese è totalmente estraneo all’evento rivoluzionario e, non comprendendolo, non può che osteggiarlo. E per lo stesso motivo il borghese è incapace di riconoscere quella stessa prerogativa di “sovversione dell’ordine prestabilito” che la venuta del messia implica. Questo è il vero “riconoscimento” del messia: riconoscimento e accettazione della sua portata rivoluzionaria, del suo dover fare (che qui coincide con il dover essere) una rivoluzione del sistema, sia esso sociale o familiare. È in questo senso che Cristo afferma: «Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra, ma una spada. Sono venuto a separare il figlio dal padre, la figlia dalla madre» [Matteo, 10, 34-35].

Foto May Zirkus / TNC

Il quid della questione è il seguente: la venuta del messia sarà violenta e noi dobbiamo accettare di vivere questa violenza, e favorirla; poiché non possiamo attendere passivamente una liberazione che ci riguarda. Questa liberazione non può più darsi unicamente come atto trascendente, come volontà divina (altrimenti cadremmo in una sorta di fatalismo idealista); ma si deve dare innanzitutto come atto contingente e materiale: atto di ricerca intellettuale e spirituale da parte dell’uomo. Da qui la tesi marxista alla base del teorema pasoliniano: gli umili – il proletariato, quando ancora esisteva, che qui è incarnato nella figura della Serva – rivendicano così il loro ruolo e le loro funzioni umane e umanistiche davanti al divino. La venuta di Cristo sulla terra, come uomo umile tra gli umili, ne è il massimo esempio; la parousia diviene a questo punto quasi una parabola di se stessa.

Sotto certi aspetti, questa è la medesima tesi che sostiene un altro marxista poco ortodosso – così come poco ortodosso è il suo sguardo sulla religione – del secolo ventesimo: Walter Benjamin. Per il filosofo tedesco, di origine e cultura ebraica, quell’attività permanente dell’uomo nei confronti della trascendenza divina si espletava nell’esercizio costante della critica. Il messia non arriva per chi attende inoperoso che si apra quella “piccola porta” attraverso cui dovrebbe entrare nella Storia. Ogni uomo è invece chiamato e ri-aprire la storia, attraverso un procedimento dialettico che riattualizza costantemente il passato, proponendogli un “appuntamento segreto” con il presente. E attraverso questa ri-apertura, che è una re-interpretazione in opposizione all’interpretazione egemonica dei vincitori, dei potenti, della borghesia, deve creare le condizioni perché la porta si spalanchi e il messia possa entrare in qualsiasi momento. Ogni uomo – e ancora il paradosso potrebbe apparire kafkiano – deve essere colui che invia il messia, prima ancora di riceverlo. Solo in questo senso la portata rivoluzionaria di un fatto come quello messianico si rivela una questione non solo divina, ma anche umana; che non compete solo alla sfera dell’ideale (la vecchia tesi conservatrice hegeliana), ma anche a quella materiale (la tesi del materialismo storico).

Foto May Zirkus / TNC

Se il pensiero borghese capitalista è estraneo all’evento messianico, è perché la borghesia non può riconoscere il messia, dato che lo attende semplicemente come colui che viene a salvare tutti gli uomini, e non come colui che viene affinché tutti gli uomini possano offrire a se stessi l’opportunità di salvarsi. La borghesia, in primo luogo la borghesia cattolica del secolo ventesimo fino ad oggi, ha invece interpretato l’evento messianico secondo il suo sistema di pensiero, che è un pensiero economico; non comprendendo che quell’evento implica inevitabilmente la distruzione di quello stesso sistema in cui il borghese vive, e che plasma la sua forma mentis. Per questo, per la borghesia, il messia non può arrivare: la sua mancata venuta corrisponde al mancato esercizio di una critica attiva; l’attesa perenne della salvezza rimane tale, proprio come perenne rimane il suo non saper lottare (contro le regole, contro le convenzioni, ma anche contro se stessi e le proprie paure). Se questa attesa della manifestazione non è accompagnata dalla volontà di riconoscimento, la manifestazione rimarrà dunque incompiuta. Questo spiega anche il progressivo disinteresse per l’attività e la coscienza politica che si è andato a creare nelle socialdemocrazie occidentali negli ultimi cinquant’anni. Anni in cui si assiste, appunto, a una graduale conversione del proletariato in piccola borghesia; anni in cui il sistema capitalista ha offerto a buon mercato alle classi basse il sogno del benessere economico proprio delle classi alte. Ma non è possibile accettare le condizioni di vita di una classe senza accettarne anche il sistema di pensiero: da qui la rinuncia alla critica sociale e politica di questa nuova piccola borghesia. Almeno fino a oggi, quando –sembra- si sta producendo un certo risveglio delle coscienze; ma anche questo fatto è dovuto, in fin dei conti, a un mero fattore economico: la crisi finanziaria degli ultimi anni sta restituendo la nuova falsa piccola borghesia alla sua collocazione originaria di classe bassa.

Questo è ciò che possiamo trarre dall’insegnamento di Pasolini, e da quello di Benjamin. La carica rivoluzionaria è innanzitutto attività umana, intellettuale e materiale. Un insegnamento del passato che non può che trovare il suo appuntamento –non più tanto segreto- con l’oggi. E che si rivela quindi, per la nostra società e per i nostri tempi, più che mai attuale.

Di Davide Carnevali

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