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Virgilio Sieni e il Vangelo. Voci ed echi della danza

Intervista a Virgilio Sieni, direttore della Biennale Danza

 

foto Akiko Miyake
foto Akiko Miyake

Strano attraversamento è quello compiuto dalla danza in un luogo completamente preso dentro al fermento di una inaugurazione. È il caso dell’intervento del direttore del settore Danza della Biennale di Venezia, Virgilio Sieni, che quest’anno si è occupato di inserire alcune cellule di attività coreografica durante i tre giorni vernissage della Biennale di Archittettura diretta dall'”archistar” olandese Rem Koolhaas (dal 4 al 6 giugno 2014 il Festival Internazionale sarà all’Arsenale e ai Giardini dal 7 giugno fino al 24 novembre). Intervento, quello fortemente voluto sia da Sieni che da Koolhaas, reso possibile dal contributo della Fondazione Prada. Già alla conferenza stampa di Roma la liaison aveva fatto discutere non poco, soprattutto in seguito alla decisione – rispettabile, nell’opinione di chi scrive – della celebre casa di moda di non rivelare l’esatto ammontare del sostegno. E però, ci rivela Virgilio Sieni in un piacevole incontro informale al caffè dell’Arsenale, sostegno indispensabile alla presentazione della Biennale Danza così com’è (dal 16 al 29 giugno 2014). La mia domanda, forse ovvia e insieme ingenua, era stata: Perché non presentare il nuovo titanico progetto nell’arco del Festival? In effetti i 27 quadri del Vangelo secondo Matteo debutteranno in Laguna dal 4 al 18 luglio alle Tese Cinquecentesche. La risposta di Sieni, che veste una “divisa nera” da direttore e umili infradito, lanciata da occhi chiarissimi e caldi, è: «Mai mi verrebbe in mente di pesare sulle economie di un festival per la produzione di un mio lavoro». Sono io a sorridere, allora, commentando che questo slancio di integrità è, nei direttori artistici, molto più raro di quanto dovrebbe.

Solo otto quadri sono ospitati in questa caotica tre giorni, ma tanto basta a dare un’idea di questo ambizioso progetto, che ha raccolto interpreti in giro per tutta Italia per dar forma a tre cicli da nove scene ciascuno, dai Magi alla Pietà, dall’Ingresso a Gerusalemme alla Flagellazione e Crocifissione. Si attraversano i corridoi delle Corderie, dove il padiglione Monditalia mostra sotto forma di progetti architettonici tutte le contraddizioni del nostro Belpaese, dagli ecomostri alle speculazioni edilizie, e nei palchi segnati con grandi lettere esplodono cellule di movimento puro: qua e là diluiti dagli interventi di Michele Di Stefano, Marina Giovannini e Luisa Cortesi, gli episodi del Vangelo immaginati e disegnati da Sieni su corpi non votati alla danza (soprattutto sono anziani e bambini) commuovono per l’ordine e per la pulizia, per la semplicità disarmante di certe visioni, tra raccoglimento rituale e lenta progressione ipnotica.

foto Akiko Miyake
foto Akiko Miyake

L’idea dell’architettura è che sia qualcosa di statico, esposizione dei progetti, ogni cosa è perfettamente installata, mentre il percorso della danza introduce una affascinante componente dinamica. «La mia pratica abituale – spiega Sieni – è dire tutto ciò che arriva a noi attraverso una serie di voci e di echi. Penso che l’elemento della danza, la costellazione del gesto possa inserirsi perfettamente nell’architettura. La lettura di un progetto è anche un fatto neurale, cognitivo; il fatto di associare una visione di un corpo associato in forma consapevole, sposta il tuo schema di visione, ti invita a partecipare, rendendo dinamica anche la vista di qualcosa di statico». Ma questa integrazione armonica, mi conferma il coreografo fiorentino, non poteva che essere frutto di una collaborazione assidua con il direttore del settore Architettura. «L’accostamento nasce nella fase di progettazione insieme a Koolhaas e allo studio Oma. Non mi sono ritrovato il progetto finito dentro cui “arrangiare” un mio intervento, quello che il pubblico vede è il frutto di tutta una serie di proposte, che includeva addirittura la scelta dei materiali. I palchi costruiti qui sono meglio ancora di quelli teatrali: tessuti e pavimenti assorbenti, addirittura nello spazio principale non si parla neppure di palco, è una struttura che include, in continuità, anche le gradinate per gli spettatori. Non si vede, ma c’è una cura del dettaglio direttamente pensata verso il gesto. Una connessione che Kolhaas ha voluto fortemente.

Come è cominciata la presentazione al pubblico del Vangelo e come si struttura il lavoro di selezione degli interpreti?
Il Vangelo inizia a dicembre 2013, con varie prove aperte in giro per l’Italia. Quelli mostrati qui sono gli otto quadri iniziali più la Crocifissione. Dopo cinque mesi, qui arriviamo a una prima messa nello spazio e una prova della coreografia.
Di 27 quadri, ciascuno ha una direzione e un’idea specifica. Come ad esempio la Flagellazione di Matera, dove abbiamo fatto delle audizioni democratiche. A me interessa lavorare dai ragazzi di 8 anni fino agli anziani di 100. Volevo due ragazze molto giovani e un uomo che potesse raffigurare questa flagellazione sottoforma quasi di tic nervosi. In ogni territorio cerchiamo una speciale connessione e collaborazione, andiamo in cerca di forme di associazionismo, dalla scuola al coro, ma anche con partner istituzionali, come la Sovrintendenza alle Belle Arti a Matera o l’Ert in Emilia. Si tratta dunque di un lavoro che parte da un forte radicamento nel terriorio e nelle comunità, per arrivare poi a degli interpreti, la cui scelta si basa innanzitutto sull’offerta di disponibilità, proprio perché si tratta di un lavoro lungo e impegnativo. Per questo ci sono bambini e anziani, sono gli individui più liberi.

Nella tua ricerca sul gesto, sempre di meno cerchi corpi formati all’estetica della danza o comunque con impostazione accademica?
Li cerco e continuo a cercarli, la verità è che è difficile trovarli. Per me lavorare con il danzatore rappresenta una fascinazione assoluta, quindi ora c’è un bel travaso tra lavoro con danzatori e lavoro con amatori. Certo, il corpo del danzatore si trasfigura nei codici della danza, non è un corpo abitudinario, mentre totalmente diverso è l’impatto che un lavoro sul gesto ha su un corpo non formato alla danza. Rispetto alle pratiche di qualche decennio fa, il gesto quotidiano, portare un amatore in scena, è tutto molto diverso: chi va in scena qui ci va dopo mesi e anni di lavoro sul corpo, sono tutte persone che si avvicinano a una forma professionale. La resa è certo molto differente, proprio perché si parla di fragilità, di debolezze, di tic, di dislessie, incertezze inserite poi tutte dentro una misura coreografica.
Il tentativo è quello di spostare la danza da una dimensione di evento tout-court a qualcosa che invece possa formare a una maniera dilatata.
Spero che questo tipo di lavoro aiuti a modificare l’approccio alla disciplina della danza, a volte a rischio di diventare arrogante. Certo, quando vai in qualche scuola polverosa in Russia, con le assi di legno che buttano polvere, le sbarre consumate da forse cent’anni, l’impatto è qualcosa di molto potente. È quando interviene un atteggiamento sofisticato, lezioso, che tende a ripulire tutto, che ogni cosa si trasforma in arroganza e diviene respingente. Certo, ci sono esempi come quelli del Bolshoi, che gira in nave per fare lezione mentre naviga nel mare mosso. Ma, appunto, stiamo parlando di eccezioni.

foto Akiko Miyake
foto Akiko Miyake

In questo forse si ritrova un nesso con il Vangelo di Pasolini. Come ci sei arrivato?
Mi interessava trovare delle risonanze attraverso dei racconti e il Vangelo è sempre stato un mio punto di riferimento fin dai primo assoli negli anni Ottanta. Ma non si tratta di un riferimento di carattere religioso. Di certo però posso parlare di fede, fede verso il gesto. La Fede è qualcosa che ci rimanda direttamente a qualcosa di altro da noi. Il gesto che ti appartiene ha una propria casa che è il corpo, ma vive continuamente una condizione di esodo. Se quel gesto non si rinnova introducendo l’altro, implode e si trasforma in patologia.

Come è strutturato lo spettacolo nella sua versione finale?
Sono tre cicli da nove quadri ciascuno, che si raccoglieranno poi in una stanza comune. Ogni ciclo dura tre ore e mezzo circa. Verrà presentato dal 7 al 28 luglio alle Tese Cinquecentesche, ogni settimana arriverà un ciclo.
Il pubblico sarà là dentro per un’ora e mezzo circa, ed è dunque pensato che il pubblico, spostandosi, perda qualcosa. La cosa migliore sarà proprio che si potrà tornare nei quadri; cambia completamente, la fruizione viene influenzata e torna con nuovi elementi di ragionamento. È come quando fai un esercizio di respirazione per cinque anni, poi lo abbandoni per due, quando lo riprendi non lo riprendi da zero, anzi senti che dentro ti passa qualcosa che ha la consistenza della polvere, che si spande e attraversa canali che avevi già scavato, hai frequentato, un senso del passato che restituisce davvero il valore dell’esperienza. Torni, ritorni indietro e trovi gli stessi interpreti, magari la stessa misura coreografica, ma mai gli stessi identici gesti.

Chi sostiene la produzione di questo lavoro?
La Biennale sostiene tutto l’apparato organizzativo e logistico e la presenza a Venezia, grazie alla collaborazione con la Fondazione Prada, sostegno necessario. Ma i collaboratori nei territori sostengono fortemente il progetto nella fase di lavoro in quelle aree specifiche, sotto forma di contributi diretti, di sostegni logistici e organizzativi, la cura degli assistenti e via dicendo. E infatti ho assicurato a ciascuno di questi territori un passaggio dei quadri finiti, ciascuno (sempre considerato come spettacolo autonomo) nei territori che ne hanno ospitato la creazione.

Per un coreografo chiamato a dirigere un organo così importante, la notazione video può rappresentare – e in che modo – un passo avanti verso una migliore archiviazione e una più aggiornata organizzazione della memoria della danza?
È uno dei problemi fondamentali, su cui abbiamo e ho già avanzato diverse proposte, anche con l’Asac, l’Archivio Storico delle Arti Contemporanee. Un esempio è la richiesta inoltrata a tutti i circa trenta coreografi inseriti nel Festival di quest’anno, di portare e lasciare a disposizione dei contributi relativi all’approccio alle produzioni, le fasi di prepazione, gli appunti, proprio con l’idea di archiviarli e già dal prossimo anno organizzare un’esposizione di questi materiali di lavoro, non limitati solo a foto e video degli spettacoli, ma costituendo una vera e propria documentazione multimediale integrata, incentrata sul processo di lavoro. Per me è fondamentale questa idea dinamica anche del museo, visto come qualcosa che può mostrare il tempo come un processo. A cominciare da questo piccolo esperimento, la mostra allestita al piano terra di Ca’ Giustinian dal titolo “La memoria del gesto”: abbiamo trovato chiusi in degli scatoloni dei reperti che stavano lì da decenni. Se si riuscisse ad andare oltre il semplice video e verso la composizione di un materiale complesso, con interviste e documenti, che cosa non potremmo immaginare anche fuori dalla dimensione festival, sarebbe un approdo importante anche per quegli studiosi più in generale interessati al corpo, da un punto di vista ad esempio della performance e della coreografia, che sono sempre più rari. Ma forse sono rari anche per questo motivo, perché mancano gli strumenti. Strumenti che sarebbero utili anche ad altri tipi di studi. Ad esempio questo lavoro è seguito da due antropologhe, che stanno annotando tutto, proprio per indagare i mutamenti nel pubblico.

Sergio Lo Gatto
Twitter @silencio1982

Visto a venezia, Biennale Danza 2014 [programma]

VANGELO SECONDO MATTEO
coreografia Virgilio Sieni
musica dal vivo Naomi Berrill (violoncello e voce); Corale G. Savani di Carpi, Daniele Roccato (contrabbasso)
produzione la Biennale di Venezia
con il sostegno di Fondazione I Teatri di Reggio Emilia, Ert Emilia Romagna Teatro, Teatro Pubblico Pugliese, Crest, Regione Toscana, Ente di Rilevanza Regionale /Compagnia Virgilio Sieni, CID Centro Internazionale della Danza e Festival Oriente Occidente, Comune di Matera, Comitato Matera 2019, Soprintendenza BSAE della Basilicata, Basilicata 1799 / Festival Città delle 100 scale

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Sergio Lo Gatto
Sergio Lo Gatto
Sergio Lo Gatto è giornalista, critico teatrale e ricercatore. È stato consulente alla direzione artistica per Emilia Romagna Teatro ERT Teatro Nazionale dal 2019 al 2022. Attualmente è ricercatore presso l'Università degli Studi Link di Roma. Insegna anche all'Alma Mater Studiorum Università di Bologna, alla Sapienza Università di Roma e al Master di Critica giornalistica dell'Accademia Nazionale d'Arte Drammatica "Silvio d'Amico" di Roma. Collabora alle attività culturali del Teatro di Roma Teatro Nazionale. Si occupa di arti performative su Teatro e Critica e collabora con La Falena. Ha fatto parte della redazione del mensile Quaderni del Teatro di Roma, ha scritto per Il Fatto Quotidiano e Pubblico Giornale, ha collaborato con Hystrio (IT), Critical Stages (Internazionale), Tanz (DE), collabora con il settimanale Left, con Plays International & Europe (UK) e Exeunt Magazine (UK). Ha collaborato nelle attività culturali e di formazione del Teatro di Roma, partecipato a diversi progetti europei di networking e mobilità sulla critica delle arti performative, è co-fondatore del progetto transnazionale di scrittura collettiva WritingShop. Ha partecipato al progetto triennale Conflict Zones promosso dall'Union des Théâtres de l'Europe, dove cura la rivista online Conflict Zones Reviews. Insieme a Debora Pietrobono, è curatore della collana LINEA per Luca Sossella Editore e ERT. Tra le pubblicazioni, ha firmato Abitare la battaglia. Critica teatrale e comunità virtuali (Bulzoni Editore, 2022); con Matteo Antonaci ha curato il volume Iperscene 3 (Editoria&Spettacolo, 2018), con Graziano Graziani La scena contemporanea a Roma (Provincia di Roma, 2013). [photo credit: Jennifer Ressel]

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