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HomeDIALOGHIIntervisteVoci dalla Biennale 2012

Voci dalla Biennale 2012

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fonte Christian La Rosa

Christian Mariotti La Rosa. 26 anni. Diplomato alla Scuola del Teatro Stabile di Torino. Alla Biennale frequenta il laboratorio di Luca Ronconi

Qual è lo spettacolo che ti ha cambiato la vita?

Dovessi dirti un titolo preciso non lo so. Per quello che riguarda l’interpretazione – dato che si parla di attori – quando vidi il Re Lear di Giorgio Strehler con Tino Carraro (1972 ndr) rimasi impressionato. La recitazione di Carraro emana una forza che fa capire quanto il palcoscenico sia una fatica notevole. Ma penso anche ad alcuni spettacoli di quello che viene chiamato il teatro riformatore del novecento: Grotowski, La classe morta di Kantor – che purtroppo ho visto solo in video. Ecco quest’ultimo forse è stato lo<> spettacolo che mi ha fatto capire quanto recitare sia una pratica coinvolgente a 360 gradi: corpo, voce, energia e presenza. Anche quando l’attore non si muove deve trasmettere qualcosa con tutto il corpo. Vale anche per il Principe Costante di Grotowski. Sono esempi nei quali è evidente come l’energia dell’attore arrivi da questa totalità. Non ci sono due cose distinte: non c’è un teatro di parola e un teatro di movimento.

Costi e ricavi: un bilancio del laboratorio veneziano.

Ѐ un laboratorio molto impegnativo. In Accademia ho lavorato con una scansione laboratoriale, nel senso che c’erano vari stage e workshop. Posso dire che i tre anni di Accademia sono stati tre anni di laboratorio. Qui è impegnativo perché è un lavoro su un testo molto complesso (Questa sera si recita a soggetto ndr) e perché richiede una grande capacità di adattabilità al metodo di lavoro della persona che andrai a incontrare. Noi non sapevamo quale regista avremmo incontrato. Quindi non conoscendo il metodo – nel mio caso quello di Licia Lanera – siamo costretti, ma piacevolmente, ad adattarci al pensiero di ciascuno di questi quattro registi. E questo secondo me è importante perché ti fa capire quanto oggi il teatro sia una realtà molto differenziata, prismatica, nella quale tutto e niente può essere teatro. Chi vuole affrontare questo tipo di mestiere deve avere un’adattabilità che gli permetta di essere versatile. Il lavoro col maestro Ronconi poi è indiscutibile: è importante anche solo a livello uditivo, anche solo ascoltandolo o guardandolo lavorare si impara tanto. Il suo è un metro che apparentemente sembra semplice o naturalistico, ma in realtà arriva – oltre che da una cultura personale impressionante – da uno scavare nel naturalismo per arrivare a qualcosa che è più vero del vero. Ogni parola diventa concreta. Ha molta attenzione al linguaggio del corpo: la parola nasce anche dall’atteggiamento fisico. Vorrei sottolineare che Ronconi fondò la scuola dello Stabile di Torino: prima del cambio di direzione, ho avuto come insegnante Mauro Avogadro il quale è stato attore, amico e assistente di Ronconi: conoscerlo e incontrarlo personalmente è un’esperienza molto importante. Ronconi è uno degli indiscussi maestri, tra quelli che per primi hanno portato sulla scena teatrale grandissime riletture, invenzioni e innovazioni che hanno inevitabilmente cambiato il modo di vedere il teatro di regia in Italia.
Per quello che riguarda le spese il laboratorio non è costoso: sono 60 euro di iscrizione. Più che altro i problemi arrivano con le spese di vitto e alloggio che in una città come Venezia non sono per tutte le tasche. Dunque a livello formativo è determinante che la Biennale riesca a portare avanti iniziative del genere con dei costi bassi per i partecipanti. L’incontro inoltre è importantissimo, ho incontrato bellissime persone: Licia, i quattro compagni del mio gruppo e tutti gli altri partecipanti. Questa è anche una bellissima occasione di confronto. Siamo ragazzi che si scambiano interessi passioni e magari qualche opportunità lavorativa… Speriamo. Chi lo sa?

Che senso ha fare teatro in questi tempi di crisi?
In Accademia ci hanno aperto subito gli occhi facendoci capire che il nostro non è un percorso semplice, specialmente in Italia. Non lo è per il periodo di crisi, di disattenzione, o meglio di disamore, nei confronti della cultura – quando invece in Italia la cultura dovrebbe essere valorizzata forse più che in altri paesi. Cultura intesa in tutti i suoi campi: dall’arte visiva, al teatro, alla musica, fino alle arti performative. Io però, nonostante i frequenti consigli di chi mi spinge ad andare all’estero, voglio rimanere qui. La questione non è solamente economica: sempre si sente dire che il futuro del teatro è nelle mani delle nuove generazioni, che poi se da un lato è vero, dall’altro è anche un modo furbo, da parte delle passate generazioni, di scaricare il barile. Detto questo sì, si può dimostrare che anche quando scarseggiano le possibilità un gruppo di persone può realizzare un progetto senza troppi aiuti, basta avere una bella idea e la forza di mandarla avanti, intessendo una proficua rete di collaborazioni tra persone che hanno voglia di mettersi in gioco. Oggi contano molto gli incontri, ma non intesi come public relations, incontri tra persone che sono nella stessa situazione, con le stesse passioni e difficoltà. Non abbiamo il teatro? Facciamolo da qualche altra parte. Non abbiamo finanziamenti? Ok troviamo fra di noi il modo di guardare lo spettacolo diversamente, capire insomma che qualcosa da soli si può fare.

Andrea Pocosgnich

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