Cordelia - le Recensioni

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FABRICA 36100

Paola Bianchi si muove pochissimo all'inizio, quasi si nasconde nel buio eppure il suo stare in scena è solido, riconoscibile nella densità di ogni muscolo. Il volto è come sempre concentrato ma neutro, veste una canottiera bianca e una gonna scura al ginocchio. FABRICA 36100 fa parte del più ampio progetto ELP, ricerca attraverso la quale la danzatrice e coreografa studia la relazione tra la “parola descrittiva” e danza. A Teatri di Vetro, seguendo lo spirito con il quale la direttrice del festival Roberta Nicolai interroga i percorsi delle artiste e degli artisti convocati, incontriamo il secondo di due dispositivi sul mondo del lavoro in fabbrica. Qui la ricerca si è svolta con i dipendenti di Bata attraverso il dialogo con ex lavoratori e lavoratrici, a partire da un quesito decisivo, oltre che pieno di suggestione, “ Cosa significa allora trasformare un gesto produttivo in un gesto che non produce materia, un gesto che trasforma e crea materia, in un gesto che crea qualcosa di immateriale?”. Il precipitato scenico, in movimento, vede un corpo farsi strada nel buio, lateralmente, alla destra dei nostri sguardi: non siamo di fronte a gesti atletici, c’è qualcosa sull’invecchiamento, sulla perdita dell’umanità, il gesto si fa spezzato e l’immagine arriva da una memoria lontana o da un mondo altro. La danza di Paola Bianchi evoca i fantasmi, ma questo non è un film horror, siamo in uno spazio teatrale e allora mentre il corpo si sposta al centro una luce di taglio da sinistra lo illumina colpendolo; si spezza a terra ora quel corpo, i movimenti definiscono le giunture, è un corpo industriale. (Andrea Pocosgnich)
Visto al Teatro India per Teatri di Vetro. Crediti coreografia e danza Paola Bianchi sound design Stefano Murgia light design Paolo Pollo Rodighiero collaborazione artistica Roberta Nicolai costumi PianoB residenze artistiche FAA Bataville-Moussey (FR), Teatro Galli di Rimini con il supporto di KOMM TANZ/PASSO NORD progetto residenze Compagnia Abbondanza/Bertoni produzione PinDoc coproduzione Teatri di Vetro con il contributo di MiC e Regione Sicilia. Foto Margherita Masè

TU ERI TURBOLENTA (Quirk of fate)

Ha debuttato con un bel passaparola, due giorni pieni nonostante si trattasse di una compagnia (Tostacarusa) al proprio esordio, uno spazio importante come l'Angelo Mai e tanti occhi curiosi: Tu eri turbolenta aveva creato certe aspettative, anche per il supporto di tanti soggetti durante la creazione. Regia e drammaturgia sono di Tolja Djokovic, vincitrice della Biennale College per la drammaturgia 21/22, con lei in scena Aura Ghezzi e Martina Tinnirello. Alla base il romanzo di Goliarda Sapienza, L'arte della gioia. Lo spazio scenico vede il pubblico su tre lati e la regia in scena. L'idea dovrebbe essere quella di innestare spunti autobiografici, piccole riscritture nel tessuto di altri frammenti, quelli del romanzo. Il risultato è un partizionamento di intenzioni eterogenee in cui ad ogni scena lo spettatore deve rinegoziare le istanze drammaturgiche per capire chi e cosa abbia davanti, senza avere il tempo di entrare in empatia. Si stagliano i momenti in cui la discendenza letteraria è più evidente, si intravede il profilo di Modesta, di certo si riconosce in queste tre donne sul palco la voglia di ricercare quella sfrontata libertà. Tostacarusa nelle note scrive: «Non potevamo mettere in scena il romanzo ma potevamo chiederci che cosa volesse dire per noi avere, o tentare di avere, un’arte della gioia», questo approccio emerge nella relazione, nei sorrisi tra le tre attrici ma non riesce ad aprirsi al pubblico. Rimane la cura unitaria nei costumi e alcuni momenti suggestivi per impatto scenico e musicale, ma i materiali (coreografie, spunti lirici e dialoghi) appaiono giustapposti in maniera confusa e non si addensano ancora in un'opera unitaria.(Andrea Pocosgnich)

Visto all'Angelo Mai. Crediti:  con Aura Ghezzi, Martina Tinnirello, Tolja Djokovicc drammaturgia e regia Tolja Djokovic  scene e luci Francesco Cocco produzione tostacarusa

CHAT- KEEP IN TOUCH

Da un’unica enorme cellula, una massa pesante al centro del palco, delle vite prendono forma scomponendosi in esseri autonomi. Volendo tralasciare la fuorviante nota di regia che pone la concentrazione su sedicenti studi antropologici che avrebbero preannunciato i principi di mutazioni fisiologiche legate all’uso massiccio dei social media, bisogna invece focalizzarsi sulle interessanti suggestioni di un’atmosfera (per paradosso) primitiva. Un’atmosfera di sole luci, il cui uso produce una cornice narrativa d’impatto: quelle lattiginose, così come i neri delle ombre, creano l’aria densa di un mondo solitario ai tempi della Prima Creazione, mentre i coni gialli isolano i corpi della nuova specie d’uomo, diventandone così i primi esemplari. Curvi nelle spalle e costretti a replicare insieme e da soli le stesse azioni in movimenti variabili, i danzatori suggeriscono certamente una qualche introiezione della tecnologica: pose per fotografie, pollici sollevati o dita guizzanti, schiocchi di labbra che imitano i trilli delle notifiche. Il peso dell’impostazione originaria ha però irrigidito il risultato della composizione ultima (soprattutto in trovate poco chiare come l’unione dei quattro corpi danzanti in quello della divinità Shiva), che è riuscita nonostante tutto a manifestare un senso di vitalità e umanità probabilmente non prevista ma che sarebbe stato necessario approfondire. Per cui quelle movenze spezzate da automi hanno in realtà un ritorno quasi animalesco, oltre che primigenio, e rimandano a nient’altro che all’immagine di uomini soli. (Valentina V. Mancini)
Visto a Piccolo Bellini, Napoli; Crediti: Coreografia Nicolas Grimaldi Capitello; Light designer Paco Summonte; Costumi Rosario Martone; Danzano Samuele Arisci, Eva Campanaro, Sibilla Celesia e Marco Munno; Produzione Cornelia; Coproduzione Teatro Comunale di Vicenza

COSTELLAZIONI

Stando a una delle leggi della fisica quantistica, una cosa può contemporaneamente avvenire o no su svariati piani della realtà; per questa ragione, Marianna (Ilaria Delli Paoli) e Rolando (Roberto Solofria), una fisica teorica e un apicoltore, vivono e si incontrano innumerevoli volte. I due innamorati sono come l’esperimento atto a dimostrare la legge: fasciati e isolati da luci uniche, vivono come se il loro fosse un caso esemplare. Lo spazio vuoto prende corpo dalla ripetizione degli eventi, assumendo di volta in volta le sfumature delle emotività dei protagonisti; alle volte cambiano minimi dettagli, lievi inclinazioni della voce o gesti minuti, altre volte sono prospettive opposte. Il loro è un susseguirsi di what if che esplorano la relazione in ogni variabile implicazione. Il tono leggero da commedia romantica, i suoi rapidi meccanismi di battuta e risposta, le incomprensioni e le gaffe, il confronto a tratti conflittuale tra due personalità estremamente differenti, scivolano nel melodramma come la più classica delle storie d’amore. Ilaria Delli Paoli, nonostante i limiti dei ritmi di relazione piuttosto serrati, riesce brillantemente a dare vita a una Marianna che, per quanto sia un personaggio tipico del genere, non di rado si allontana dai toni monocordi del cliché per assumere connotazioni di spiccata personalità. Forse molto più semplice di quanto viene proposto, il racconto dall’intreccio classico procede in maniera lineare e rispetta le esigenze di pubblico desideroso di dolci sentimentalismi. (Valentina V. Mancini)
Visto a Civico 14, Caserta; Crediti: di Nick Payne; Con Roberto Solofria e Ilaria Delli Paoli; Progetto sonoro Paky Di Maio; Regia Roberto Solofria; Traduzione Valerio Piccolo; Impianto scenico Nicola Bove e Vincenzo Leone; Costumi Alina Lombardi; Produzione Mutamenti/Teatro Civico 14

METAMORPHOSIS

L’evoluzione dell’uomo è una lunga serie di complesse implicazioni naturali e culturali che fanno di lui una bestia molto più che pensante. Carlo Massari si districa tra le stratificazioni dell’evoluzione, tra le numerose ipocrisie e costrizioni della bestia molto più che pensante. È come un processo di scarnificazione e nella violenza dell’intenzione, il corpo si scuote in sussulti, sbalzi e convulsioni; lo spazio viene perimetrato e riempito nella sua interezza con un vigore che ha della disperazione. Le tre perfomances operano di sottrazione in quella che può essere, seppur suddivisa in momenti differenti, in una parabola; o in uno strano racconto di formazione dall’umano all’animale. Un uomo in giacca e cravatta si tende ben oltre le rigidità del proprio abbigliamento liberando il gioco con il lancio di coriandoli, e sbeffeggiando a gran voce e con una sonora risata a fior di labbra i credo dei nostri tempi. Poco dopo, il primo contatto con il mondo animale è nel conflitto della produzione intensiva di cibo; il conflitto si scioglie nell’immedesimazione e gli stessi scuotimenti che hanno percosso l’uomo, percuotono l’animale. Perduto l’abito, la nudità inizia a manifestarsi: Massari indossa solo l’intimo e una felpa che riproduce tagli di carne. La sua testa si muove docile a ciondoloni come quella di un bovino. Nell’ultimo quadro, perduto del tutto il contatto con l’umanità e con la fisicità tutta, resta un puro spirito palpitante e irrequieto, tutto teso nel raggiungimento della sua vera natura. (Valentina V. Mancini)
Visto a Sala Assoli, Napoli; Crediti Creazione originale e interpretazione Carlo Massari; Produzione C&C Company; In co-produzione con Oriente Occidente Dance Festival, Teatro Akropolis, Teatri di Vetro, Margine Operativo /Attraversamenti Multipli

CLOUD_ extended

Giovanfrancesco Giannini fa della scena l’esatta riproposizione della propria interiorità: lo spazio fisico è costruito con supporti video, che a loro volta sono funzionali a evocare lo spazio emotivo rendendolo nello stesso momento comprensibile e condivisibile. L’unico vero elemento scenico e narrativo è un corpo che si scompone e ripropone; un corpo che è evidentemente maschile ed evidentemente tutt’altro. Un corpo che sfugge a quello che dovrebbe essere per chi lo possiede e per chi lo osserva: in contemporanea alla clip di un’esibizione di Dalida, il corpo imita le movenze e le interpreta. Seguendo gli stimoli dei video, il corpo assume forme sempre diverse ma con un volto e uno spirito sempre riconoscibile: diventa agonistico e poi mortificato. Allora il corpo si riconosce in tanti altri corpi e diventa il portavoce di martirii: genuflesso, scagliato, colpito, affannato, affaticato, violentato; esattamente come i corpi in video, sconosciuti e indesiderati. Per effetto perturbante, le percosse diventano la base per una coreografia, forse perché in fin dei conti tutto può diventare bello. E se tutto è bello, allora anche quel corpo può esserlo: basta eliminare quell’unico elemento di distrazione e nasconderlo. Sullo schermo appaiono in sequenza le donne più famose della storia dell’arte; quei corpi rosei e morbidi, simboli e modelli, quelli sì conosciuti e ammirati. Perché non diventare quei corpi? Perché non riprodurli col proprio? Perché non sfuggire alle evidenze per offrirsi con generosità agli altri? (Valentina V. Mancini)
Visto alla Sala Assoli, Napoli; Crediti Un progetto di Giovanfrancesco Giannini; Disegno luci Valeria Foti; Produzione Körper | Centro Nazionale di Produzione della Danza; In coproduzione con Ariella Vidach - AiEP, Santarcangelo Festival

BUONI A NULLA

Milano è una città a doppio volto. Lo sanno bene le persone che la abitano, lo sanno anche quelle che vi migrano. Il prezzo delle incredibili possibilità si paga con l’alto rischio di perdere ogni cosa, gli amici, il lavoro, la casa. L’eccitazione si trasforma in rabbiosa depressione. Si perde tutto in un attimo, avvolto dalla vorticosa frenesia di una città che non s’arresta e in cui nulla ti appartiene. Il lavoro coraggioso di Lorenzo Ponte, che nel testo più della regia si mostra ancora non del tutto compiuto, parte dall’idea di appartenenza di uno spazio che possa essere di chiunque lo voglia: il suo palco allora è una degradata stazione del bus ma diventa proprietà apertamente condivisa che si espande in orizzontale nelle diverse ambientazioni scenografiche e in verticale nei tentativi eccessivi di coinvolgimento della platea. È Luca Oldani, un senza tetto marginale eccentrico che dice la verità – forse un po’ folle borderline – a tessere quel legame col pubblico; lo incalza, lo interroga, provoca una situazione di disagio e destruttura i concetti prestabiliti dell’abitare. È marginale anche la redattrice (Paola Galassi) che fatica a mantenersi, lo è lo studente (Tobia Dal Corso) bocconiano disperato nella ricerca di un tirocinio. A partire dall’indagine sociale sostenuta da PRAXIS e condotta a Milano sull’emarginazione e sulle condizioni degli homeless, a teatro queste disuguaglianze delle solitudini periferiche, poco centrate nelle interpretazioni di Galassi e Dal Corso, ci urlano qualcosa nel trambusto caotico della città, chissà che qualcuno ora le ascolti. (Andrea Gardenghi)

Visto al Teatro Franco Parenti di Milano. Crediti: testo e regia Lorenzo Ponte, con Tobia Dal Corso Polzot, Paola Galassi e Luca Oldani, scena Davide Signorini, costumi Giulia Rossena, luci Emanuele Agliati, suono Gaetano Pappalardo e Simone Sigurani,

DALL’ALTRA PARTE -2+2=?

Chissà cosa succede all’interno di un utero materno quando è la vita a originarsi e a prendere forma. Chissà cosa succede quando sono tre feti a condividerlo, costretti a ritagliarsi degli spazi, a crearsi dei ruoli, ad affidarsi dei nomi, anche solo per passatempo. Nel progetto di Putéca Celidònia diretto da Emanuele D’errico, vincitore del Premio Giovani Realtà del Teatro 2019 e semifinalista InBox 2021, tre gemelli eterozigoti, tuta intera blu, sono di spalle, corrono fermi sul posto, legati da un resistente cordone ombelicale ma destinati nel tempo a crescere e separarsi. La voce fuoricampo di Clara Bocchino e le musiche ritmate di Tommy Grieco ne scandiscono lo sviluppo prenatale, ben interpretato da un sensibile cast di giovani attori; c’è Damiano, il bello che ostenta sicurezza con un irriverente egocentrismo, c’è Febo, l’alto e maturo improvvisatosi poeta, c’è Innocente, il più piccolo e tenero, genuino nell’animo e nei sentimenti. I tre feti si muovono e si bistrattano, poi giocano, si spogliano e cambiano abiti fino a rimanere nudi nella propria pelle, per mostrare quella che è, a tutti gli affetti, un’evoluzione biologica che non si compirà del tutto. Anche il loro linguaggio subisce una progressiva trasformazione e da colto, filosofico e nutrito di riferimenti scientifici (tratti dagli studi della University of California) si semplifica, retrocedendo ad uno stato asemantico. Tutta colpa dell’irreversibile perdita di neuroni, ci spiegano i feti, condizione permanente con la quale i fratelli devono scendere a patti. E prepararsi, senza più equazioni risolvibili, a fuoriuscire, dall’altra parte. (Andrea Gardenghi)

Visto al Teatro i di Milano. Crediti: regia e drammaturgia Emanuele D’errico, con Emanuele D’errico, Dario Rea, Francesco Roccasecca, voce Clara Bocchino, assistente alla regia Marialuisa Diletta Bosso, costumi Giuseppe Avallone, scene Rosita Vallefuoco, sound design e musiche originali Tommy Grieco. Produzione Cranpi

IL SOGNO DI UN UOMO RIDICOLO

Rimbomba il canto lontanissimo e religioso di una voce ancestrale nello spazio dilatato del Teatro Strehler. Tutto è di un fitto nero tenebra finché una luce bianca, prima debole poi sempre più intensa (curata con minuzia da Giuseppe Filipponio), compare dall’alto e si espande a cono per scendere tagliente sul palco, dove tutto sembra oramai perduto, ricoperto di terriccio e sabbia. Un uomo, stretto nell’esile corpo in una soffocante camicia di forza, vi avanza senza direzione, confuso dallo spazio che lo ingloba e lo atterrisce; la scenografia ne accentua l’enorme vuoto di mezzo in una continua tensione spirituale tra il basso e l’alto. In questo ambiente, onirico negli elementi essenziali che lo compongono, Il sogno di un uomo ridicolo di Dostoevskij da testo diviene immagine. Il concitato flusso di coscienza dell’uomo meschino prende il corpo di Lavia - che traduce, adatta e dirige lo spettacolo già portato in scena negli anni ’90 -, ne ripete gli spasmi, ne amplifica l’ossessione e la mania mentre l’illuminazione ricade drammatica su di lui, come uno spirito pronto a giudicarlo. Del personaggio dostoevskijano riusciamo a percepire tutto il tormento nei passi trascinati, la follia negli occhi arrossati, la consunzione morale nel corpo raggomitolato. Lavia è intenso, modula la sua presenza tonale e scenica nei tratti del monologo e snocciola ciò che del testo dell’autore russo è parola scritta, diviene vita pronta a negarla, sogno che è un incubo tra cielo e terra. (Andrea Gardenghi)
Visto al Teatro Piccolo Strehler di Milano. Crediti: di Fëdor Dostoevskij, traduzione e adattamento Gabriele Lavia, regia Gabriele Lavia, con Gabriele Lavia, Lorenzo Terenzi, luci Giuseppe Filipponio, fonica Riccardo Benassi, produzione Effimera. Ph Filippo Manzini

LA SECONDA SORPRESA DELL’AMORE

C’è sempre stato qualcosa di inafferrabile nel sentimento dell’amore, di ambiguo e di indefinito, poiché all’iniziale tensione attrattiva ne segue una immediatamente repulsiva. E l’essere umano rimane lì, al centro di una contesa di forze opposte, tenuto come in ostaggio, spinto dal desiderio passionale di lasciarsi andare e trattenuto dalla paura del rifiuto. In Marivaux questo timore assume il carattere di un mascheramento sagace: nella drammaturgia tradotta per la prima volta in italiano da Beppe Navello, i personaggi camuffano i propri sentimenti per sfuggirvi. Fugge la Marchesa (Daria Pascal Attolini), vedova piena di sospiri e tentennamenti, confinandosi in casa per proteggersi dal lutto del primo amore. Fugge il Cavaliere (Lorenzo Gleijeses), indocile e nervoso, ferito dal tradimento e dall’abbandono, trovando riparo nell’indifferenza. Ma è quando i due protagonisti s’incontrano che l’epilogo sembra già rivelarsi (un’abilità sottile che il regista eredita da Marivaux): il nuovo sentimento nel quale incedono sarà una sensibilità condivisa dalla quale dovranno invano affrancarsi. È lì che riprende la fuga all’interno di un labirinto di inganni e fraintendimenti, innescati dal guizzo dei due servi e di Ortensio. Nell’adattamento, il lavoro di Navello, realizzato a partire da un progetto del Ministero per la diffusione dell’autore francese, rimane fedele all’originale nelle sfumature dei sentimenti, scandite da un’illuminazione emotiva di rossi, verdi e bianchi curata da Orso Casprini, e inserisce solo alcuni motivi che ne accentuano la comicità per creare una doppia cornice di pubblico che, tra palco e platea, rimane complice divertito. (Andrea Gardenghi)
Visto al Teatro Piccolo Grassi di Milano. Crediti: di Marivaux, traduzione di Beppe Navello, con Lorenzo Gleijeses, Daria Pascal Attolini, Marcella Favilla, Stefano Moretti, Fabrizio Martorelli, Giuseppe Nitti, regia Beppe Navello, scene e costumi Luigi Perego, musiche Germano Mazzocchetti, luci Orso Casprini, produzione Associazione Teatro Europeo, in collaborazione con Fondazione Teatro della Toscana. Ph Luca Passerotti

LO STRANIERO

Pensato inizialmente per una maggiore quantità di interpreti, Lo straniero di Albert Camus per la regia di Lelio Lecis, visto al Libero, è stato ridotto a monologo per cause di forza maggiore. Così, la scena di Valentina Enna, un elegante incunearsi di luci e ombre, è stata calcata soltanto da Simeone Latini. Il suo monologo, successivo a una sorta di proemio divulgativo sull’autore e l’opera, ripercorre le vicende del protagonista Meursault in un flusso continuo. I fatti relativi agli ultimi giorni del protagonista (i funerali della vecchia madre, una relazione sentimentale, l’uccisione di un arabo) vengono rievocati da un eloquio dal ritmo nevrotico. Troppo: la problematica anaffettività – vera o presunta – dell’antieroe camusiano avrebbe potuto essere più approfondita. Il testo avrebbe forse richiesto maggiore pausa, vuoto tra i suoi momenti; il resoconto del protagonista, che poi è la deposizione rilasciata al giudice nel processo a lui intentato, si svolge qui con eccesso di rapidità tra gli eventi rievocati. Peccato. Certe soluzioni sceniche, il disegno delle le luci, di tono sobriamente minimale, sono nel loro complesso senz’altro suggestivi. (Tiziana Bonsignore)
Visto al Teatro Libero. Crediti: di Albert Camus, drammaturgia e regia Lelio Lecis, con Simeone Latini, costumi Marco Nateri, scenografia Valentina Enna, musiche Peter Gabriel/Tradizionali arabe, assistente alla regia Julia Pirchl, assistente costumi e spazio scenico Stefano Cancellu

DON GIOVANNI INVOLONTARIO

Il Don Giovanni involontario di Vitaliano Brancati racconta le vicende di un Casanova siciliano. A differenza del suo equivalente mozartiano, il protagonista qui non è soltanto un amante appassionato – o presunto tale: è un maschio affetto da “gallismo”, dall’esigenza di mostrarsi sì eccellente cultore dell’ars amatoria, ma più per inettitudine che per slancio. La regia di Saponaro vorrebbe entrare nella vicenda valorizzandone gli aspetti comici, ma forza troppo la mano riducendo la sottile ironia brancatiana, fine come una lama, a farsa parodica poco misurata. Le interpretazioni degli attori e delle attrici vengono costrette a impietose esternazioni macchiettistiche; soltanto Fabrizio Falco, nei panni del protagonista, riesce con consueta asciuttezza a governare il proprio personaggio. Il suo Francesco Musumeci è ora annoiato, ora lascivo, ora esasperato: i passaggi da uno stato all’altro sono ben calibrati e verosimili, nonostante a volte lo stesso Falco sembri perdersi un poco nel caos complessivo. I costumi, di Dora Argento, sembrano uscire dall’universo brancatiano. Interessante anche la scenografia: un edificio di coltri nere all’esterno, che lasciano intravedere la vita domestica che si svolge all’interno. A circondare gli amori di Musumeci è un funesto velo funebre. (Tiziana Bonsignore)
Visto al Teatro Biondo, Crediti: di Vitaliano Brancati, regia di Francesco Saponaro con Fabrizio Falco, Claudio Pellegrini, Antonio Alveario, Simona Malato, Irene Timpanaro, Daniela Vitale, Chiara Peritore, Giovanni Arezzo, Annibale Pavone, Giovanni Arezzo

MOSTRARIO. PARTE 1

Aprire i teatri svincolandoli dalla prassi degli spettacoli serali, aggiungendo prospettive diverse a luoghi bisognosi di essere riconoscibili nelle prospettive cittadine: sarebbe sensato, oltre che utile e bello. Il mastodontico progetto di Reggio Parma Festival è in questo senso un esempio importante: viene chiamato un artista, Yuval Avital, israeliano di nascita ma milanese di adozione, ad abitare tre luoghi teatrali iconici con una trilogia multidiscilplinare in grado di stravolgere gli spazi delle tre istituzioni decentrando lo sguardo dello spettatore. Il primo capitolo del Mostrario, che abbiamo avuto modo di attraversare,  si è tenuto proprio al Teatro Regio di Parma e in questi giorni (10 e 11 dicembre) la terza e ultima parte al Teatro Valli di Reggio Emilia, arrivata dopo il secondo appuntamento del Teatro Due. Insomma un grande progetto emiliano che al Regio di Parma ha visto lo storico teatro d’opera aprirsi ai cittadini, anche nei luoghi solitamente interdetti. La prospettiva palco platea è ribaltata ad esempio: nella fantasia del Ratto delle Sabine la performance avviene sul palco, il pubblico lo attraversa e la platea è chiusa da un velatino che nasconde l’orchestra, nei saloni al piano di sopra una coloratissima e un po’ kitsch discoteca in cuffia, la proiezione di un film, le piccole e preziose sculture in vetro realizzate da Lucio Bubacco (accompagnate dai fiati dell’Orchestra Rapsody) sono solo alcuni degli interventi che compongono sogni e incubi di un artista che sembra poter dispiegare il proprio segno nella musica, come nelle arti visive, plastiche e performative. (Andrea Pocosgnich)
Visto al Teatro Regio. Crediti: Ideazione, drammaturgie, video art, dipinti, scenografie, costumi, musiche e regia Yuval Avital. Entra nella pagina dell'articolo per altre foto e video

GIUSTO

A vederlo entrare in scena così, abito e papillon non proprio su misura, bottiglia di spumante in mano, aria sperduta e tanto imbarazzo, non si può non provare solidarietà. Il Giusto di Rosario Lisma è l’unico individuo davvero “giusto” all’interno del microcosmo nel quale vive: il palazzone dell’istituto previdenziale dove il protagonista, impiegato di origini siciliane trapiantato a Milano, trascorre la maggior parte della propria vita. Il posto di lavoro è un covo fantozziano di belve competitive e senza scrupoli, sempre pronte a vessare il più debole. Nel raccontarlo, l’attore lascia scorrere un catalogo variegato di personaggi, cadenze regionali, specie animali descritte con il piglio di un caratterista acuto ma non altezzoso. Sullo sfondo, i disegni di Gregorio Giannotta ricreano l’atmosfera comicamente fiabesca che già è del testo, sciorinato tra sonorità struggenti e discutibili musiche latino-americane, da festa aziendale. A volte il personaggio sparisce un poco, superato dall’insofferenza del suo interprete: così, la vera protagonista dello spettacolo diviene una personale esigenza di invettiva, che Lisma scaglia contro le storture del mondo come uno stand-up comedian. Il rischio è di scivolare talvolta nel luogo comune; ma lo spettacolo diverte così tanto che anche questo è senz’altro concesso. La risata è, spessissimo, la migliore delle soluzioni. (Tiziana Bonsignore)
Visto al Teatro Biondo di e con Rosario Lisma illustrazioni Gregorio Giannotta costumi Daniela De Blasio luci Matteo Selisaiuto regia Alessia Donadio produzione Fondazione Luzzati – Teatro della Tosse si ringrazia Comasia Palazzo per i movimenti coreografici

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