SE RESPIRA EN EL JARDIN COMO EN UN BOSQUE (El Conde de Torrefiel)
Didattico per chi non è solito andare a teatro e non conosce “le funzioni” dello spettacolo dal vivo, curioso per coloro che invece, avendo un’abitudine al gioco scenico, scelgono di riviverla in una composizione in cui si possono interpretare entrambi i ruoli: quello di chi guarda e di chi viene guardato. Durante Short Theatre 2024 l’ensemble catalano El Conde de Torrefiel presenta al Teatro Cometa Off, vicino al centro festival de La Pelanda, Se respira en el jardin como en un bosque, uno dei diversi progetti guidati da Tanya Beyeler e Pablo Gisbert programmati durante l’ultima edizione curata da Piersandra di Matteo, e drammaturgicamente pensato per dare corpo e tangibilità, attraverso chi vi partecipa, ai concetti di immaginazione, fruizione, azione. Indossate le cuffie, uno alla volta, si è invitati a entrare in scena e a seguire una drammaturgia: prendi questo, posizionati al centro, muoviti in maniera solenne, corri ecc ecc Nel mentre, uno spettatore/spettatrice ci guarda dalla platea; posto che occuperemo alla fine del nostro ruolo attoriale per passare a quello spettatoriale e osservare quello che una nuova persona farà al nostro posto. E così via. Il teatro non è il mondo e il jardin, il giardino, non è di certo un bosque, un bosco, ma in entrambi respiriamo allo stesso modo, nell’uno come nell’altro. L’efficacia di questo dispositivo sta infatti nel far esperire, quindi comprendere, in una modalità agile, libera, divertente principi che spesso vengono assunti passivamente come delle convenzioni e invece sono degli strumenti di azione, creazione e reinvenzione della realtà che ci circonda. Nulla di nuovo quindi ma, in un momento storico in cui tutto è improntato alla user experience e tutto può quindi diventare un fake, conoscere i meccanismi attraverso cui la realtà viene modificata non è solo intrattenimento ma diventa una difesa. (Lucia Medri)
Visto al Teatro Cometa Off durante Short Theatre 2024: di El Conde de Torrefiel; regia, drammaturgia e testo a cura di Tanya Beyeler y Pablo Gisbert; progettazione suono Rebecca Praga coordinazione tecnica Isaac Torres; suono Uriel Ireland; amministrazione Uli Vandenberghe produzione e distribuzione Alessandra Simeoni; produzione esecutiva CIELO DRIVE SL; co-produzione Santarcangelo Festival (IT), CSS Teatro stabile di innovazione del Friuli Venezia Giulia con il supporto di Mas Nyam Nyam, Mieres (ES). Foto Claudia Pajewski
THE SECOND BODY (Ola Maciejewska)
C’è una donna, bionda, molto alta, giovane e vigorosa, veste solo un paio di pantaloni larghi, beige, stringe a sé un pezzo di ghiaccio, sembra essere una scultura; non è un semplice blocco, ha delle parti ondulate, degli incavi che le permettono di afferrarlo. Nella sala della Pelanda c’è il pubblico di Short Theatre posto su quattro lati, a circondare l’area dell’azione, le luci sono accese. Le tende nere sulle grandi pareti di vetro che danno sulla strada sono annodate ai lati, entra la luce della sera e qualche curioso da fuori guarda l’interno, soprattutto due ragazzi si fermano, lui fa qualche foto, lei ride. Intanto in scena Leah Marojević, interprete della performance ideata dall’artista polacca (residente in Francia) Ola Maciejewska, ha cominciato la sua lotta con la scultura di ghiaccio. C’è anche un libro, si intitola, come lo spettacolo, The Second Body, e lo ha scritto Daisy Hildyard nel 2017, non è in scena, ma ispira lo spettacolo. Per Hildyard oltre al primo, in carne ed ossa, abbiamo un secondo corpo, diffuso, in relazione con altri ecosistemi. Nel lavoro performativo di Maciejewska il ghiaccio (rappresentazione fisica del secondo corpo?) si scioglie a causa della temperatura e della frizione del corpo della donna. Il rimando con «gli effetti dell’azione distruttiva dell’essere umano» è davvero troppo leggibile, telefonato si direbbe. Nelle note di accompagnamento della performance si legge che «Ola Maciejewska esplora la dissoluzione tra oggetto e soggetto, animato e inanimato, fino al punto in cui il processo coreografico è trasformato dall’interconnessione con la materia, laddove diversi corpi diventano interdipendenti e correlati». Ma come spesso accade in questi casi il pensiero ideativo è più efficace del lavoro performativo. Il ghiaccio non può fare altro che sciogliersi nell’abbraccio, o rompersi in alcuni punti (quando viene gettato a terra); non c’è altro, neanche un pensiero coreografico o musicale. Non basta la fatica, la passione con la quale la protagonista si contorce sul freddo manufatto, per distrarre dalla noia durante la lunghissima ora di performance. (Andrea Pocosgnich)
Visto alla Pelanda, Short Theatre. Ideazione, coreografia e drammaturgia Ola Maciejewska performer Leah Marojević costruzione coreografica (blocco di ghiaccio) Alix Boillot luci Rima Ben Brahim suono, collaborazione drammaturgia Gilles Amalvi prototipo e calco Mathieu Peyroulet Ghilini assistenza scenica Guenaël Morvan produzione/amministrazione so we might as well dance – Caroline Redy
BLESS THIS MESS (Katerina Andreou)
Probabilmente, quel “mess” a cui fa riferimento il titolo della coreografia di Katerina Andreou, a cui potremmo attribuire significati di caos, pasticcio, disordine, e che a prima vista potrebbe anche descrivere quanto accade sulla scena, sembra più una provocazione, una sfida: casino, sì, ma benediciamolo perché vitale. Perché sottende in realtà a ritmi diversificati, che coinvolgono differentemente i quattro magnifici danzatori - tra cui la stessa coreografa greca, attualmente residente in Francia - su diversi piani fisici, scindendo parti anatomiche, variando il ritmo, l’oscillazione, l'intenzione di esecuzione di uno stesso gesto. In questa costruzione entropica, che parte in maniera più contenuta sotto moduli musicali reiterati e a cura sempre di Andreou, esplode nel corso dei 55 minuti di esecuzione per diventare una summa di energie mai paghe. Anche la disposizione del palco rifiuta l’ordine centripeto: le pedane sono accatastate sul fondo e a un lato, dal cui soffitto pendono alcuni microfoni ambientali che raccoglieranno le sonorizzazioni dei quattro; un ventilatore sotto a una pedana, alcune parrucche e cap diventano escamotage per aumentare le varianti di movimento.
Tuttavia, il cuore di tutta l’operazione è il gioco di reiterazioni con varianti dei movimenti pulsatori, come lo scuotimento del capo a destra e sinistra con cui si apre il pezzo, che poi diventa rotazione a 360° ma che, negli occhi di chi guarda assume connotazioni ogni volta differenti e che passa da una dimensione più placida, quasi sonnolenta dell’inizio fino a un contesto da festa con tanto di fuochi d’artificio, rave e after party. Proprio questa capacità di riuscire a caratterizzare il gesto, senza fronzoli narrativi ma attingendo da un quotidiano intimo, da passi che rievocano alla lontana musiche tradizionali, possibili rituali, o all'esasperazione di codici più astratti, innesca un alto grado di coinvolgimento, tanto da augurarsi di riuscire a vederlo nuovamente in una disposizione più libera, augurandoci di poter danzare insieme a loro. (Viviana Raciti)
Visto alla Pelanda, Short Theatre. Ideato da Katerina Andreou interpretato da Katerina Andreou, Lily Brieu Nguyen, Baptiste Cazaux, Mélissa Guex suono Katerina Andreou con Cristian Sotomayor luci e scenografia Yannick Fouassier consulenza Costas Kekis direzione tecnica Thomas Roulleau Gallais produzione-touring Elodie Perrin
MANSON (Fanny & Alexander)
Manson. Una parola. Un nome. Ma anche l’evocazione del profondo nero della storia americana e, forse, dell’umanità. Fanny & Alexander lo porta sul palco del Teatro Basilica per Short Theatre, alla regia Luigi De Angelis e solo in scena Andrea Argentieri. Charles Manson, ritenuto colpevole di molti reati a partire da quella istigazione all’omicidio plurimo a Bel Air nel 1969, dove morirà tra gli altri l’attrice Sharon Tate, si presenta ai giudici mostrando una dialettica e un magnetismo straordinari, tutto ciò che l’ha fatto diventare un guru diabolico travestito da hippy; ma le sue parole vanno più a fondo e diventano lo specchio traslucido della società in cui si è formato, che rifiutandolo ha posto le basi della sua rivolta. È il processo dunque che rivive: dopo la presentazione del caso in sovrimpressione, il pubblico, che ha ricevuto un foglio con le vere domande poste a Manson, si trasforma in una giuria postuma che dovrà interrogare l’imputato. Argentieri reagisce così a un doppio stimolo: da un lato l’ordine delle domande che dipende dalle scelte del pubblico-giuria, guidato dalla direzione delle luci, dall’altro il meccanismo di eterodirezione caro alla compagnia, che guida l’attore dalla regia tramite un auricolare in cui emergono le vere parole di Manson recitate in inglese – tratte da materiali pubblici diffusi dalla TV americana. Il procedimento artistico si avvale dunque di una immediatezza istintiva che guida il suono e i movimenti, l’attore ignora la sequenza ed è costantemente su un confine di tensione che riverbera nella sua performance, la drammaturgia che ne nasce è ogni volta diversa, secondo il diverso ordine delle domande e degli stimoli. Ma se la caratura del personaggio, che ha utilizzato mediaticamente anche il proprio processo e che ricorre come un paradigma nella cultura americana (basti pensare al C’era una volta… a Hollywood di Tarantino), lo pone come modello perfetto di indagine, allo stesso tempo la predominanza nell’immaginario collettivo affatica il mezzo teatrale, come se la messa in scena dovesse ogni volta rincorrere il personaggio e smarcarsi da un eccesso di notorietà. (Simone Nebbia)
Visto al Teatro Basilica, Short Theatre. Crediti: ideazione, regia, luci, progetto sonoro Luigi De Angelis; drammaturgia, costumi Chiara Lagani; con Andrea Argentieri; consulenza linguistica e fonetica Gabriella Gruder-Poni, David Salvage; promozione e comunicazione Maria Donnoli; organizzazione Maria Donnoli, Marco Molduzzi; amministrazione Marco Molduzzi, Stefano Toma; produzione e production Fanny & Alexander; in collaborazione con Olinda/TeatroLaCucina
BE POPULAR 2024
Quale sia il ruolo del teatro nelle città, come questo debba relazionarsi con la cittadinanza e fare da termometro della contraddizioni riuscendo però ad intrattenere il pubblico: i festival spesse volte tentano di rispondere a queste domande e forse ci riescono soprattutto quando trovano casa nei piccoli centri, nelle tante periferie artistiche ormai diventate tradizione della spettacolarità diffusa italiana. Più difficile quando l’idea ruota attorno a un centro cittadino. Vicenza con i suoi centomila abitanti e più è la quarta città del Veneto per numero di abitanti, ma mantiene le dimensioni di un centro storico raccolto: qui Stivalaccio Teatro - di cui avevamo già parlato a proposito dello splendido Arlecchino muto per spavento - organizza da otto anni Be Popular, manifestazione nella quale cerca di tradurre le qualità popolari del proprio teatro anche all’interno di una programmazione cittadina che quest’anno si compone di ben due settimane. Ed è stata una piacevole scoperta trovare, nonostante il caldo che non lasciava scampo, le platee piene di un pubblico cittadino appassionato, tra parate di buffoni liberi di esprimere anche i pensieri più malvagi della nostra società (o i desiderata politici i qualcuno), presentazioni di libri, spettacoli e concerti. Niente teatri nella geografia di Be Popular, Stivalaccio ha scelto due luoghi all’aperto ma circoscritti, Palazzo Thiene e Palazzo da Schio, il cortile del secondo è più contenuto ma stupisce con i balconcini traboccanti di verdi glicini. Proprietà della famiglia da cui prende il nome e al quale è abbinata un’ottima cantina di vini biologici, lo spazio accoglie per la quarta volta gli artisti di Be Popular in una dimensione intima e che potrebbe fare pensare a quei cortili delle locande così importanti per il teatro elisabettiano o del Siglo de Oro. Qui gli spettacoli si svolgono su piccoli palcoscenici di legno, alla bisogna scenografati con vecchie assi colorate. Abbiamo avuto la fortuna di incontrare due allestimenti sorprendenti, due generi agli antipodi ma che ben raccolgono l’attitudine popular del festival e di Stivalaccio. (Andrea Pocosgnich)
ATTACCHI DI SWING (di e A. Mori e C. Caruana)
Siamo ancora nel cortile di Palazzo da Schio, sulle assi di legno, al centro, c’è anche una abat-jour, di quelle eleganti, da vecchio locale in cui ascoltare buona musica, su due piccole sedie stanno i protagonisti di quello che doveva essere uno spettacolo concerto e che invece diventerà in poco tempo una geniale e incontenibile clownerie musicale di altissimo livello. A sinistra Alessandro Mori, con un baffo che non lascia supporre nulla di buono, a lui i fiati. Tutti, dal clarinetto al sassofono passando per la tromba e per il flauto dolce, sì proprio quello di plastica che ha rappresentato l’incubo di tante e tanti di noi alle scuole medie. A destra, quasi impassibile, se non fosse per certi sorrisi complici, Corrado Caruana, accompagna alla chitarra lasciando di stucco il suo compagno e il pubblico con assoli cristallini e virtuosistici. Mori inanella un numero dopo l’altro trasformando una serata di swing in un travolgente e inatteso spettacolo di teatro-circo in cui la serietà dei pezzi musicali viene interrotta continuamente da strumenti che stonano e devono essere sostituiti o riparati - accade con il flauto dolce, del quale ne escono almeno quattro o cinque esemplari o con una tromba che viene saldata in scena con una stella filante. C’è un’ironia poi, surreale, sulla seriosità della creazione artistica: i brani annunciati sono sempre stati scritti a quattro mani, durante vacanze in montagna o altre situazioni assurde. Intanto il pubblico, in preda alle risate e allo stupore, si chiede se la bottiglia appoggiata sul tavolino - gentilmente fornita dall’azienda agricola da Schio, come viene spiegato più volte nell'ennesima gag comica - sia piena di vero vino o meno. I due bevono senza pietà, ma la musica non si ferma mai, anzi esplode nel finale quando al pubblico vengono consegnati piccoli strumenti con i quali continuare a suonare e a tenere il tempo. In platea ci si guarda stupiti e pieni di gioia. Il teatro è una festa. (Andrea Pocosgnich)
Visto nel cortile di Palazzo da Schio, Be Popular Festival. Di e con Alessandro Mori e Corrado Caruana Coproduzione Teatro Necessario
LA MANDRAGOLA (regia Michele Mori)
È pressoché impossibile trovare il testo teatrale più famoso di Machiavelli in un cartellone: La Mandragola ha bisogno di inventiva comica e di un linguaggio in grado di adattare l’italiano antico. Scritta tra il ‘14 e il ‘15 del Cinquecento, andò in scena per la prima volta pochi anni dopo e fu pubblicata nel ‘24, secondo Voltaire valeva più di tutta l’opera di Aristofane, e Goldoni ammise di averla letta decine di volte da giovane; iperboli a parte l’intreccio scritto dall’autore del Principe può vantare un’ambientazione unica per gli esempi dell’epoca: siamo infatti nella Firenze contemporanea e non in una Magna Grecia lontana nel tempo, qui il giovane Callimaco si innamora di una donna sposata che non riesce ad avere figli col suo vecchio e probabilmente infertile marito, Nicia. Michele Mori, regista e autore dell'adattamento, inventa un prologo a Parigi e un fantastico viaggio a Firenze che avviene grazie a un improbabile aeroplano inventato da Leonardo Da Vinci e poi omaggia Dante che appare con i versi della sua opera più famosa quando Callimaco (nella ricca interpretazione di Francesco Lunardi) dovrà vestire i panni di un dottore e avrà bisogno dunque di una lingua colta. Con Stivalaccio il testo fa un salto di qualche decennio divenendo un canovaccio da commedia dell’arte, con tanto di maschere ad opera di Stefano Perocco di Meduna e Tullia Dalle Carbonare - fenomenali il Nicia/Pantalone veneziano di Elia Zanella e il Ligurio campano di Pierdomenico Simone e una scenografia semplice (ad opera di Alvise Romanzini) ma capace di stupire in alcuni momenti. Nei costumi, un po’ storici e un po’ da guitti circensi, di Licia Lucchese ci sono i corpi di quattro attori giovani, con i quali la compagnia vicentina ha voluto cominciare un progetto di rinnovamento e di passaggio del testimone comico, guidati dalla presenza talentuosa ed esperta di Simone. Il risultato è la riconsegna alle nostre scene di un pezzo di storia della drammaturgia teatrale che riprende vita con una notevole capacità comica e la solita meticolosa e artigianale ricerca di Stivalaccio.(Andrea Pocosgnich)
Visto nel cortile di Palazzo da Schio, Be Popular Festival. Con Pierdomenico Simone /Ligurio e con gli attori e le attrici della compagnia giovani Francesco Lunardi / Callimaco Elisabetta Raimondi Lucchetti in alternanza con Francesca Boldrin / Lucrezia Daniela Piccolo /Fiammetta Elia Zanella / Nicia regia e canovaccio Michele Mori scenografia e attrezzeria Alvise Romanzini maschere Stefano Perocco di Meduna, Tullia Dalle Carbonare costumi Licia Lucchese disegno luci Matteo Pozzobon coreografie acrobatiche Giulia Staccioli arrangiamenti musicali Pierdomenico Simone assistente alla regia Benedetta Carrara
LE NOZZE DI ANTIGONE (Ascanio Celestini)
La vocazione di Cilentart Fest è, fin dalla prima edizione ormai tre anni fa, insieme alla promozione di talenti meno noti del panorama nazionale, quella di fare repertorio, ossia portare spettacoli di artisti già affermati in un contesto e di fronte a un pubblico che difficilmente avrebbero incontrato. E forse quest’anno tale processo arriva a un punto ancora più elevato, ospitando Ascanio Celestini nel paese cilentano di Moio della Civitella non con uno degli spettacoli che lo hanno reso noto a un pubblico trasversale, grazie anche talvolta alla presenza televisiva, ma con un testo scritto ormai 25 anni fa perché lo recitasse Veronica Cruciani, Le nozze di Antigone che torna tra le sue mani e nelle corde della sua voce, in forma di reading e con la fisarmonica di Gianluca Casadei. All’inizio è stato quasi un gioco, racconta Celestini, tornare dentro una storia vecchia pensata per altri, ma poi – ci si accorge anche all’ascolto – certi temi, certe parole, sembrano più attuali di allora. O forse il tempo non cambia mai davvero. O non così rapidamente. Antigone, presa in prestito dalla tragedia sofoclea e simbolo ormai condiviso di coraggio e di lotta al potere, è una giovane popolana dell’epoca fascista che si rivolge al padre Edipo, ormai infermo, malato di guerra, cioè di quella malattia che sembra ricorrere in questi ultimi anni con sintomi nuovi e conseguenze invece eterne, immutabili. Edipo gran camminatore, pieno di scarpe vecchie ma spaiate, tanto a che servono ormai, stancamente vive solo nella relazione che Antigone cerca, ancora, per capire la guerra, la Resistenza, i motivi della lotta. Il mito classico si intreccia dunque a un racconto popolare, rievocando certe atmosfere dei primi testi celestiniani legati più al mondo rurale, alla civiltà contadina, con cui l’archetipo sembra legarsi in maniera indissolubile, come se il racconto fosse un filo teso attraverso il tempo su cui cammina, oscillando, l’equilibrista delle parole. (Simone Nebbia)
Visto a Cilentart Fest 2024. Crediti: di e con Ascanio Celestini; musica dal vivo Gianluca Casadei, fisarmonica
IVAN E I CANI (regia di Federica Rosellini)
È uno dei luoghi simbolo di Cilentart Fest, Perito, il paese in cima a una lunga salita che da una minaccia di abbandono sta tornando a vivere anche grazie alla presenza dell’arte. Proprio qui, nel punto più alto affacciato sulla vallata, Federica Rosellini ha offerto le parole di Ivan e i cani, monologo tratto dalla fiaba nera della drammaturga inglese Hattie Naylor, tradotta da Monica Capuani. Ivan racconta a ritroso la propria storia di degrado, solitudine, violenza, ma anche di un grande e inatteso amore, una solidarietà che lo unisce ai cani con cui ha condiviso la vita di strada: Belka, Vano, Strelka, Ruslan e Kugya. Rosellini è immobile, ha le gambe larghe incastrate tra due tavoli in legno grezzo, poco più che cavalletti improvvisati; affronta il testo in forma di reading, ma attraverso una regia da tavolo aziona una partitura sonora compatta e rugosa, che tesse con le parole una trama fitta; immagini insostenibili si susseguono nel racconto e anche la voce dell’attrice, come la sua postura, non si inarca mai a sottolineare, ma resta tesa ad affondare lentamente nell’ascolto con sapiente equilibrio, lasciando che emergano le emozioni altrui senza tradire le proprie. È una storia struggente e affascinante di vita al margine in cui si avvertono il freddo, il buio, la puzza, la sopraffazione, Ivan cerca di sopravvivere in una condizione di disperata indigenza che solo la foto di Svetlana, una donna che sogna sia sua madre, può attenuare, mantenendo il suo legame con la vita. L’incontro con il primo dei cani, nella depressione urbana dei sotterranei di Mosca, fa nascere una inattesa e silente consonanza: scoprire la medesima condizione permette a Ivan di sentire la fratellanza e il sostegno che non ha mai avuto in casa propria, oppresso dal patrigno come sua madre, che non sa e non può difenderlo. Ivan, rifiutato dal mondo di sopra, trova nel mondo di sotto gli strumenti per una sopravvivenza in difetto, diventa parte del branco e così scopre di saper opporre, alla forza di un potere vessatorio, una speranza insopprimibile. (Simone Nebbia)
Visto a Cilentart Fest 2024. Crediti: un testo di Hattie Naylor; traduzione di Monica Capuani; sound design Federica Rosellini; voce registrata in russo Laura Pasut; performer e regia Federica Rosellini
GLI SPARTANI (di B. Gizzi, regia D. Salvo)
Gli Spartani di Barbara Gizzi, come tradizione comanda, prende il nome dal coro della tragedia: il gruppo di cittadini che qui si anima intorno alle vicende di Clitemnestra. L'abbiamo seguita a Segesta, in occasione del Segesta Teatro Festival. La drammaturgia ricostruisce, non senza un certo compiaciuto eruditismo, la storia della protagonista (Valeria Cimaglia) precedente al matrimonio con Agamennone: il lutto successivo alla morte di Tantalo, i loschi uffici messi in atto dai familiari per darla in moglie ad Agamennone, già uccisore del primo marito e del figlio. L'intento di riscattarne la figura viene in parte offuscato da una scrittura in tipico "traduttese", che sciorina non poco melenso pietismo. Se l'intento era quello di «creare un testo moderno ma scritto alla maniera dei tragici greci», forse a vincere è proprio la maniera. Ridotto ad esercizio stilistico, il dramma descrive una vicenda tutto sommato superficiale e legata quasi esclusivamente allo svolgimento del solo racconto mitologico, privo di ancoraggi effettivi al presente. Proemio, parodo ed episodi rimangono fossili poco consoni al nostro tempo, se la storia tra essi svolta rimane una storia di cliché superati. La tradizione tragica non è e non può essere un serbatoio di vicende sciagurate da riproporre in forme pedisseque, pena il cedimento a facili retoriche. Piuttosto, essa è misura del rapporto tra l'uomo e le cose, le credenze, l'universo. E se siamo nani sulle spalle dei giganti, è anche vero il contrario: che spesso, per guardare bene al passato, bisogna usare la lente del contemporaneo. La regia di Daniele Salvo non brilla qui di particolari soluzioni; il sonoro è piuttosto cinematografico (ci si ritrova pure qualcosa delle musiche del Gladiatore, tanto per intenderci). Buone le interpretazioni di attori e attrici, tra i quali una solida scuderia di interpreti "tragici": Massimo Cimaglia (Tindaro), Giuseppe Sartori (Agamennone), Elena Polic Greco (Leda). (Tiziana Bonsignore)
Visto a Segesta Teatro Festival. Regia Daniele Salvo, drammaturgia Barbara Gizzi, con Valeria Cimaglia, Massimo Cimaglia, Giuseppe Sartori, Elena Polic Greco, Giulia Sanna, Ugo Pagliai (voce di Ebalo), coro Guido Bison, Gabriele Crisafulli, Lorenzo Iacuzio, Gianvincenzo Piro, Tommaso Sartori, Damiano Venuto, costumi Daniele Gelsi, disegno Luci Giuseppe Filipponio, elementi scenici Andrea Grisanti, assistente alla regia Matteo Fiori. Progetto speciale MIC 2023
A SOLO IN THE SPOTLIGHTS (di e con Vittorio Pagani)
Vittorio Pagani, danzatore e coreografo classe 2000 impone un marchio di pungente ironia sardonica al suo A Solo in the Spotlights, creazione selezionata per l’ultima Vetrina della giovane danza d'autore eXtra e visto, tra le varie occasioni, a Kilowatt Festival. Si tratta di un elegante ma giocosa messa a nudo di una logica che appartiene al mondo della danza, (ma diremmo in generale al mondo dell’entertainment) che però viene sempre taciuta, e lo fa mettendone in scena i meccanismi perversi attraverso una logica socratica e mai artefatta, dove ciò che è manifesto svela il suo contraltare opposto senza mai forzare troppo la mano. Pagani, con possanza e grazia, crea una danza che è figlia di una posizione intellettuale precisa, porta in scena un movimento sessualizzato e lo critica; chi dice che a essere oggetto di desiderio smodato siano soltanto i corpi femminili? Vedi per esempio la questione sollevata sul nuotatore olimpionico Thomas Ceccon, ammirato più per il fisico che per la medaglia. In scena lui stesso, in veste di anonimo performer dal volto coperto da un passamontagna – ma rosa shocking, attraente e modarolo, come gli shorts, a contrasto con gli onnipresenti calzini di spugna, must del danzatore contemporaneo – è a un provino per uno spettacolo. Danza, inventa, si presta: fa di tutto perché possa essere preso. Il problema è quanto pesa questo “tutto”, fin dove spingersi pur di ottenere ciò che si desidera. E poi? Se bisogna essere sempre più performanti, catchy, aggressivi ma disposti a sottomettersi pur di stare dentro il sistema, a perdere le proprie idee cedendole al nome più forte, è quasi scontato tacitare il proprio senso etico e civile. Ma non solo, a esser presa di mira è anche una certa tecnica e gli strumenti utilizzati per ottenerla, come per esempio il momento di virtuosismo in cui una frase coreografica viene inventata dal personaggio, per poi essere eseguita molte altre volte con caratteristiche sempre diverse, secondo indicazioni di un voice over che fa le veci del coreografo, fino a stremare il malcapitato che, tra speranza e ingenuità, accetta tutto senza batter ciglio, anche un verdetto negativo. (Viviana Raciti)
Visto a Kilowatt Festival 2024. Coreografia, drammaturgia, interpretazione Vittorio Pagani produzione The Place London spettacolo selezionato per la Vetrina della giovane danza d’autore 2023 – Network Anticorpi XL produzione esecutiva Equilibrio Dinamico collaborazione alla drammaturgia Hannes Langolf, Martin Hargreaves luci Mark Webber
DIVINE (di D. Manfredini)
Radunarsi attorno ad una storia: questo lo spirito tra le panche di legno di Terreni Creativi, dove da quindici anni si raccoglie una comunità variegata e numerosa di spettatori locali e pochi addetti ai lavori. Radunarsi in ascolto di una voce la cui fonte è schiva, come rannicchiata in un angolo, spettatrice anch’essa di immagini che, nel tratto fugace del carboncino e dell’acquerello, favoriscono visioni. Divine, nato da un adattamento di Danio Manfredini del romanzo Nostra Signora dei Fiori di Jean Genet, avrebbe voluto approdare al cinema ed è oggi invece un rito di affabulazione tutto teatrale. Eppure la scena è vuota, piena solo del destino disperato e poetico di Louis Culafroy – Divine e di Manfredini, solo voce e tratto pittorico proiettato sul fondale, un vero e proprio storyboard. Scritto in carcere, praticamente autobiografico, il romanzo aprì uno squarcio su un mondo sommerso, dove fede, vizio, violenza si compenetrano, la bellezza è desolazione, o viceversa. La voce di Manfredini è orchestra polifonica, percorre i vicoli bui di quella Parigi di miseria, erotismo e solitudine e lo fa con grazia priva di sforzo, o meglio con la grazia di chi lo sforzo sa nasconderlo per lasciare più spazio possibile all’evocazione. Perfettamente eterea e irrimediabilmente corrotta, ora docile ora graffiata, la voce-corpo di Manfredini ci immette in un immaginario popolato di figure che pur risuonando con l’oggi non trovano la forza di infrangersi sul presente per farlo vibrare di nuova verità, per illuminarlo da una prospettiva feconda. Tanto vibrante è l’esperienza dell’arte attoriale al suo livello più alto e compiuto, quanto il racconto resta sospeso, distante, non riuscendo a superare la dimensione museale, archeologica di un viaggio nel tempo, non agevolato dalle scelte musicali che accompagnano la visione insistendo sul contrasto, da Bob Dylan a Eminem fino ai Pink Floyd, suoni che strappano via lo spettatore dal finale. (Sabrina Fasanella)
Visto a Terreni Creativi 2024 – Albenga Di e con Danio Manfredini. Liberamente ispirato al romanzo Nostra Signora dei Fiori di Jean Genet.
Victory Boogie Woogie (di Charles Pas)
Passa una luce dorata tra le cassette di plastica grigia del consorzio agricolo che ospita la XV edizione di Terreni Creativi, il festival di Kronoteatro ad Albenga. Davanti a questo sfondo suggestivo il corpo di Charles Pas si fa abitare dal gesto. Ripete azioni didascaliche, quotidiane: percorre il palcoscenico disegnando con le gambe e le braccia le mura di un appartamento, gli scaffali di un supermercato, l’abitacolo di un’automobile. I confini del suo mondo sono gli spettatori disposti sul perimetro del palcoscenico, chiamati in causa dalla riconoscibilità delle situazioni sollecitate dal suono, il soundscape di Rint Mennes che anima con precisione millimetrica l’universo di Victory Boogie Woogie. La ricerca del danzatore e performer belga Charles Pas, classe 1998, focalizza il movimento come mezzo per rivolgersi all’intimità dello spettatore, tra «performance, teatro dell’assurdo e realismo magico». Il titolo della pièce evoca l’ultima tela incompiuta di Piet Mondrian: emigrato negli Stati Uniti durante la Seconda Guerra Mondiale, il pittore olandese auspica e celebra la vittoria della guerra dal punto di vista americano. Ma l’evocazione di questa danza vittoriosa è qui sardonica. Chi, cosa ha vinto? Charles Pas è schiavo di se stesso, il corpo rinchiuso nella gabbia di riti vuoti e ossessivi. Il mosaico di colori esplode in un campionario di gesti, una routine vorace che macina, spersonalizza, si esprime all’imperativo: lavora. Consuma. Soffri. Ripeti. In un crescendo doloroso, l’ambiguità risiede nell’origine della forza: a muoverlo è la coercizione o la strenua resistenza ad essa? Lo studio sulla costruzione e destrutturazione del gesto quotidiano di Pas non avrebbe che pura efficacia tecnica se non fosse accompagnato dal suo sguardo docile, intenso, umano, che tende la mano allo sguardo dello spettatore, sembra chiedere aiuto e invece chiede solo di essere visto. E in lui, vediamo noi: stanchi, persi, soli. Eppure, capaci di empatia: salvarsi forse è ancora possibile. (Sabrina Fasanella)
Visto a Terreni Creativi 2024 – Albenga idea e interpretazione Charles Pas. Idea e composizione dal vivo Willem Lenaerts, Rint Mennes. Mentori Stephen Liebman, Liet Lenshoek, Suzy Blok. Drammaturgia Wessel Padberg. Costumi Bonne Suits. Produzione Likeminds in collaborazione con A Fully Coherent Plan, ICK Artist Space.
MURILLO, LEZIONI DI ELEMOSINA (di Claudia Castellucci / Societas)
Si può condensare in venti minuti il senso di un gesto? Occorre convocare in una sala un corpo, pensare un ambiente completamente alieno a quello da cui lo spettatore proviene, suggerendo, come di fronte a una statua, di aggirarsi attorno alla figura che nel frattempo si muove, rivolgendosi al cerchio degli astanti, proponendo loro delle pose raggiunte tramite uno studio dettagliato di ogni giuntura e muscolo, calibrando durata, intensità e spostamento del punto di vista. Claudia Castellucci porta a Santarcangelo Festival 2024 un tableau vivant sul gesto e l’atto dell’elemosina, ispirato alla produzione pittorica di Bartolomé Esteban Murillo, poeta visivo del secondo Seicento spagnolo che – andando oltre i dipinti a tema sacro – aveva ornato le case del ceto medio-basso con scene di vita di strada, tra mendicanti e picari affondati nella polvere degli angoli urbani. L’interno che si apre sulla strada preda di un’afa invincibile è avvolto in una tiepida foschia e nella semioscurità. Ci accoglie di spalle l’interprete – Silvia Ciancimino – avvolta in un mantello scuro, calzando un sudicio cappello a tesa larga, i piedi anneriti dal camminare scalza. Immobile come un’inquietante guardiana di ronda notturna, attende che il pubblico le disegni attorno un cerchio per avviare un movimento che, di fatto, s’interromperà solo a posa assunta, per pochi secondi che la preparano a quella successiva, realizzando una misteriosa teofania. Il suo volto, solcato da sottili rametti di pianta fissati su fronte e gote, si colora a volte di un inquietante sorriso; chiede muta ciò che non ha e, al contempo, offre il niente che ha, porgendo le mani o disegnando spirali a terra, mostrando – ed è un atto di laica oscenità – gambe forti sotto le pesanti squame della veste. In questi tempi intrisi di frenesia per la significazione, di rado si assiste a una tale rigorosa celebrazione del segno; nello spettacolo della sottrazione lo sguardo resta disarmato di fronte alla potenza dell’immagine e del corpo. (Sergio Lo Gatto)
Visto a Porta Cervese, Santarcangelo Festival. Tableau vivant di Claudia Castellucci parte del ciclo “Veduta di”, interprete Silvia Ciancimino, musica e suono Stefano Bartolini, organizzazione Valeria Farima, tecnica Francesca Di Serio, produzione Benedetta Briglia, amministrazione Michela Medri, Elisa Bruno.
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