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Lo spettacolo è vivente. Tiago Rodrigues, direttore di Avignone, sul festival più importante d’Europa

Tiago Rodrigues, regista e drammaturgo, alla direzione del festival di Avignone, racconta linee, tendenze, valori e unicità della storica kermesse teatrale che si terrà dal 5 al 26 luglio.

By Heart. Testo, regia e interpretazione Tiago Rodrigues

Nato nel 1977, Tiago Rodrigues, attore, drammaturgo e regista portoghese, cresciuto nella scena indipendente (con la compagnia Mundo Perfeito dal 2003 al 2014), poi direttore artistico per sette anni del D. Maria II di Lisbona, rivoluzionando da dentro la maggiore istituzione teatrale del suo Paese, aprendola a nuovi pubblici e facendone una casa per gli autori, è creatore originale di una produzione autoriale intensa e variegata che ha conquistato il pubblico europeo (patria d’elezione la Francia), e non solo. Abbiamo imparato a conoscere i suoi lavori, frutto di una scrittura molto libera e in stretta collaborazione/interazione con soggetto (preso tanto dall’esperienza personale che dal riattraversamento dei classici), società (un’attenzione particolare ai margini) e attori (con cui lavora durante il processo di scrittura), carica di curiosità conoscitiva, ironia e amore per il teatro e per l’umano. Rappresentato internazionalmente, in Italia abbiamo potuto apprezzare opere come Sopro (intorno al mestiere di suggeritore, ispirata all’esperienza vera di Cristina Vidaldell), By Heart (in cui, lui sul palco, riesamina, rivive e impara a memoria con il pubblico il sonetto 30 di Shakespeare), Dans la mesure de l’impossible (in cui indaga il lavoro degli operatori umanitari), Catarina e a beleza de matar fascistas (in cui si confrontano imperativi di resistenza politica e dilemmi morali).
Per il terzo anno Rodrigues è direttore del festival di Avignone (ma con understatement, e non per posa, ripete nel presentarsi: “Mi chiamo Tiago Rodrigues, e lavoro al festival di Avignone”), la festa di creazione e messa in scena immaginata e voluta nel secondo dopoguerra (inaugurata nel 1947) da Jean Vilar, che in quasi ottant’anni (dal 5 al 26 luglio 2025 si svolgerà la sua 79esima edizione) ha fatto la storia del teatro (francese, europeo e mondiale), costituendo un appuntamento imprescindibile per gli appassionati dello spettacolo dal vivo e un punto di riferimento dove si concentra e accade ogni estate la magia della scena in forma potenziata, decisiva, indelebile nel ricordo.
“Non si va al festival, non si va ad Avignone – ricorda Rodrigues – Si fa Avignone. Gli spettatori dicono: quest’anno ho fatto la mia [segue ordinale] Avignone”, sottolineando il ruolo attivo, reiterativo, esperienziale, costitutivo e complice del pubblico.
Direttore attento, onni-presente con discrezione (dai caffè del mattino al Cloître Saint-Louis, cuore organizzativo del festival e sede di incontri e dibattiti, agli spettacoli diurni per la città, fino agli allestimenti notturni, il clou di più di 40 produzioni in tre dense settimane), gentile, reattivo, vive quest’impegno con dedizione ed estro, polso e responsabilità, nel costante riconoscimento del lavoro di equipe e dello sforzo collettivo (molte centinaia i lavoratori coinvolti, un team di valore e una macchina oliata ed efficiente, un programma selezionato in stretta collaborazione e assiduo scambio, in particolare con Géraldine Chaillou per la scelta della produzione francese e francofona e con Magda Bizarro per il panorama internazionale, quest’ultima sodale dai tempi dagli esordi giovanili lusitani).
La guida di un’istituzione significa rispettarne e interpretarne storia e valori che, lungo le direttrici di decentralizzazione (in dialettica con Parigi), democratizzazione (per un teatro popolare e aperto, anti-elitario) e creazione (più della metà degli spettacoli sono produzioni fatte apposta per il festival e debuttano nella città dei papi), si confronta a caldo (essendo cosa viva) con il mondo e i suoi accadimenti, sconvolgimenti e imprevisti inclusi. L’anno scorso le elezioni anticipate francesi hanno colto di sorpresa ma non impreparato il festival, che fra primo e secondo turno, con l’avanzare alle urne della destra estrema, ha prodotto una mobilitazione coraggiosa e non scontata di artisti, pubblico e società civile (in una nottata battezzata La nuit d’Avignon) come risposta, riflessione, argine a quello che veniva percepito come un pericolo per i capisaldi di democrazia, antifascismo, apertura e inclusione, valorizzazione delle diversità che costituiscono il DNA della manifestazione.
Il lavoro del curatore è certamente una selezione curiosa e significativa del meglio (spesso in potenza, trattandosi di nuove produzioni talvolta lavorate fino all’ultimo), ma somiglia un po’ anche a quello – fa notare Rodrigues – di un giardiniere: far/lasciar crescere, in un terreno fertile e irrigato, una vegetazione selvatica, materia vivente di cui si è chiamati a prendersi cura, rispettandone bisogni espressivi ed esistenziali, dando impulso al rigoglio delle piante (e, fuor di metafora, dei palchi), valorizzandone bio-diversità culturale, interazioni feconde e bellezza.
Come autore Rodrigues porta quest’anno al festival uno spettacolo,
La distance, ambientato nel futuro prossimo, una “fantascienza intima” (definizione sua) che immagina il rapporto fra un padre e una figlia partita per trasferirsi su Marte, dove l’umanità va in esilio per sfuggire alle conseguenze del cambiamento climatico. Pensare un altro mondo possibile, rispetto a quello minacciato dalle apocalissi del nostro distopico quotidiano è anch’essa una vocazione teatrale.
Sulla suggestione di queste distanze da colmare (inter-generazionali, orbitali, di mondi reali e immaginati), abbiamo parlato con Tiago Rodrigues di alcune dimensioni che un festival, e il teatro, possono provare ad attraversare (e stanno attraversando) oggi. Gwenaël Morin, artista lionese amico di Avignone, a partire dall’immagine iconica del Pont Sait-Bénezt, quel Pont d’Avignon della canzoncina crollato che simbolicamente resta per metà sospeso sul Rodano, ogni anno porta avanti un laboratorio dal titolo
Démonter les remparts pour finir le pont (quest’anno il suo lavoro si concentra sull’Eschilo dei Persiani, la più antica tragedia conservata nella sua interezza). Proviamo dunque con il direttore a colmare qualche iato, ad avvicinarci al festival. Ché il teatro significa colmare distanze, e provare a costruire ponti.

Because the night. Da sempre la dimensione della notte gioca un ruolo importante, elemento costitutivo dell’esperienza avignonese. Nôt, lo spettacolo di apertura di quest’anno ideato dalla coreografa capoverdiana Marlene Monteiro Freitas (artista complice di questa edizione, Leone d’argento 2018 alla Biennale Danza di Venezia), prende ispirazione da Le mille e una notte (l’arabo è la lingua ospite di quest’anno, dopo inglese il primo anno, e lo spagnolo lo scorso). La notte racconta uno spazio di sospensione, fra il sogno e la veglia, dove il racconto diventa veramente un mezzo di sopravvivenza. È anche la dimensione del dionisiaco e del desiderio (la cui etimologia evoca la distanza dalle stelle, e la spinta dantesca a rivederle)…

Sî, la notte è un elemento centrale e fondante del festival d’Avignone fin dall’intuizione limpida e originaria di Jean Vilar. Molti luoghi del festival, dalla Cour d’honneur del Palais des Papes al giardino della Maison Vilar, dal Cloître des Célestins alla Cour du lycée Saint-Joseph, fino alle cave del Carrière de Boulbon [a 15 km dalla città], sono spazi a cielo aperto. Si tratta di situazioni sceniche en plain air, spazi non progettati originariamente per lo spettacolo che vengono adattati per questa funzione, e che a loro volta influenzano e informano, rendendoli unici, gli allestimenti. Con il calare delle tenebre e delle temperature è infatti possibile convocare questa assemblea particolare sotto le stelle. È una dimensione propizia alla festa, e all’estate, di cui la parola festival porta le tracce. La notte è anche l’apertura all’avventura, una possibilità di trasformazione.

Lo spettacolo di Marlene Monteiro Freitas s’intitola con la parola creola che indica la notte e il riferimento a Le mille e una notte, oltre a un richiamo alla lingua ospite, potrebbe definire in qualche modo lo spirito del festival.

Quest’anno poi tornerà ad Avignone Le Soulier de satin, il testo di Paul Claudel che ha segnato la storia di Avignone nella versione di Antoine Vitez del 1987 entrata nella leggenda. Lo spettacolo si svolgerà nel corso dell’intera notte, nella messa in scena di Éric Ruf [produzione della Comédie Française, da poco premiato con 5 Molières].

Poi, in effetti, nel programma di quest’anno la notte ricorre, come tema o suggestione, in diversi lavori, come Delirious Night di Mette Ingvartsen o Derniers feux di Némo Flouret

Leggo da programma di sala (l’epopea di Claudel dura 8 ore, e andrà in scena nella mitica cour d’honneur del Palazzo dei Papi) che “sono ammesse coperte e cuscini” per affrontare la nottata, letteralmente dal tramonto all’alba… Una battuta celebre del testo che ben si adatta a questa dimensione recita: “il ne faut plus regarder que les étoiles”. Ma questa esposizione alla volta celeste è anche quella al tempo, cronologico e meteorologico…

Sì il teatro contempla il rischio, l’imprevisto è un aspetto centrale dello spettacolo dal vivo, e questa dimensione è esaltata nello spettacolo all’aperto, esposto ai capricci del cielo.

Come durante lo spettacolo d’apertura della scorsa edizione di Angélica Lidell [Dämon. El funeral de Bergman], nel quale l’artista a un certo punto dice: “Perché il teatro è tempo, e il tempo ci avvicina alla morte…”, e – dopo una pausa – cominciò una pioggerellina incantata. L’artista ha saputo cogliere e accogliere quell’accidente, trasformandolo in qualcosa di speciale. Kairos e catarsi, a giudicare dall’applauso partecipe del pubblico.

Eh, abbiamo molto lavorato per quel momento – dice ironico Rodriguez -, perché la pioggia cominciasse precisamente in quell’istante, su una battuta così significativa. Scherzi a parte, quel momento è stato un caso, e nello stesso tempo un momento memorabile della scorsa edizione, perché il teatro è anche questo, con la sua capacità di trasformare l’incidente in risorsa. È intrinseco allo spettacolo dal vivo fare risorsa di quello che va storto. E quello è stato un momento molto intenso che ha segnato il festival.

Un altro miracolo del teatro, un’altra distanza che colma, è quella che potremmo definire dell’incontro (im)possibile: il dare corpo ai fantasmi (dargli il benvenuto, per dirla con Amleto). Penso agli omaggi in programma quest’anno: quello a Jacques Brel (Anne Teresa De Keersmaeker et Solal Mariotte al Carrière de Boulbon immaginano una danza sulle sue canzoni, in quel luogo magico inaugurato e rivelato dal Mahabharata di Peter Brook nel 1985), quello a François Tanguy (uomo di teatro scomparso nel 2022, del quale andranno in scena Item e poi Par autan, il suo ultimo lavoro, opera testamento dell’esperienza del Théâtre du Radeau). Ma penso anche allo spettacolo itinerante di Milo Rau Lettre, che racconta dell’ossessione di due attori, uno che vuol far rivivere, impersonandola, Giovanna d’Arco, e l’altro che vuole recitare Il Gabbiano di Čechov, insieme alla nonna morta. Un incontro (im)possibile è pure quello fra Israel & Mohamed che costruiscono un ponte tra due lati del Mediterraneo, e due pratiche artistiche (il flamenco di Galván e il teatro documentario di El Khatib).

Naturalmente incontri (im)possibili sono anche quelli che avvengono con i classici: Morin che lavora su Eschilo (nei Persiani c’è pure, fra l’altro, uno spettro paterno) o Thomas Ostermeir, che torna dopo dieci anni (dal suo Riccardo III) ad Avignone, con L’anatra selvatica di Ibsen.

Ma anche nel suo recente No Yogurt for the Dead, lei dà voce alla fantasma di suo padre. Su un altro livello, satirico e surreale, pure Christoph Marthaler con Le sommet (Il vertice, debuttato da poco al Piccolo) ragiona su incomunicabilità e impossibilità dell’incontro.

Sì, da sempre il teatro fa questo: convoca i fantasmi, e fa vivere i morti sulla scena. Il lavoro sui classici ne è un esempio importante. Non dobbiamo chiederci se i classici sono attuali, divremmo domandarci se noi siamo alla loro altezza.

Potremmo dire che il pubblico è sempre letteralmente chiamato a partecipare a un party con i fantasmi. Ma l’esperienza del teatro rende vivi i fantasmi, li rende palpabili, qualcosa di cui facciamo esperienza per davvero. Da questo incontro il pubblico è necessariamente toccato e trasformato.

C’è in questo senso anche una responsabilità del pubblico nell’incontro?

Sì, che lo voglia o meno, il pubblico è un complice e partecipa attivamente, non solo perché il teatro non esisterebbe senza la sua presenza, ma perché, che apprezzi o meno ciò che vede, fa un’esperienza rischiosa. L’esperienza del consumismo, tipica del nostro tempo, è fare quello che sai già che ti piace, spesso nell’era digitale senza nemmeno uscire di casa. Andare a teatro, partecipare a un festival, implica un viaggio, fare un investimento, spostarsi scommettendo, e farlo per di più per qualcosa che non sai nemmeno se ti piacerà. Ma sia che l’esperienza soddisfi sia che disturbi, il pubblico collabora alla creazione e ne è segnato.

Il pericolo, la peculiarità destabilizzante di questa esperienza, è evidente in un episodio della censura durante la dittatura in Portogallo, negli anni Cinquanta: una compagnia voleva mettere in scena Desiderio sotto gli olmi di Eugene O’Neil ma il regime lo vietò. Nello stesso periodo nelle sale portoghesi arrivava il film del 1958 con la Loren da quella stessa pièce. In una lettera aperta molto coraggiosa gli artisti si chiesero perché il film potesse essere visto e il lavoro non potesse essere fatto a teatro. E la censura rispose che il film è qualcosa che è avvenuta altrove, lontano. Il teatro nella sua prossimità e presenza è qualcosa di più scandaloso che ci riguarda molto da vicino, invece.

Ancora una questione di distanze. In diversi spettacoli di questa edizione si parla del rapporto genitori-figli (nel suo La distance, in MAMI di Mario Banushi sulle figure del materno, in Taire che ruota intorno ad Antigone…). La questione della famiglia e dell’eredità, di che cosa lasciamo ai nostri figli, anche nella società, è presente nel suo teatro (penso a Hécube, pas Hécube e a No Yogurt for the Dead) ma anche all’attenzione del festival nel coinvolgere un pubblico nuovo e giovane…

Certo l’apertura ai giovani è una delle missioni del festival. Ed è compito di un curatore far si che si raggiunga un pubblico il più variegato possibile, pensare a tutti i pubblici potenziali.

Il tema dell’accesso democratico alle arti mi è particolarmente caro perché, da giovane, entrare in contatto con il teatro e altre forme d’arte mi ha trasformato, in qualche modo mi ha reso una persona più felice, e certamente mi ha indirizzato verso il fare teatro. Con questo non voglio dire che tutti i giovani che scoprono il teatro debbano finire col fare teatro, però quello che è certo è che tutte le persone che entrano in contatto col teatro, con le performing arts, e direi con l’arte in generale, hanno più opzioni, sviluppano una maggiore immaginazione e acquisiscono altre prospettive attraverso le quali vedere e comprendere il mondo. Credo che la diversità dei punti di vista e dei modi di immaginare il mondo sia messa a rischio da un’opinione pubblica molto polarizzata e dominata da visioni semplicistiche, in cui tutto si riduce a essere pro o contro qualcosa, per il sì o per il no. Le arti fanno sì che differenti visioni delle cose possano coesistere in armonia, e che il dibattito non sia necessariamente violento ma arricchente. In democrazia due punti di vista diversi che si confrontano dovrebbero produrre un punto di vista terzo, migliore rispetto a due punti di vista identici. Questa idea di dibattito è centrale nel modo di guardare il mondo attraverso le arti e ci riporta ancora una volta alle fondamenta di questo festival, alla missione di Jean Vilar che voleva che persone molto diverse fra di loro, ricchi e poveri, provenienti dai background più diversi, si potessero ritrovare di fronte agli stessi spettacoli di teatro da eguali, e poi recuperassero le loro differenze nella discussione su quegli spettacoli. Ecco perché il dibattito ad Avignone è così importante, il dibattito degli spettatori fra loro e quello con gli artisti. Avignone è uno spazio non solo di visione, spettatoriale, ma di discussione, di presa di parola e confronto. La partecipazione non è solo guardare quello che avviene sulla scena, ma poi poterne parlare nelle strade, nei caffè. Alla diversità della proposta corrisponde anche una diversità ricettiva. In questo quadro è importante il coinvolgimento dei giovani, che sono nella fase in cui stanno dando forma alle loro visioni del mondo. E le loro visioni sono diverse e in costruzione.

Rispetto a questo segmento di pubblico avete una proposta specifica…

Attraverso il programma Première fois cerchiamo di favorire questa esperienza, coinvolgendo e favorendo il rapporto con gruppi di giovani da scuole e istituti medico-sociali. Migliaia di giovani fra i 13 e i 19 anni hanno così l’opportunità di partecipare al festival. Gli organizziamo trasporto, ospitalità, facciamo loro partecipare a workshop e spettacoli. Stanno formando non solo uno sguardo sul teatro ma delle visioni del mondo. Non si tratta quindi solo di coltivare gli spettatori del futuro ma sopratutto di fare esprimere i loro punti di vista, dare loro più opzioni, più strumenti e più possibilità e aprirli a una cittadinanza piena e partecipativa.

E il pubblico risponde bene…

Abbiamo ottimi segnali che molto pubblico verrà quest’anno ad Avignone, e sarà probabilmente uno dei migliori anni della storia del festival in termini di presenze. Questo fatto per me è la prova di come il pubblico è consapevole di avere bisogno di teatro, danza e arte nella sua vita, e sa che può averli solo attraverso la partecipazione. E Avignone è un esempio di quello che è accaduto nei secoli, della lunga storia d’amore fra pubblico e artisti.

Questa vocazione politica, potremmo dire civica, di Avignone è rappresentata anche dalle parole del poeta palestinese Mahmoud Darwich che dicono: “Io sono nelle tue parole” e che introducono l’idea di lingua ospite, quest’anno l’arabo. Essere l’altro, vedere con gli occhi dell’altro avviene attraverso la lingua dell’altro. Questo mettersi nei panni dell’altro, oltre a un movimento tipicamente teatrale è un tema che attraversa una serie di proposte di quest’anno: Affaires familiales di Émilie Rousset parte dagli archivi giudiziari per indagare i conflitti in seno alla famiglia, la serata di lettura, curata da Milo Rau, degli atti del processo Pelicot, che tanto ha colpito l’opinione pubblica, ma penso anche a uno spettacolo come Gahugu Gato (Petit Pays) che, a partire dal romanzo di Gaël Faye, affronta il tema della memoria del genocidio dei Tutsi in Ruanda. Insomma il teatro si occupa di presa di parola, di giustizia e di verità (temi decisivi anche nel suo Hécube dello scorso anno, e nell’Ibsen scelto da Ostermeier, che ruota intorno al potere destabilizzante della verità).

Penso che la questione della giustizia sia molto presente oggi nella nostra società. Non solo la giustizia legale o delle aule di tribunale, ma quello che potremmo definire il valore della giustizia, che fa parte della democrazia e del vivere in comune, ed è un tema presente e centrale nella vita e nel dibattito sociale, e assume molte differenti forme nelle produzioni artistiche. È sicuramente un fil rouge di questa, ma anche di altre edizioni, poiché è una questione profondamente radicata nel pensiero contemporaneo, che si tratti della giustizia per gruppi o persone storicamente oppressi, che oggi trovano sempre più spazi dove denunciare questa oppressione e luoghi per prendere la parola. In tal senso penso che la questione della discriminazione e del razzismo è molto connessa a quella giustizia storica. La giustizia è molto legata alle questione sociale dell’uguaglianza, in particolare nella declinazioni della parità di gerere, che è una battaglia ancora molto attuale che non va sottostimata: le pressioni e le violenze che vengono ancora spesso applicate in molte società sulle donne nel mondo, e ancora in Europa. E anche questa credo sia una questione importante e che si tratti di una questione di giustizia.

In una società polarizzata, fondata sull’accusa e dominata dal sensazionalismo dei media, la questione della giustizia è centrale. Perciò emerge in molti lavori. Non è tanto una scelta di curatela, ma gli artisti possono colgono un fenomeno della società e ci restituiscono delle questioni relative alla giustizia facendoci non solo pensare ma fare esperienza di queste problematiche. Sono quindi temi presenti esplicitamente in molti spettacoli ma che emergono anche tra le righe in tantissimi lavori in maniera significativa.

Tiago Rodrigues e Milo Rau. Foto Matteo Columbo

Un’altra distanza da colmare appare sempre piû quella fra l’uomo e la natura. I temi ambientali (in La distance si parla anche di climate change) sono decisivi. Penso a The desert di Radouan Marizga, o all’esplorazione del paesaggio di Prélude de Pan sulle orme di Jean Giono…

Certamente il tema ambientale è una preoccupazione che emerge dalla proposta degli artisti ma che arriva da molti settori della società. E la sensibilità alla questione ambientale è centrale anche nella concezione di un festival che è organizzato da un team al quale sta molto a cuore la questione ecologica. Le 700 persone che lavorano al festival ormai da anni, anche prima del mio arrivo, sono molto attente alla responsabilità e all’impatto ambientali. E questa sensibilità, in modo ancora più forte dopo la crisi pandemica, viene espressa dagli artisti che hanno trovato modi di connettere le loro preoccupazioni e l’attivismo a nuove forme estetiche, talvolta usando gli spazi naturali non semplicemente come una bella cornice ma innanzitutto rispettando e preservando questi spazi, e provando a riconnettere gli spettatori con questi luoghi. Così assistiamo a spettacoli nei boschi, sulle colline, o anche in luoghi, come la Carrière de Boulbon, che è in parte naturale e in parte frutto dell’intervento umano. Gli artisti usano il paesaggio come un elemento attivo del loro lavoro. Si tratta di una linea di ricerca che abbiamo perseguito consapevolmente in questi anni: il desiderio artistico di connettersi a quello che i francesi, con un’espressione che mi piace molto, chiamano “le vivant”, che comprende tutto ciò che vive, animali, piante, tutto quello che di non umano è vivente. Riconnettersi con queste forme di vita è qualcosa che ci sta a cuore e alla quale prestiamo grande attenzione, sua come ambito di ricerca e sperimentazione che nel ruolo di curatori.

Matteo Columbo

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Matteo Columbo
Matteo Columbo
Matteo Columbo (1975, Milano), laureatosi in Scienze della Comunicazione a Torino con una tesi di storia del cinema su Paul Schrader, un master in redazione alla Fondazione Mondadori, ha lavorato in editoria per vent'anni come ufficio stampa per la casa editrice Ponte alle Grazie. Scrive di cinema per passione, coltivata alla fine del millenio scorso al Cineforum San Fedele di Milano attraverso lo sguardo di Ezio Alberione, per Duel (poi duellanti, ora duels.it) e altre testate. Da giovane ha scritto un libro sulla rappresentazione cinematografica della città che ama: New York. Sguardi sul labirinto (Loggia de' Lanzi, 1997). Più o meno dal Faust di Giorgio Strehler è sempre andato a teatro, negli ultimi anni con una certa vitale assiduità, scrivendo di quello che lo entusiasma per www.illbraio.it e altri. Da quando aveva dieci anni si diverte a fare giochi di prestigio.

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