Raccontiamo le tre aperture di Camera, un nuovo formato di Short Theatre “sui procedimenti, i gesti e le pratiche alchemiche che trasformano una visione sensibile in una drammaturgia per la scena”.

Tra le sedie schierate a semicerchio sul palcoscenico, in seconda fila ne manca una. Non alle estremità delle due ali, ma stranamente al centro della formazione, simile al vuoto dopo l’estrazione di un dente. La ritroviamo, quella sedia cavata, di fronte a una scrivania posta a sinistra della scena, eccentrica, ma su cui pure converge lo sguardo. Sul tavolo diverse cartelle colorate, dall’aria un po’ scolastica. Chissà perché è stata scelta proprio quella sedia. O, forse, è solo stata una dimenticanza nel disporre l’emiciclo, e la sedia posta davanti alla scrivania non ha nulla a che vedere con quella “fantasma”.
Tra i tre momenti di Camera a Short Theatre, quello di Eva Geatti, l’ultimo in ordine di tempo, ci accoglie come il più strutturato, più “teatrale” nella sua formulazione, magari al di là delle intenzioni dell’artista friulana, che ci invita a un gioco compilatorio di moduli scritti in un’iperlingua burocratica e preceduti da una prolusione. Geatti è intrigata, irriverente, divertita dal rapporto generale tra forma e contenuto, là dove la tensione tra i due genera astrazione. A volte però la forma resta senza soggetto, come quei quadretti nei bed & breakfast in cui appare incorniciata la password del wifi, o il voto degli ospiti (9.8), o come il vuoto di una sedia assente in un punto casuale della platea.
Camera non è però un format pensato per restituire percorsi giunti alla maturazione di un qualsivoglia equilibrio formale, all’assenso verso uno stadio del proprio lavoro che precede il patto col pubblico, quanto più per aprire lo spazio mutevole del procedere-verso, esponendosi a prove e ripensamenti di fronte a una microcomunità invitata-a. E come tra le camere di un appartamento, prossime e comunicanti ma che raccolgono memorie, rituali, età e momenti della quotidianità diversi, tra queste tre camere si possono seguire scie di corpi che animano col loro sguardo comunicante l’edizione di Short Theatre.

Carolina Bianchi, autrice, regista e performer brasiliana, sceglie di condensare un fermo immagine della sua ricerca attuale in una lectio che si dissoda però nella sonorità della lingua portoghese, piegata e ripiegata in un verseggiare semplice ma ben temperato. La sua camera è teatro del conflitto tra chi vede e chi scrive (e dunque non ci sottraiamo: anche tra noi e lei), tra l’arte e la sua reductio critica, tra la scrittura che non si stacca dal corpo, perché è corpo, e la loro storica scissione tra materia estesa e cogitante. La violenza del pensiero critico, per Carolina Bianchi, sembra intrinseca: esso separa ciò che è unito nel lavoro dell’arte, ciò che fluisce è sbranato in nome della tassonomia. “Odiano ciò che non riescono a classificare”, dice Bianchi, apostrofando quei “pensatori del cimitero dell’arte” che vivono o hanno vissuto tra l’accademia e i vernissage, lontani dalle periferie di sé stessi e dalle costellazioni più remote dello spazio artistico (in ciò risuonando un biasimo preciso verso la critica brasiliana, esplicitamente evocata).
L’intensa corrente del discorrere volteggia più volte intorno al bigottismo che la critica ha esercitato per quasi un secolo sull’opera di Emily Dickinson. Prima derubricata a folle e “zitella”, poi emendata nella sua stessa scrittura di alcune eccentricità – come la presenza di trattini “-” che ne avrebbero reso monotona la poesia. Infine riabilitata, ma sempre in quanto singolarità rappresentante di una scrittura femminile che affiorerebbe qui e là in una storia al maschile, la stessa che categorizza l’arte di persone razzializzate, queer, o di altri gruppi non-conforming.
“I’m nobody – who are you?” diceva Dickinson in una folgorante apertura di verso, precedendo col sottrarsi e l’inquisire il gioco perverso della classificazione. Un* poeta, d’altra parte, “non è mai un uomo o una donna”, dice Bianchi: si sottrae a ogni tentativo di messa a fuoco, costringendoci gli occhi a socchiudersi per limitare la luce, per vedere meglio i margini.

Così da una camera entriamo nell’altra, dove Industria Indipendente colloca un’installazione video che è la lenta dissolvenza di un esasperato effetto blur su un volto in lenta oscillazione. Silvia Calderoni presta la sua vocalità raminga a un Quixote al femminile: una cavaliera senza sonno, e perciò tutta sognante, che pulsa tra vita e morte.
Don Quixote: Which Was a Dream (1986) è uno dei romanzi più radicali di Kathy Acker, attraversamento di un mondo fatto di pornografia, malattia e misticismo. Alla fine della lenta, ipnotica trasmigrazione audiovisiva è proprio Acker il volto che appare sotto quel gradiente ormai dissolto: non un materiale d’archivio, ma AI-generated. Acker dorme col capo reclinato sulla spalla di una vicina di viaggio, forse sul vagone di un treno: eppure è difficile inquadrare la cornice della scena, perché il rendering dell’AI è esso stesso un processo onirico, di layerizzazione di infiniti luogh che risultano in una spazialità erronea, sovrabbondante.
“Questa è l’ora della spazzatura”, concludeva Carolina Bianchi, o dell’eccedenza, come hanno detto Bottiroli e Caleo introducendo queste camere. O dei trattini emendati in poesie violentate e delle sedie estratte in platee cariate.
Andrea Zangari
Roma, Short Theatre, settembre 2025













