Al Teatro Argentina per Romaeuropa Festival 2025 l’ultima creazione di Caroline Guiela Nguyen, una riflessione sull’intraducibilità dell’amore tra una madre e una figlia in un paese straniero.
“Nelle visite ‘mediatisee’ (con presenza di mediatrici) io vedo cosa succede: una madre che porta tanto cibo per suo figlio, e una psicologa che mi dice: ‘Porta sempre troppo cibo per suo figlio, dovrebbe capirlo!’. E io dico alla psicologa: ‘Il problema è che da noi, in tamil, la parola “Ti amo”(ti voglio bene) non esiste, ok? Nella mia lingua, mia madre non mi ha mai detto “Ti amo”. Ma me lo ha dimostrato. Nutrire il proprio figlio fa parte dell’amore che una madre dà a suo figlio. Non a un anno, non a due anni, non a tre. Per tutta la vita. Quell’unico figlio tanto amato, era tutto ciò che quella donna aveva in questo paese. ‘Ho solo te, vivo solo per te, quindi ti darò tutto il mio amore.’”
Le mot je t’aime n’existe pas. La parola amore non esiste, documentario di Raphaele Benisty (disponibile in versione integrale qui) è ciò a cui continuo a pensare dopo aver visto Valentine di Caroline Guiela Nguyen al Teatro Argentina per Romaeuropa Festival. Il documentario, raccontando in prima persona il lavoro di mediatrici e mediatori in contesto migratorio ne svela possibilità e contraddizioni profonde. In uno dei monologhi finali una mediatrice dice in francese: “Sentivo la frustrazione dei professionisti, la frustrazione delle persone, degli utenti, e mi chiedevo come potessi portare tutto questo peso. Essere interprete mi dava davvero la capacità di portare e assumermi tutto questo?”.
Come tradurre o come mentire quando il futuro di qualcuno dipende dalle proprie parole? A partire da questa domanda Caroline Guiela Nguye scrive e dirige un lavoro delicato e al tempo stesso struggente che si appoggia sulla solidità di una drammaturgia e di una regia che svelano la realtà in maniera semplice e potente come lo fa una fiaba, tra proiezioni video e orsacchiotti giganti, tra diagnosi cliniche e violini suonati dal vivo, tra bla bla bla incomprensibili e amore tra una madre e una figlia.
La storia è quella della madre di Valentina — la protagonista dello spettacolo — che parte con la figlia da Bucarest per andare a cercare in Francia una salvezza per il suo cuore. Lì, si ritroverà nella condizione della persona migrante per motivi di salute a confrontarsi con la mancanza di un servizio di mediazione all’interno dell’ospedale. “Non posso arginare l’emorragia del sistema!” le dirà esasperata e disarmata la dottoressa, non riuscendo a parlare con la sua paziente rumena che non parla il francese. Sarà allora Valentina, in fine, a caricare su di sé quel ruolo di mediatrice, prendendo sul proprio corpo un ruolo che la società non dovrebbe addossarle; avrà la capacità di portare e assumersi tutto questo?
Dopo Saigon (qui il racconto di Andrea Gardenghi che affrontava il tema dell’identità e delle radici nel contesto del colonialismo francese in Vietnam) e Lacrima, Caroline Guiela Nguye, direttrice del Théâtre National di Strasburgo, decide di lavorare a partire dalla dimensione dell’interprete, come racconta nella sua intervista sul foglio di sala, partendo da un’esperienza personale di assenza/presenza di questa figura. “La mia interprete alla Schaubuhne non era disponibile per le prove del mattino; quando le ho chiesto dove fosse, mi ha risposto: “Sto accompagnando donne ucraine per tradurre durante il parto”.
Dopo aver incontrato l’associazione Migrations Santé Alsace e diversi interpreti ed essersi confrontata con cosa significhi ritrovarsi in momenti intimi quale può essere un parto, o dover annunciare notizie terribili come un espulsione o una diagnosi di malattia, Caroline Guiela Nguye ha deciso di iniziare il suo progetto incontrando una comunità che non conosceva, quella rumena.
Così, in una scena firmata da Alice Duchange e illuminata da Mathilde Chamoux si richiama il tremolio estatico del cuore sacro di un ex voto, nel paesaggio sonoro di un battito cardiaco nella sonorizzazione di Quentin Dumay; preso dalla lingua rumena e francese, lo sguardo del pubblico si divide tra i sovratitoli in italiano e la regia video live di Aurélien Losser che costruisce di volta in volta la dimensione dell’album di famiglia, del meccanismo teatrale che si fa graphic novel, delle videochiamate che tentano di cucire la distanza con la Romania, dei primi piani con gli sguardi al pubblico che misurano la verità e la menzogna. In scena Chloé Catrin, Angelina Iancu e Cara Parvu (in alternanza), Loredana Iancu, Paul Guta e Marius Stoian. La madre e la figlia dialogano con le istituzioni – ospedale e scuola – rappresentate da figure di riferimento: la medica e la direttrice scolastica, ruoli incarnati alternativamente da Chloé Catrin, che nell’istituzione sanitaria è preda della violenza istituzionale e richiede alla madre di Valentina di trovare una mediazione per rendersi comprensibile; e dall’altra nell’istituzione scuola che con la presenza del mediatore, il signor Popa, e di un orsacchiotto gigante, riescono a costruire almeno per la bambina uno spazio di fiducia e relazione indispensabile per l’apprendimento di una lingua.
Il lavoro con attori e attrici non professionisti è sempre un rischio: il rischio di pretendere che la loro presenza basti alla scena quali testimoni identitari di una specifica comunità, esperienza o denuncia, o il rischio di vedere un testo che ne sovrasta la presenza scenica. Nel teatro di Caroline Guiela Nguyen, invece, le intuizioni drammaturgiche sono case incantate nelle quali si muovono uomini e donne che nella maniera più semplice cercano un incantesimo. Per trovare le e gli interpreti la regista e autrice aveva messo un annuncio in una chiesa ortodossa, portando con sé nello spettacolo quelle immagini di santi e miracoli. Lontana dal padre e troppo vicina alla madre, la Valentina di Angelina Iancu e Cara Parvu è Regina della notte del mozartiano Singspiel, è mediatrice, è un piccolo miracolo, “cosa meravigliosa” da ammirare. Attraverso il lavoro delle interpreti l’esclusione e la discriminazione linguistica si esprimono nell’assenza di ponti, nell’invalicabilità di una realtà monolingue che agisce come confine sociale e simbolico da non poter varcare o da dover ingannare. E se restiamo da soli in un paese straniero, in quanti modi ci possiamo capire? La donna proverà allora ad affidarsi al segnale debole della propria rete sociale in un paese straniero, ai traduttori online con il proprio smartphone ancora (per poco?) inadatti a comprendere una diagnosi clinica, ai gesti, alla parola scritta, fino a dover chiedere il sacrificio della propria figlia, e qui si che per avvicinarci al rumeno possiamo tornare alla radice latina del sacrum -ficium, del fare sacro di una figlia.
Perché in fondo all’incanto di questa fiaba c’è il disincanto di una denuncia contro le violenze ordinarie che affronta chi prova a vivere il sistema della salute in un paese straniero, e la storia attualissima di un’infanzia costretta a sopperire all’emorraggia del sistema diventando troppo presto genitore della proprie madre e del proprio padre. E al tempo stesso è una tragedia più ampia sul linguaggio, che ci porta con straordinaria delicatezza nella vulnerabilità di chi apprende una nuova lingua, finché la parola e perfino la menzogna spariscono e si fanno azione, finché le mot je t’aime n’exist pas. Ecco il teatro.
Visto in un Teatro Argentina forse non pieno quanto avrebbe potuto essere (ma su questo si legga l’articolo di Andrea Pocosgnich) lo spettacolo della direttrice del Théâtre National di Strasburgo incarna nella sua trama il tentativo di capirsi e quello, in qualche modo, di salvare chi si ama. Che forse, in fondo, è l’unica possibilità che rimane per salvare il proprio cuore.
Luca Lòtano
Visto al Teatro Argentina, Romaeuropa Festival – ottobre 2025
Testo e regia Caroline Guiela Nguyen
Con Chloé Catrin, Angelina Iancu e Cara Parvu [in alternanza], Loredana Iancu, Paul Guta e Marius Stoian
e le voci di Iris Baldoureaux-Fredon, Adeline Guillot e Cristina Hurler
Drammaturgia Juliette Alexandre
Complicità artistica Paola Secret
Scenografia Alice Duchange
Consulenza e interpretariato per il rumeno Natalia Zabrian
Assistenti alla regia Iris Baldoureaux-Fredon, Amélie Énon, Axelle Masliah
Musica Teddy Gauliat-Pitois
Suono Quentin Dumay
Luci Mathilde Chamoux
Video Jérémie Scheidler
Operatore di ripresa Aurélien Losser
Costumi Caroline Guiela Nguyen, Claire Schirck
Trucco Émilie Vuez
Assistente alla regia tirocinante Noé Canel
Film d’animazione Wanqi Gan
Accompagnamento degli abitanti-attori Flora Nestour
Casting Lola Diane













