Venerdì è cominciata la diciottesima edizione del Napoli Teatro Festival Italia, da cinque anni chiamato Campania Teatro Festival. I comunicati coi numeri degli eventi in offerta, una mostra, un concerto, i primi spettacoli, l’agenda e la fretta dettate dal presente. Ma com’è nato diciott’anni fa questo festival? Reagendo a quali assenze, e attraverso che sforzi, sollecitando che suggestioni, facendo quali promesse, prendendosi – con la città, col teatro e col pubblico – quali impegni? Riavvolgiamo la bobina come farebbe Krapp, rimettendo in fila fatti, dinamiche e numeri. Forse vedremo meglio ciò che incontreremo in rassegna, facendocene più chiaramente un’idea.

Autunno 2006, il Ministero per i Beni e le Attività Culturali emette un bando, scopo: «Realizzare un festival nazionale di teatro nominato Teatro Festival Italia (TFI) con l’obiettivo di incrementare interesse e partecipazione del pubblico, in particolare quello giovanile, al teatro in tutte le sue forme». A dicembre la nomina della commissione valutativa (Salvo Nastasi, direttore generale dello spettacolo dal vivo, Maurizio Giammusso, segretario dei Premi Olimpici del Teatro, Antonello Pischedda, commissione prosa del MiBAC, e l’attrice Pamela Villoresi), a marzo la scadenza: undici i progetti. S’impegnano a «organizzare l’evento già a decorrere dall’anno 2007 con un’attività propedeutica al vero e proprio festival», da tenersi nel 2008 e 2009 «per almeno due settimane consecutive nei mesi compresi tra maggio e settembre», con «specifiche proposte in merito alle politiche di prezzo dei biglietti» – occorre favorire studenti e studentesse, detta il Ministero – e un piano d’ospitalità (convenzioni con ostelli, B&B, residenze universitarie «e altre soluzioni economiche»), «con particolare riguardo ai giovani provenienti da altre località e dall’estero» insiste il bando, marcando all’unisono vocazione internazionale e ricerca d’un pubblico rinnovato. Concorrono, per esempio: Regione Lombardia e Provincia di Milano, Città di Torino e Regione Piemonte, Mittelfest, Fondazione di Venezia, Regione Umbria, Provincia di Campobasso. Ad aprile il verdetto. Vince la Regione Campania d’una spanna su Genova. «Napoli ha vinto di poco» svela il ministro Rutelli. «La nostra proposta è stata giudicata molto bella» ma – commenta Carlo Repetti, direttore dello Stabile ligure – «sono state fatte scelte legittime di politica culturale per aiutare Napoli, che ne ha più bisogno di noi». Si tratta, spiega il sindaco di Genova Giuseppe Pericu, di «motivazioni di tipo diverso, anche dettate dalla necessità di sostenere la sua riqualificazione territoriale». Sarà, ma il Teatro Festival Italia di Napoli intanto com’è stato pensato?

Un Comitato di Progetto per la stesura della candidatura formato da istituzioni (Regione Campania, Comune e Provincia di Napoli), soggetti pubblici e privati (Stabile di Napoli, Teatro Nuovo, Teatri Uniti) e professioniste e operatori di settore, trenta pagine e una premessa: il «rapporto tra la storia dei maestri e la spinta verso la ricerca», uno scenario di «sale storiche, anche di recente recupero», spazi off e «siti museali e archeologici, chiese e cortili, piazze, parchi ed arene» e l’affaccio al Mediterraneo, che significa Sud del mondo, migrazioni, «l’apertura a culture diverse». In concreto. Il porto come «città-festival», con spazi multipli e intercambiabili, attivi h24, perché contengano spettacoli internazionali e «le opere dei più sconosciuti degli artisti», un teatro-spianata nei pressi del mare, l’area dei Grandi Magazzini come cittadella d’arte – «sarà la fonte di sorpresa del festival» – capace di trasformarsi di notte «in luogo di ritrovo e divertimento», «una nave-albergo alla fonda per l’ospitalità delle compagnie giovani e del pubblico». Ancora: la relazione tra passato e futuro, la territorialità interpretata da chi è straniero e l’alterità di chi viene da lontano, «l’integrazione dei linguaggi creativi» più che il loro accumulo in sezioni distinte, perché «è una caratteristica della cultura d’oggi». E il prologo? Una settimana di incontri, laboratori e anteprime tra traghetti, molo e città, e una programmazione «dagli orari e dai luoghi sfalsati» che «dia un senso e una tonalità di quel che sarà il festival». Accade dal 10 al 14 ottobre 2007. Chiòve, regia di Francesco Saponaro, e l’Ubu delle Albe, A Hundred Charmers di Roysten Abel e Per Amleto di Michelangelo Dalisi, Maria Stuart di Andrea De Rosa, il Sogno di una notte di mezza estate della Schaubühne, le prove aperte de La trilogia della villeggiatura di Toni Servillo, il Falstaff laboratoriale di Mario Martone, Renato Carpentieri e Lorenzo Gleijeses coi ragazzi di Nisida, i trenta studi dei gruppi under, tre mostre, una performance-video di William Kentridge, la tavola rotonda Il teatro e il tempo, i dialoghi con Antonio Latella, Mario Martone, Roysten Abel, Thomas Ostermeier e Costanza Macras. Arriva il 2008, da tre mesi Renato Quaglia è stato nominato direttore – «lo ha stabilito all’unanimità il CdA della Fondazione Campania dei Festival» – e si parte davvero.

Tre sono i tratti distintivi d’un festival che, non avendo passato, «deve costruire la propria identità a partire dal proprio futuro» scrive Quaglia nel magazine (cinquantacinque pagine «che sostituiscono un catalogo») con cui viene presentata non solo l’edizione 2008 ma anche e soprattutto l’indirizzo che dovrà avere il cammino. Dunque: il ripensamento di Napoli, ventricamente abitata da artisti e artiste perché sia oggetto di racconti privi di stereotipi e cliché. L’importanza data alle compagnie che stanno ai confini del sistema. L’internazionalità intesa come assorbimento o scambio spugnoso. Sono i fondamenti irrinunciabili, sono le ragioni dell’esistenza stessa del festival. Tant’è: la costituzione di una compagnia europea fatta d’attori e attrici provenienti da Italia, Spagna, Francia e Portogallo che negli spettacoli lega tra loro le lingue d’appartenenza senza traduzione né soprattitoli (nel 2018 recita Le troiane di Euripide), Tiziano Scarpa, Adonis e Banana Yoshimoto in residenza in città per la stesura di un testo (L’inseguitore, Alberi adagiati sulla luce e Chie-Chan e io), England di Tim Crouch diretto da Carlo Cerciello, Cosa deve fare Napoli per rimanere in equilibrio sopra un uovo del Teatro del los Sentidos, Pene d’amor perdute di Demarcy-Mota coprodotto tra Francia e Portogallo e associato a lab che portano anche attrici e attori italiani a Lisbona e Parigi, il workshop di regia e drammaturgia che il NTFI mette su col National Theatre Studio di Londra, il Master europeo di Progettazione e Organizzazione culturale. Sono gli spunti più evidenti d’una manifestazione che al primo anno offre 34 spettacoli nella sezione principale (20 regie italiane, il 58,8%; 14 straniere, il 41,1%) e 30 lavori di artisti e compagnie giovani (Nuove Sensibilità, da un’idea di Angelo Montella, pari al 46,8% dell’intera rassegna), che cerca pubblico non già teatralizzato anche nei musei (il Madre) e nei locali della città (il Lanificio 25, il Kestè), invade vie e piazze col teatro di strada e scardina il tempo quotidiano all’improvviso e all’aperto, nei luoghi ordinari della vita, mette in contatto i Maestri e le Maestre della scena con la teatralità under organizzando le Conversazioni d’autore ed elabora Le Giornate del Teatro perché si parli delle professioni dello spettacolo dal vivo. «Napoli e l’Europa sono le coordinate entro cui questo festival intende collocarsi» scrive Quaglia; «occorre pensare nel presente già alla scena del futuro» sostiene Rachele Furfaro, presidente della Fondazione. Il viaggio è appena iniziato.

Dal 2008 le edizioni sono diciotto (2025 compresa). Quattro direzioni: Renato Quaglia nel triennio 2008/2010 (16,6%), Luca De Fusco nel quinquennio 2011/2015 (27,7%); Franco Dragone nel 2016 (5,5%), Ruggero Cappuccio dal 2017 (nove edizioni, il 50% del totale): al terzo mandato (prossima scadenza 11 luglio 2027, compenso lordo annuo 120.000 euro; coadiuvato da Nadia Baldi, consulente artistica e assistente del direttore fino al 2021, 40.000 euro lordi di compenso, dal 2022 vice-direttrice artistica: 84.000 euro lordi). Al netto di concerti, proiezioni cinematografiche e altre attività extra-palco (la mostra fotografica, la passeggiata nel parco, la presentazione del libro, il progetto sui Borbone) gli spettacoli di teatro e danza sono 1.142. Di questi 300 (il 26,2%) hanno fatto parte di Nuove Sensibilità (2008), del Fringe E45 ideato da Interno 5 (2009-2013) e del Fringe 2014-2015, dell’Osservatorio (2017/2025), ovvero delle rassegne parallele o della sezione specifica dedicata alle compagnie giovani o in condizione di costante fragilità produttiva. I restanti lavori, da “programmazione maggiore”, sono 842 (73,7%). Dei 1142 spettacoli complessivi 221 sono avvenuti con Quaglia (19,3%), 229 durante il mandato di De Fusco (20%), 42 nell’anno di Dragone (3,6%), 650 da quand’è direttore Cappuccio (56,9%). Un primo calcolo: nei diciotto anni di festival le compagnie giovani hanno rappresentato poco più d’un quarto dell’offerta.

E l’internazionalità? Degli 842 spettacoli considerati parte del programma principale 618 (73,3%) hanno coreografia o regia italiana, 224 (26,6%) sono di autori o autrici straniere. Insomma, under ed estero assieme costituiscono il 45,8% dei diciotto programmi pur essendo stati considerati in principio, e da progetto, il motivo per cui il festival è nato. I giovani quindi, o le realtà più fragili: sono il 43,4% dei programmi firmati da Quaglia (96 spettacoli su 221), il 33,1% con De Fusco (76 su 229), Dragone cancella il Fringe nel 2016, mentre l’Osservatorio ideato da Cappuccio ha previsto finora 128 spettacoli (19,6% del totale). Regie e coreografie straniere in rassegna principale: 46,4% con Quaglia, 41,1% con De Fusco, 47,6% con Dragone, 15,9% con Cappuccio (il 20,6% nel 2017/2019 e il 17% nel 2023/2025 volendo escludere il triennio 2020/2022, influenzato dal Covid). Infine, l’innesto territoriale. Totalmente ambientato in città fino al 2015, il Napoli Teatro Festival Italia è regionalizzato da Franco Dragone nel 2016: sei luoghi extra-partenopei su ventiquattro (Salerno, Caserta, Avellino, Vallo della Lucania, Valva e Sant’Angelo dei Lombardi) ospitano ora uno spettacolo, ora una residenza e la messinscena che ne deriva. Dal 2021 il Napoli Teatro Festival Italia si chiama Campania Teatro Festival. Via dunque il termine “Napoli”, sostituito col rimando all’istituzione (la Regione) che fa da primo finanziatore. Il motivo del cambio detto in conferenza stampa? La ricollocazione eterogenea e capillare della rassegna. Ebbene, negli ultimi cinque anni sono 82 i luoghi toccati dal festival, 55 nel napoletano (67%), 27 nelle altre province (32,9%). Ma nei primi sono avvenuti 488 eventi (93,6%), nei secondi 33 (6,3%).

testo e regia Oriza Hirata. Di Oriza Hirata. 2010
Uscendo una sera da teatro dopo aver visto chissà quale spettacolo, non lo ha svelato mai per iscritto, Nicola Chiaromonte sente svuotata la propria funzione di critico. Non sa a cosa gli servono gli appunti che ha preso per un’ora, ripensa al fatto che ha battuto le mani anche se non ne avvertiva il bisogno e mentre attende il tram si domanda se ha senso scrivere o meno l’articolo. Il viaggio verso casa lo ricorda terribile, come l’attraversamento di un’incertezza o di un vuoto. Una volta in cucina scansa la cena, che gli si appanna raffreddandosi, e comincia a scrivere su un foglietto, a penna blu, pochi appunti che saranno all’origine di una riflessione messa poi anni dopo su un giornale, ma che oggi non ricorda quasi nessuno. «Perché scrivo?» si chiede. «Scrivo» e spiega a se stesso. Scrive per il silenzio che si fa quando scrive e perché se scrive il mondo per il tempo in cui scrive scompare. Scrive per dubitare e imparare, per tacere e studiare. Scrive per darsi un ruolo. Scrive nella speranza di diventare importante per qualcuno. E perché s’illude che qualcuno lo cerchi, una volta che ha scritto. Ma scrive anche perché ciò che è bene è bene e ciò che è male è male e non deve accadere che appaia diversamente. E scrive per una società di cui sente di far parte, che crede possa diventare migliore e di cui non sopporta le bassezze e le scorie. A un punto il fiato e la mano gli si fermano e commenta «stasera sono tornato alle origini».

Vale a un punto anche per gli eventi culturali ovvero per le cose del teatro in cui siamo invischiati? Colma l’agenda, schiacciati al presente, ne rimuoviamo le radici, i principi. Perché è sorto ciò che sorse e quali furono i motivi per cui qualcuno disse sì? Il Napoli Teatro Festival Italia comincia, tra l’altro, per strappare alle abitudini localistiche il pubblico permettendogli di incontrare poetiche impensabili e spettacoli nati lontano. Comincia per ridurre l’autoreferenzialità di una certa scena campana. Comincia per offrire a chi è artisticamente acerbo l’opportunità di un’autentica esperienza di crescita. E comincia per variare – tra crisi dei rifiuti e convenzionalità solita – i modi di dire e di intendere questa città, perché a Napoli si ritrovi una quantità più grande di mondo rispetto a quella che già l’attraversa di solito, perché si ha la speranza che accada qualcosa d’altro rispetto a quel che una stagione offre di norma e che l’esistenza ti propone quasi ogni giorno. Tant’è, spettacoli stranieri (spesso per la prima volta in Italia) e compagnie giovani nei primi tre anni costituiscono più dei due terzi del programma (il 69,6%); negli ultimi nove sono meno d’un terzo (32,4%). Ogni direzione artistica legittimamente impone una linea ma chi frequenta, chi guarda e chi scrive, dinnanzi a un senso che pare vago o perduto, ha il dovere di ricordare i fondamenti, fare memoria, tornare alle origini. Proprio come capita a Chiaromonte una sera, dopo aver battuto in sala le mani senza motivo. «Perché scrivo?» ha quella volta il coraggio di chiedersi il critico; «cos’è diventato in diciotto anni questo festival?» noi dovremmo avere il coraggio di chiederci. E «che funzione ora svolge?», «in che modo?», «a chi serve davvero?» e infine: «cos’è rimasto delle ragioni e delle urgenze per cui nacque?».
Alessandro Toppi