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lunedì 29Aprile 2024
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 | Cordelia | febbraio 2024 

Tra le tre figlie di Re Lear, Cordelia, è quella sincera. Cordelia ama al di là del tornaconto personale. Gli occhi di Cordelia appaiono meno riverenti di altri, ma sono giusti. Cordelia dice la verità, sempre.

Cordelia è la rubrica delle recensioni di Teatro e Critica. Articoli da diverse città, teatri, festival, eventi e progetti. Ogni recensione è anche autonoma, con una propria pagina e un link nel titolo. Cordelia di febbraio 2024 è online da oggi, seguila anche nei prossimi giorni, troverai altre recensioni.

Qui gli altri numeri mensili di Cordelia

#NAPOLI

IL RITO (di A. Postiglione)

Una voce in lingua svedese, fuori campo, lascia inquadrare via via la scena sopraelevata a centro palco, una stanza d’ufficio dove si svolgerà presto un interrogatorio (o, vedremo, più di uno); dà la sensazione di essere una miniatura che fuoriesce da una valigetta enorme, aperta a favore di pubblico. Così inizia Il rito, sul palco del Teatro San Ferdinando di Napoli con la regia di strong>, tratto dall’omonimo film di Ingmar Bergman del 1969, realizzato per la TV svedese. Nella stanza il giudice (Elia Schilton) si sta preparando ad accogliere tre attori, clown precisamente, per l’istruttoria a proposito di un numero che ha ricevuto una denuncia per oscenità; attorno alla scena è invece l’atonalità asettica del grigio in cui appaiono – nella musica misteriosa e tormentata di Paolo Coletta – Thea (Alice Arcuri), Sebastian (Giampiero Judica) e Hans (Antonio Zavatteri), fasciati nella profondità dell’abito bianco. Il tema della censura dell’arte, che Bergman portava addirittura in TV da noi oggi ridotta a organo di sistema, attraversa l’intera piéce con profonda inquietudine e si rivela avvolgendo l’ambiguità della relazione tra i tre personaggi, uniti da una viscerale profondità diabolica e allo stesso tempo da una pungente fragilità terrena. L’attrazione che il giudice prova nei confronti dell’arte, nel manifestare l’incongruenza dell’indagine anche al netto della sua fondatezza, rivela allo stesso tempo la pericolosità della sua brama di penetrarne il mistero, lasciando così il campo libero all’essere fatalmente colpito. La regia di Postiglione è compatta e determinata a perseguire l’obiettivo bergmaniano di rappresentare la profonda complessità umana, peccando forse solo nella gestione magniloquente e poco a fuoco delle immagini di opere d’arte, apparse grazie un proiettore luminoso da scrivania, ma insistendo con intelligenza sul conflitto trasformista dei personaggi-attori, la loro dedizione alla finzione, là dove risiede però la loro più concreta verità. (Simone Nebbia)

Visto al Teatro San Ferdinando. Crediti: di Ingmar Bergman; traduzione di Gianluca Iumiento; adattamento e regia Alfonso Postiglione; con Elia Schilton Alice Arcuri, Giampiero Judica Antonio Zavatteri; scene Roberto Crea; costumi Giuseppe Avallone; musiche Paolo Coletta; disegno luci Luigi Della Monica

#Roma

FLY ME TO THE MOON / FIRMAMENTO (MUTA IMAGO)

Le opere in divenire, quelle riprese da altri progetti e in grado di illuminarsi in maniera inedita, gli incontri con un bicchiere di vino, la possibilità di conoscere artiste e artisti in un territorio di informalità ormai raro nelle grandi città: Firmamento è nato, al Teatro Basilica, ed è la prima creatura pubblica di un nuovo e inedito organismo, Index. Entità che raccoglie le energie artistiche e produttive di Muta Imago (Claudia Sorace e Riccardo Fazi), Daria Deflorian e Antonio Tagliarini per unire le forze ma anche per cominciare a passare il testimone ad altre generazioni teatrali o per farsi casa di ulteriori creatività. In musica si direbbe che è stata fondata un’etichetta, ma sembra più una famiglia allargata: «È da quando la conosco, da diciotto anni, che dico Deflòrian, con l’accento sbagliato», scherza Riccardo Fazi durante l’incontro di presentazione della rassegna. Abbiamo seguito un paio di serate, di fronte alle alchimie sceniche di Extragarbo, in ascolto degli incontri di Viola Lo Moro, tra le preghierine lo-fi di Gabriele Portoghese, per chiudere con uno slancio immaginifico, sulla luna pensata da Muta Imago per la voce di Riccardo Fazi. Fly Me To The Moon è una lettura che riprende un testo scritto ai tempi di Radio India: Fazi lo legge da seduto, su dei fogli appoggiati al suo laptop, possiamo anche chiudere gli occhi, dice. È un viaggio che comincia in California, mentre il protagonista di questa lettera racconta di essere sdraiato a terra per una sessione di respirazione olotropica all’Esalen Institute. Ma qualcun altro comincia sommessamente a recitare le parole di Leopardi ed ecco che siamo trasportati su un cratere lunare: «Sembra di essere nella Death Valley, ma senza il caldo, il sole e il sudore». La luna è un’utopia, una metafora poetica ma anche qualcosa di tangibile, un satellite naturale. Viaggi spaziali, meditazione, deprivazione sensoriale, reti di strutture cerebrali: con il solito talento Muta Imago apre mondi in cui farci sprofondare, oppure in cui farci alzare lo sguardo, tra il Firmamento e la luna. (Andrea Pocosgnich)

Visto al Teatro Basilica. Crediti: di Riccardo Fazi e Claudia Sorace con Riccardo Fazi consulenza musicale Chiara Coli una produzione INDEX, Teatro di Roma produzione, organizzazione, amministrazione Valentina Bertolino, Silvia Parlani, Grazia Sgueglia comunicazione Francesco Di Stefano

LA SORELLA MIGLIORE (di F. Gili, regia F. Frangipane)

Filippo Gili ci ha abituato ad una penna chirurgica utilizzata per creare drammi familiari in cui il destino di famiglie borghesi si gioca tutto tra segreti, silenzi e un passato che talvolta è un macigno impossibile da sopportare. In questo ritorno al Teatro Argot (e in tournee) con la regia di Francesco Frangipane l’innesco è proprio nel passato di uno dei tre fratelli, in una formula che lascia poche speranze, quella dell'omicidio stradale. Il presente, quello della drammaturgia, si apre con il colpevole costretto ai domiciliari dopo anni passati in carcere. È una delle due sorelle a ospitarlo, quella più giovane, lo ama senza giudizio, in maniera pura. L’altra irrompe in casa con un’idea per riaprire il processo e fare così in modo di risparmiare questi pochi anni di pena rimanenti al fratello. D’altronde è lei, avvocata di successo, ad averlo difeso, ma ora che il ragazzo è fuori dal carcere emergono rancori, diffidenze, questioni rimosse e strategie celate. La madre (Michela Martini) quando arriverà sarà contraltare serafico a discussioni incendiarie. Va detto, sono straordinari gli interpreti di questi tre fratelli e sorelle, Daniela Marra è la minore, volitiva e sincera e in grado di indagare ciò che sarebbe impossibile anche solo da pensare per una sorella, Giovanni Anzaldo che lavora bene sulle fragilità del personaggio, e poi Vanessa Scalera, in grado di tratteggiare una donna che si arroga il compito di giudicare e punire, il suo personaggio è una furia di intelligenza oscura. La regia di Frangipane tiene ben strette le corde del realismo, fin quando lo spettatore si ritrova di fronte all’indicibile rappresentato proprio dalle azioni dell’avvocata, la quale, se avesse voluto, avrebbe potuto riportare in libertà il fratello molti anni prima. Qui il rischio è quello di misurare il realismo della scena con quello dei sentimenti, che potrebbe non tenere il passo. Ma Filippo Gili con il solito talento si ferma un attimo prima del melodramma, lasciando sfumare in un abbraccio la colpa e le conseguenze. (Andrea Pocosgnich)

Visto al Teatro Argot. Crediti: di Filippo Gili con Vanessa Scalera, Daniela Marra, Giovanni Anzaldo e Michela Martini regia Francesco Frangipane una produzione Argot Produzioni e Teatro delle Briciole

PUPO (di Sofia Nappi)

La scoperta, l’esplorazione dello spazio tramite il corpo e del corpo tramite lo spazio, e ancora la simulazione delle possibili identità, la misura del proprio essere in mezzo agli altri, lo slancio e l’inciampo. L’ultimo lavoro di Sofia Nappi con Komoco, progetto coreutico fondato dalla coreografa insieme a Adriano Popolo Rubbio e Paolo Piancastelli, estrae dal personaggio di Pinocchio l’essenza dell’esistere in un flusso prismatico di situazioni, colori e temperature. Nel contesto di un disegno luci narrativo giocato su tagli e ombre, l’ensemble di sette danzatori abita uno spazio di esplorazione che alterna assoli a momenti corali, vuoti e pieni scanditi da un’unica energia vitale. Le stesse scelte musicali (note classiche, echi di tango, riti tribali, riverberi elettronici) raccontano un universo magmatico, gravido di possibilità e contraddizioni, guidando il gesto senza condizionarlo. Di Pinocchio si indaga l’infanzia che rivendica se stessa, l’avventura di scoprire il mondo in un’evoluzione - da pupo a uomo e viceversa - che rompe le regole del passato e del futuro, del prima e del dopo. I sette danzatori si fanno a tratti corpo unico, attraversati da energie incostanti espresse in gesti frammentati eppure fluidi, fino all’apparizione di una maschera, rivendicazione identitaria o forse vera affermazione di una metamorfosi involuta. Quando si è uomini? Quando si smette di essere marionette? Forse esistere è sempre viaggiare da una forma all’altra, un andirivieni più che un tragitto, senza punti di arrivo, solo tappe solitarie, affollate, piene di versioni variegate di noi stessi. (Sabrina Fasanella)

Visto alla sala Petrassi dell’Auditorium Parco della Musica – Equilibrio Festival Ideazione e coreografia Sofia Nappi con i danzatori Arthur Bouilliol, Leonardo de Santis, Gregorio Dragoni, Glenda Gheller, India Guanzini, Paolo Piancastelli, Julie Vivès. Assistente alla coreografia Adriano Popolo Rubbio. Musiche Dead Combo, Jean du Voyage, Irfan, Frédéric Chopin. Sound design Ed Mars & Sofia Nappi. Luci Alessandro Caso. Costumi Judith Adam

#MESSINA

I CAMBI DI STAGIONE (regia Francesco Calogero)

Edoardo e David si trovano uniti e separati da un medesimo lutto, all'improvviso, davanti alla tomba di un assolato cimitero ebraico. Così inizia I cambi di stagione, prodotto da Massimo Puglisi per Nutrimenti Terrestri, visto al Vittorio Emanuele di Messina per la regia di Francesco Calogero, nella duplice veste di traduttore del testo. Il dramma è un libero adattamento da Mr. Halpern & Mr. Johnson, dramma televisivo scritto negli anni Ottanta da Lionel Goldstein, oggetto di un primo adattamento teatrale per il Cameri Theatre di Tel Aviv nel 1995. Sul palco del Vittorio Emanuele, il luminoso parco nel quale si svolge la vicenda è una grande cortina di schermi verdi – le pareti di una serra – sui quali si stagliano appunto Edoardo (Maurizio Marchetti) e David (Antonio Alveario). Gli interpreti agiscono con sicuro mestiere, e con fermezza caratterizzano i loro personaggi. Il primo è mite, delicato, comunque sottoposto a una certa imperscrutabile irascibilità; il secondo esplosivo, caustico, insofferente davanti alla scoperta di una moglie che non conosceva. Flo e Maria Flora non sono la stessa persona, anche se hanno vissuto nello stesso corpo. Entrambe costituiscono un individuo ambivalente i cui contorni rimangono sfuggenti a che di lei ha potuto afferrare soltanto una parte. Ma al di là del dialogo tra gli uomini, teso sapientemente tra momenti di incontro e di scontro, il dramma sembra troppo appiattito sul testo, reso in un eloquio continuo e verboso. La scena è un grande dispositivo luminescente davanti al quale gli attori appaiono in leggera controluce, e piuttosto invadente sembra il monitor sul quale l'immagine grafica è didascalica e vagamente kitsch – sarebbe bastato molto meno. Il dramma si è assestato su toni rassicuranti, televisivi: pare mancare di una riflessione più profonda sul senso del lutto e della sua elaborazione, da restituire al pubblico in un codice più contemporaneo. (Tiziana Bonsignore)

Visto al Teatro Vittorio Emanuele, Messina. Crediti: da Halpern & Johnson, di Lionel Goldstein. Con Maurizio Marchetti e Antonio Alveario, con la partecipazione di Tania Luhauskaya, traduzione e adattamento Francesco Calogero, regista collaboratore Laura Giacobbe, scene Mariella Bellantone costumi Cinzia Preitano, luci Renzo Di Chio, visual artist Giovanni Bombaci, foto di scena Giuseppe Contarini, regia Francesco Calogero, produzione Maurizio Puglisi per Nutrimenti Terrestri

#MILANO

L’ETERNO MARITO (regia Claudio Autelli)

Scorre veloce un paesaggio dal finestrino di un treno. Lo vediamo proiettato su un muro di fondo, mentre davanti si delinea a poco a poco, con una luce languida e soffusa (nel disegno di Omar Scala), la scena di un salotto borghese. Lì, l’incontro casuale tra due personaggi dostoevskijani detterà lo sviluppo narrativo, nel libero adattamento di Davide Carnevali che si immerge nella pericolosa ambiguità di certi sentimenti umani per estrarne delle tracce e distillarle con verve ironica lungo la trama. A partire da questo cesellato meccanismo di scrittura, il testo L’eterno marito dell’autore russo viene intrecciato ad alcuni elementi biografici degli attori (vividi e meschini nelle beffarde interpretazioni di Ciro Masella e Francesco Villano), ripercorrendo una stratificazione di significati, di storie, di rappresentazioni che portano lo spettatore ad abitare una dimensione sempre messa in dubbio, perché di continuo spaesamento. Francesco e Ciro danno voce ad un’irrisolta dualità: Francesco è Aleksej, l’eterno amante, Ciro è Pavel, l’eterno marito. Tra i due una costante tensione psicologica, agita dall’elemento video che nella regia di Claudio Autelli ha un affilato taglio indagatore, rivela l’infimità di ciò che è tenuto nascosto, il segreto omesso nel retro di un palco, i pensieri taciuti dietro le fattezze di un volto. Poi, lo spettro di una donna che non c’è più, il fantasma di una figlia. I personaggi, che nel dramma russo continuano a vivere in un’eterna ripetizione, vengono così scossi da queste riprese video, vibrano negli attori che li interpretano, scivolano gli uni sugli altri, fino a giungere ad una rottura: è una voce che proviene dalla platea – in un continuo sconfinamento delle barriere, della quarta parete, della storia stessa. È una voce del presente che cerca risposte per questi personaggi ancora ingabbiati nell’illusione dei loro vuoti ideali. Sono questi i modelli di riferimento da stimare? E riprendendo Dostoevskij “Siamo ancora in grado di esercitare la cura? Di essere padri, maestri, guide?” (Andrea Gardenghi)

Visto al Teatro Franco Parenti. Crediti: da Fëdor Dostoevskij, libero adattamento Davide Carnevali, regia Claudio Autelli, con Ciro Masella e Francesco Villano, in video Sofija Zobina e Lia Fedetto, scene Maddalena Oriani, disegno luci Omar Scala, musiche originali e sound design Gianluca Agostini, costumi Margherita Platé, film-making Alberto Sansone, responsabile tecnico Emanuele Cavalcanti, assistente alla regia Valeria Fornoni, organizzazione Daniele Filosi e Dalila Sena, ufficio stampa Cristina Pileggi, produzione Teatro Franco Parenti / LAB121 / TrentoSpettacoli. Ph Francesca Ferrai

#Roma

PUPO (di Sofia Nappi)

La scoperta, l’esplorazione dello spazio tramite il corpo e del corpo tramite lo spazio, e ancora la simulazione delle possibili identità, la misura del proprio essere in mezzo agli altri, lo slancio e l’inciampo. L’ultimo lavoro di Sofia Nappi con Komoco, progetto coreutico fondato dalla coreografa insieme a Adriano Popolo Rubbio e Paolo Piancastelli, estrae dal personaggio di Pinocchio l’essenza dell’esistere in un flusso prismatico di situazioni, colori e temperature. Nel contesto di un disegno luci narrativo giocato su tagli e ombre, l’ensemble di sette danzatori abita uno spazio di esplorazione che alterna assoli a momenti corali, vuoti e pieni scanditi da un’unica energia vitale. Le stesse scelte musicali (note classiche, echi di tango, riti tribali, riverberi elettronici) raccontano un universo magmatico, gravido di possibilità e contraddizioni, guidando il gesto senza condizionarlo. Di Pinocchio si indaga l’infanzia che rivendica se stessa, l’avventura di scoprire il mondo in un’evoluzione - da pupo a uomo e viceversa - che rompe le regole del passato e del futuro, del prima e del dopo. I sette danzatori si fanno a tratti corpo unico, attraversati da energie incostanti espresse in gesti frammentati eppure fluidi, fino all’apparizione di una maschera, rivendicazione identitaria o forse vera affermazione di una metamorfosi involuta. Quando si è uomini? Quando si smette di essere marionette? Forse esistere è sempre viaggiare da una forma all’altra, un andirivieni più che un tragitto, senza punti di arrivo, solo tappe solitarie, affollate, piene di versioni variegate di noi stessi. (Sabrina Fasanella)

Visto alla sala Petrassi dell’Auditorium Parco della Musica – Equilibrio Festival Ideazione e coreografia Sofia Nappi con i danzatori Arthur Bouilliol, Leonardo de Santis, Gregorio Dragoni, Glenda Gheller, India Guanzini, Paolo Piancastelli, Julie Vivès. Assistente alla coreografia Adriano Popolo Rubbio. Musiche Dead Combo, Jean du Voyage, Irfan, Frédéric Chopin. Sound design Ed Mars & Sofia Nappi. Luci Alessandro Caso. Costumi Judith Adam

CONCERTO FETIDO SU QUATTRO ZAMPE (di Alice e Davide Sinigaglia)

«Una dedica a chi non grida mai, a chi non si scompone, alle famiglie ricche che fanno figli puliti e disciplinati e alla violenza composta delle persone educate». Quello di Alice e Davide Sinigaglia è uno scarabocchio su un muro, un salto su un letto appena rifatto, la pipì sul tappeto. Da una provincia odiata al centro del mondo globalizzato, un vero e proprio concerto che usa il teatro con un ghigno beffardo e irriverente. «Niente potrebbe disturbare i due artisti che stanno per esibirsi», dice Maura Teofili chiedendo comunque al pubblico di Carrozzerie Not di spegnere i cellulari prima di entrare in sala. Progetto sviluppato nell’ambito dell’edizione 2023 di Powered By REF, con radici che affondano nell’infanzia condivisa dei due, Concerto Fetido è la collisione dei loro due mondi di provenienza, la musica e il teatro, nel mood della sfrontatezza giocosa, dispettosa, istintuale di due cani che decidono di usare il linguaggio umano. La prospettiva a quattro zampe è ideale per irridere un’epoca di pose vuote, di ideali ipocriti, di risposte insignificanti a domande inutili. Il risultato è un urlo viscerale e adolescenziale, una performance fatta anche di genuine ingenuità, sulle note di sonorità rap, reggae e blues contenute anche in un progetto discografico. Sempre più la musica è alleata prescelta per una generazione che continua a scegliere il teatro, la viva presenza della parola e del corpo significante, fregandosene dei confini tra i generi ma piegandoli alla propria necessità, innervata di un’urgenza che non è più solo artistica, ma esistenziale. (Sabrina Fasanella)

Visto a Carrozzerie Not di e con Alice e Davide Sinigaglia. Luci e fonica Febe Bonini. Produzione Gli Scarti ETS Centro di produzione teatrale d’innovazione. Progetto selezionato Powered by REf 2023

UniVerse: A Dark Crystal Odyssey (di Wayne McGregor)

The Dark Crystal è un film del 1982 diretto da Jim Henson e Frank Oz , i due artisti burattinai conosciuti soprattutto per aver dato vita ai Muppets. Ma nell’opera, andata in scena all'Auditorium di Roma per il festival Equilibrio, i pupazzi animatronici e l'estetica fantasy anni ‘80 lasciano il posto ai corpi dell’ensemble diretto da Wayne McGregor che si muovono in una striscia di palco delimitata da due schermi di proiezione, uno davanti a loro, un velatino trasparente e l’altro dietro, sul fondale. Un sistema molto complesso in cui sfavillano le creazioni video di Ravi Deepres: mondi subacquei (nelle prime scene un pesce tropicale ha un’andatura tridimensionale verso il pubblico), foreste infuocate, simboli cabalistici, geroglifici, terre desolate… insomma del film di Henson rimane l’ispirazione perché qui l’idea è quella di parlare del nostro presente e del nostro pianeta. Obiettivo lodevole, ma attenzione, il rischio minestrone è dietro l’angolo e infatti i simboli si mescolano senza dare il tempo allo spettatore di acquisirli e la sensazione è quella di trovarsi di fronte a uno spettacolo-luna park che altro non riesce a fare se non tentare di stupire gli occhi con effetti mirabolanti, tutine blu che trasformano i performer in alieni, altre tutine con le ali, strani copricapi animaleschi e un costume che potrebbe rappresentare una sorta di arbusto pieno di radici. Di tanto in tanto emerge in voce off lo spoken word di Isaiah Hull, forse tra le poche cose interessanti: sue le parole sul declino del pianeta e sul prezzo da pagare in futuro per le nuove generazioni. Le musiche di Joel Cadbury tentano di tenere tutto insieme, di avvolgere lo spettacolo, ma non abbiamo il tempo di prendere un respiro e capire dove siamo. E solo nel finale la coreografia mostra i corpi in caduta, abbandona quella leziosità e quell’atletismo che per più di un’ora caratterizzano gli interpreti, sempre altissimi con le gambe, le braccia tese, le rotazioni perfette e le dita eleganti mentre tutto attorno, questo nostro mondo, sta per collassare. (Andrea Pocosgnich)

Visto alla Sala Petrassi dell'Auditorium Parco della Musica. Crediti: regia e coreografia: Wayne McGregor musica: Joel Cadbury film design: Ravi Deepres illuminazione: Lucy Carter costumi e copricapi: Philip Delamore, Dr. Alex Box spoken word: Isaiah Hull drammaturgia: Uzma Hameedcon

#BOLOGNA

LE SERVE (regia di Veronica Cruciani)

Fulgida dimostrazione della capacità drammaturgica di Jean Genet, Le Serve (1946) è una macchina infallibile che, come spesso accade nella scrittura del “Santo” preferito da Sartre, attinge alla vita reale per caricare lingua, linguaggio e immaginario di crudeltà ferina e spregiudicata. Il punto di partenza è un fatto di sangue, il brutale duplice omicidio di una ricca signora e sua figlia a opera delle due governanti, sorelle. In una sorta di true crime rivisitato, Genet tramuta la vicenda in un esperimento complesso sul teatro dei ruoli: Claire e Solange giocano con grande crudeltà a impersonare la Signora, ne progettano l’assassinio ma su di loro vinceranno la schiavitù sociale, la desolante avidità di sentimenti innescata dalla povertà e l’autodistruzione. La traduzione di Monica Capuani restituisce al testo un’orecchiabilità contemporanea; l’adattamento e la regia di Veronica Cruciani comandano ruggiti a volume altissimo che scagliano insulti e imprecazioni da personaggio a personaggio, con la zuccherosa cantilena della Signora a far da contraltare tonale (giustamente irritante la macchietta di Eva Robin’s). Suggestiva, razionale, virata in toni freddi da luci e colori d’abiti è la scena, composta di flycase che recano scritte didascalie emotive, si chiudono a far da letto o si schiudono rivelando armadi e tolette di una casa dalla gelida apparenza lunare. Sul tappeto sonoro che spezza la frontalità dei quadri con esplosioni di rock acido, la fisicità nevrotica e imponente e la virtuosa coloritura vocale delle sorelle circondano i ritmi e i gesti melliflui della Signora: spicca di energia e precisione la Solange di Matilde Vigna, che trova un’ottima sponda nell’inquietante Claire di Beatrice Vecchione. Tuttavia la direzione delle attrici sembra soffrire di un volume eccessivo e di alcuni pattern piano/forte che, cercando l’andamento ipnotico, incontrano un grado di monotonia. L’operazione di recupero di questo raffinato gioco al massacro è forte di un’evidente intenzione di cura, che finisce per indebolire in parte il declinarsi su aspetti politico-sociali contemporanei (sempre così cara a Cruciani) di una delle più potenti rappresentazioni del male rese da questo grande autore. (Sergio Lo Gatto)

Visto al Teatro Arena del Sole di Bologna, febbraio 2024. LE SERVE di Jean Genet; con Eva Robin’s, Beatrice Vecchione, Matilde Vigna; regia Veronica Cruciani; traduzione Monica Capuani; adattamento Veronica Cruciani; scene Paola Villani; costumi Erika Carretta; drammaturgia sonora John Cascone; disegno luci Théo Longuemare

#MILANO

Teatro alla Scala: SMITH/LÉON E LIGHTFOOT/VALASTRO

Molto fumo ma anche molto arrosto. Però, quanto fumo di scena! In tutti e tre i lavori, eppure molto diversi per cronologie, stili, estetiche, presentati alla Scala di Milano, nel segno del contemporaneo. Sarà forse un diffuso bisogno di atmosfera; una impaurita carenza d’ambiente, chissà: fumo ovunque, sospeso, sempre. Il primo, Reveal (2015) dell’americano Garreth Smith, è il lavoro più debole. Un inutile dispiego di brutte luci in stile musical, e l’uso di ingressi laterali a schiera ma senza alcuna consapevolezza formale dei 12 interpreti, portano in scena una coreografia dal segno morbido ma superficiale, ricolma di spettacolosi lift di gruppo in stile ‘corpo sacrificale’ (d’ambo i sessi), inefficaci. Ma è il rapporto mancato con la musica di Philip Glass, a cui la coreografia espressamente si ispirerebbe (sic!), che impedisce qui a qualche idea di sopravanzare, e rivelare alcunché. Di altissima qualità e cura del movimento, invece, è il quartetto di Sol Léon e Paul Lightfoot, Skew-Whiff (1996, Sghembo), su musiche di Rossini. Il gioco in scena è estremamente fisico, per scardinare ogni sopruso egotico sul corpo dell’altro. Prima con un irresistibile duo, Darius Gramada e Rinaldo Venuti, anche grottesco, in controluce eppure raffinatissimo; violento e sostenuto, ma anche intelligente e ben centrato affinché le storture comiche dei corpi esplodano (pari solo al Rossini insuperato di Bigonzetti); poi, nell’assolo mirabile di Navrin Turnbull che si completa tra i vezzi di Maria Celeste Losa, qui con una verve e una vena d’umore credo inedita. Infine, il terzo, assai atteso e impegnativo lavoro di Simone Valastro, Memento (musiche di Max Richter e David Lang). In uno spazio che si estende a salita sul fondo, e a cascata a proscenio nella buca d’orchestra, l’intero corpo di ballo alterna ben orchestrate pattuglie di movimento, con eccellenti assoli e sequenze a numeri più ristretti È un apologo della polvere che siamo (vi allude il titolo) come emblema della vita d’artista: ma i movimenti nello spazio alludono con semplicità a cicli continui di nascita e rinascita. Il successo è garantito: tutto è bello e funziona, anche senza le forze del caos o del disordine. (Stefano Tomassini)

Visto al Teatro alla Scala SMITH/LEÓN E LIGHTFOOT/VALASTRO Garrett Smith, Sol León & Paul Lightfoot, Simone ValastroDal 7 al 18 febbraio 2024 1 ora e 41 minuti circa incluso intervallo Corpo di Ballo del Teatro alla Scala Musica su base registrata. Crediti completi

TRILOGIA CADELA FORÇA – CAPITOLO I – LA SPOSA E BUONANOTTE CENERENTOLA (di Carolina Bianchi)

Dopo il debutto al Festival d’Avignone la scorsa estate, Carolina Bianchi apre la stagione 2024 di FOG alla Triennale di Milano con il primo capitolo di una trilogia lacerante, che si articola attorno al concetto di violenza. In La Sposa e Buonanotte Cenerentola, l’artista brasiliana decide di affrontare lo stupro negando il potere della catarsi, decide di reiterare il proprio smarrimento attraversando il trauma. E nel penetrare quella fitta selva oscura di dantesca memoria, sceglie di abbandonarsi: agli abissi del rimosso, agli incubi del presente, a quello che ha perduto per sempre. Qual è il potere dell’arte nel riportare alla memoria le tracce di questo dolore? Quale quello del teatro nella sua rappresentazione? È da questi interrogativi che lo spettacolo prende avvio nella forma di una conferenza/performance - minimalista nelle tonalità - con diapositive, microfono e tavolino, dove Bianchi illustra con precisione i germi della sua lunga ricerca, ne scava i riferimenti letterari, iconografici, poetici e mette in evidenza l’ubiquità della violenza femminicida, innescando una crisi che investe i codici stessi del teatro. Riproporre in scena le dinamiche del suo sopruso in uno spettacolo - di cui ci ricorda vuole essere regista e non protagonista – è dunque un atto di responsabilità nei confronti di una storia collettiva, di cui l’artista rievoca i legami alla cronaca recente. Attraverso l’assunzione in sala della Boa Noite Cinderela (droga che induce assopimento, usata in Brasile per lo stupro), Bianchi sprofonda in un lungo sonno, portando il pubblico ad assistere con un’intensità disturbante alla sua carne esposta, ad abitare le ossessioni della sua mente, in cui le parole proiettate divengono sfondo di sogni infestanti, dove la visione di balli rituali (performati da un validissimo team di artisti) soggioga lo spettatore, sono odore agre di alcool, luci accecanti e suoni pop lontani. Il lavoro di Carolina Bianchi si rivela così un densissimo “esercizio di memoria inquietante”. È un morire, per sempre o solo per un momento, nel dolore, per rinascere un passo più vicini alla verità. (Andrea Gardenghi)

Visto alla Triennale di Milano. Crediti: idea, testo, drammaturgia e regia: Carolina Bianchi cast: Alita, Carolina Bianchi, Chico Lima, Fernanda Libman, Joana Ferraz, José Artur, Larissa Ballarotti, Marina Matheus, Rafael Limongelli drammaturgo e collaborazione nella ricerca: Carolina Mendonça

#Roma

ELENA (regia di Elena Arvigo)

«Là dove qualcuno resiste senza speranza, è forse là che inizia / la storia umana». Su una scena arredata con trascurata eleganza, tra veleggiare di tendaggi e luci soffuse in trasparenza, tutto sembra ricoperto di polvere sottile, cenere o talco profumato e un po’ appassito che rimane sospeso nell’aria come le parole di Ghiannis Ritsos. Questo densissimo poema in forma di monologo parte da Elena di Troia per navigare senza meta nelle acque del pensiero a posteriori, nella stasi lucida della vecchiaia, nella contemplazione del vissuto con la distanza che magnifica i dettagli e smaschera l’epica. Così Elena è una donna e tutte le donne, ha duemila anni e gli occhi di una bambina, è vittima e carnefice. Arvigo si fa abitare dal verso del poeta che sgorga in lei percorrendo strade tortuose, cambiando di stato, sciogliendosi in rivoli di senso attraverso il vibrare delle sue agili corde vocali per farsi infine nebbia e avvolgere i sensi. Il suo corpo, i suoi occhi liquidi, la sua mimica chirurgica sono il fulcro della messa in scena. Ad accompagnarla è il fantasma di un’ancella, Monica Santoro: presenza intravista, complice e sospetta insieme, come lo siamo noi spettatori, inconsapevoli interlocutori di un disincantato flusso di coscienza. Persi nel vortice del ricordo, aggrappati al sapore agrodolce della sconfitta, ci sentiamo dare del tu, guardare negli occhi, chiamare alla presenza proprio quando siamo invitati ad andarcene. Dobbiamo lasciare la sala e tornare nel mondo, questo mondo, violenza che continua a ripetersi uguale a se stessa: sta a noi sbattere le palpebre e disfarci di quella polvere assuefatta e indolente che si insinua tra le ciglia e ci offusca la vista. Anche senza speranza. (Sabrina Fasanella)

Visto al Teatro Argot Studio. di Ghiannis Ritsos. Traduzione di Nicola Crocetti. Regia Elena Arvigo. Con Elena Arvigo e con la partecipazione di Monica Santoro (flauto traverso e canto). Assistente alla regia Monica Santoro. Scene e costumi Elena Arvigo. Consulenza musicale Ariel Bertoldo. Collaborazione scene Maria Alessandra Giuri. Consulenza al testo Francesco Biagetti. Una produzione Teatro OUF Off con Compagnia Elena Arvigo (Associazione SantaRita & Jack teatro)

DON GIOVANNI (L. De Liberato, A. Esposito, L. Garufo)

Patrimonio culturale alto e popolare insieme, il repertorio operistico è ricco di storie e arie vive nell’immaginario collettivo; restituirlo in chiave pop è più naturale e meno ardito di quanto si possa pensare, benché rimanga impresa sfidante trapiantare su palcoscenici off o comunque non operistici melodrammi di tale mole e complessità. In questa direzione lavorano I Tre Barba, ovvero Lorenzo de Liberato, Alessio Esposito e Lorenzo Garufo, interpreti e registi attivi in diversi progetti paralleli e riuniti qui sotto il segno della lirica: Così fan Tutte, Il Barbiere di Siviglia, Rigoletto. Quello che è diventato un vero e proprio format teatrale ha avuto come ultimo approdo il Don Giovanni di Mozart e Da Ponte. Utilizzando pochissimi elementi - il libretto come copione-guida, la tecnica attoriale e alcuni semplici ed efficaci espedienti registici – i Tre Barba confezionano un viaggio completo nell’odissea di Don Giovanni, dall’incursione in casa di donna Anna fino al celebre invito a cena con il defunto commendatore, passando per le arie più note cantate a cappella con credibile resa vocale. La struttura agile dell’adattamento nasconde un lavoro sul testo (e la partitura) che si immagina notevole, con un approccio goliardico eppure sempre fedele: nella linearità della vicenda c’è spazio per innesti dichiaratamente pop che non hanno lo scopo di attualizzarne i contenuti, quanto piuttosto di togliere all’opera in sé quella rigidità che la tradizione tramanda e farne cosa viva, fatto teatrale con il quale è possibile giocare, cavalcando i recitativi, la ripetitività del verso nelle arie, l’affastellarsi dei personaggi nei concertati. La sequenza finale recupera la musica originaria per il resto assente e accompagna all’epilogo gli attori che hanno recitato fino ad allora anche l’esser cantanti: questa scelta è forse un omaggio, forse una resa, o forse è Mozart il convitato di pietra che irrompe a punire la goliardia dei tre Barba i quali, come Don Giovanni, comunque non si pentiranno. (Sabrina Fasanella)

Visto a Fortezza Est di e con I tre Barba Lorenzo De Liberato, Lorenzo Garufo, Alessio Esposito. Luci Matteo Ziglio. Produzione Fortezza Est

DUE SCHIACCIANOCI (di Alice Bertini)

I due schiaccianoci qui non sono i protagonisti del racconto di Hoffman o del celebre balletto tardo romantico musicato da Čajkovskij, sono comunque due soldati e la loro missione è quella di difendere la porta di ingresso delle stanze della Regina. Hanno un’uniforme blu, molto semplice, quasi una livrea che potrebbe ricordare due portieri di lusso; un copricapo cilindrico alla francese con visiera e qualche ornamento ci riportano a una regalità da diciannovesimo secolo. Dietro di loro la porta, disegnata con una certa grazia, ci ricorda l’altra realtà nascosta, quella della Regina Società. Nello spettacolo scritto e diretto dalla giovane Alice Bertini (alla regia anche Carlotta Solidea) i due soldati sono però il contrario di quello che ci si aspetterebbe: sono due ragionatori, un po’ clown e un po’ filosofi, appassionati di musica jazz, passano il tempo a riflettere sullo stato delle cose e sulla relazione che intercorre tra il popolo e il potere. Arriveranno alla conclusione che la Regina deve essere fatta fuori, ci vuole una rivoluzione. Ma come? Sono due maschere e dunque il loro orizzonte di analisi politica e sociale è oltre la Storia, fortunati loro che possono pensare alla rivoluzione senza i sensi di colpa della pragmatica quotidiana, senza i fallimenti stampati sui libri. Ma la sconfitta arriverà a mordere i sogni quando uno dei due si innamorerà proprio della Regina. Ѐ possibile far mutare di segno al potere dall’interno? Cosa accade se invece di spazzare via chi sta al potere ci si innamora del potere stesso? Il primo spettacolo della rassegna Expo Teatro italiano Contemporaneo al Teatro Belli è un piccolo ma intelligente apologo per adult* (e ragazz*, il circuito del teatro per le nuove generazioni gioverebbe di creazioni come questa), con due giovani attori (Federico Gatti e Michele Breda) straordinari per precisione e generosità. Tema e ambientazione non sono nuovi, ma Bertini dimostra una scrittura da tenere d’occhio per eleganza e ritmo. (Andrea Pocosgnich)

Visto al Teatro Belli, Expo Teatro italiano Contemporaneo. Crediti: Compagnia Poveri Comuni Mortali, di Alice Bertini con Federico Gatti e Michele Breda regia di Alice Bertini e Carlotta Solidea Aronica costumi Annarita Romeo disegno luci Marco D’Amelio scene Leonardo Barroccu cappelli Marilena Fantozzi organizzazione Valeria Iovino comunicazione e social Eduardo Rinaldi

PINOCCHIO (Teatro del Carretto)

Pannelli neri posti a semicerchio circondano lo spazio scenico ma lasciano che lì, proprio nel mezzo, si compia l’atto generativo dal quale prende vita, o almeno prende forma, il burattino Pinocchio. Questa versione del capolavoro collodiano, apparso per la prima volta nel 1883, è nel repertorio del Teatro del Carretto, storica compagnia lucchese, da oltre 10 anni; tornato in tournée durante questa stagione, sempre con la regia storica di Maria Grazia Cipriani e la scena e i costumi di Graziano Gregori, è giunto al Teatro Vascello di Roma. Pinocchio (iconico ormai sotto il suo naso è un formidabile Giandomenico Cupaiuolo) appare in catene e un po’ stordito, un carceriere tenebroso gli lancia un osso come fosse un cane; le pareti del muro circolare, dalle cui porte e finestre a scomparsa appaiono figure e ombre della sua interiorità, incubi e sogni di una maturazione tarda ad arrivare, hanno graffi e sembrano in tutto e per tutto una prigione. In questa estetica dominata da una componente immaginifica e circense si avvia il dramma in maschera che il burattino narra in prima persona, ripercorrendo a ritroso la propria storia; è una fiaba nera, Geppetto è fabbricante ma non padre, fin da principio è assente, lo dona e insieme lo abbandona al mondo, alla cura di una fata turchina che gli fa da sorella maggiore ma allo stesso tempo teme lei stessa l’abbandono (Elsa Bossi), alla mercé di personaggi minacciosi in maschera che nutrono i volti sottostanti di un’inquietudine sorpresa e talvolta assorta, vestiti con drappi sgualciti di bianco che macchiano l’uniformità del nero. Pinocchio vive in un tempo fluttuante, la morte gli è spesso vicina ma lui se ne prende gioco, il pericolo lo porta in catene perché non conosce, o ignora, le conseguenze delle proprie azioni, è un burattino che crede a tutto, si fida e non impara mai dai propri errori. Sarà pure un vecchio spettacolo, ma ciò lo rende uno spettacolo vecchio? Il gioco del teatro è in sé compiuto: un burattino fatto uomo, ma un uomo che resta un po’ burattino. Tanto lontano dai tanti Pinocchio di questo nostro tempo? (Simone Nebbia)

Visto al Teatro Vascello. Crediti: Adattamento e regia Maria Grazia Cipriani; Scene e costumi Graziano Gregori; Attori Giandomenico Cupaiuolo, Elsa Bossi, Giacomo Pecchia, Giacomo Vezzani, Nicolò Belliti, Carlo Gambaro, Ian Gualdani, Filippo Beltrami; Suoni Hubert Westkemper; Luci Angelo Linzalata; Foto di scena Filippo Brancoli Pantera; produzione compagnia Teatro Del Carretto

LA FAGLIA (di Adèle Gascuel, regia Simone Amendola)

Confinati nel profondo di una faglia che ha spaccato la terra, impegnati a pompare cemento, costretti a riorganizzare un intero immaginario terrestre da laggiù, ora che il “mondo di sopra” non è più abitabile, Dan e Balt (Daniele Amendola e Valerio Malorni) armeggiano con simbolici strumenti meccanici; sudicie divise da trivellatori vestono questi due uomini-talpa, relitti di questa nostra generazione rosa e insozzata dal consumismo sfrenato. In questa «favola post-apocalittica» scritta dalla giovane autrice francese Adèle Gascuel (nell’École des Maîtres 2020-2021) la Madre Terra non appare solo stuprata e incancrenita, ma è anche una matrigna alla quale rivolgere insulti e recriminazioni, visione apparentemente non consolatoria e che però non riesce a guidare il testo fuori da certe stanze di retorica. Essenziale ma curata, la scenografia quasi sembra composta dalla risulta di una discarica; si completa con uno schermo di fondo dove la “faglia” è sintetizzata in una circonferenza perfetta marcata da un cursore che non smette di percorrerla – senza scavarne alcuna profondità verticale – e resa densa da un generosissimo uso della macchina del fumo, elemento materico e metaforico che nasconde e confonde, fino allo smarrimento di visus e di ragione. Con alle spalle passi precisi e a tratti davvero sorprendenti, qui torna il tema del “teatro nel diluvio”, il tono cupo dell’horror esistenziale; e tuttavia la ruvida e però sottile autorialità di Simone Amendola e la complessa e parlante presenza scenica di Malorni si chiudono stavolta in una gabbia che non del tutto permette loro il consueto agio creativo. Nonostante l’evidente tentativo di rendere i personaggi stratificati come immaginiamo sarebbe la faglia, un testo troppo acerbo sembra impedire una vera discesa nelle profondità di ferite collettive. Tra dialoghi che si ripetono a loop e guizzi onirici forse troppo marcatamente lirici, la carica cinica che pure contraddistingue questo duo di artisti/autori si risolve (ma è il testo a comandarlo) in un omaggio al Beckett più desolato ma non altrettanto graffiante. (Sergio Lo Gatto)

Visto a Time Labs. Crediti:  testo Adèle Gascuel; con Daniele Amendola Valerio Malorni; regia Simone Amendola; traduzione Adele Palmeri Borghese; in video e voce off Caterina Marino; scenografia Santo Alessandro; Badolato; costumi Clorinda Bartoleschi; musiche Giulia Ananìa; canto Sabina Meyer; 3D artist Davide Riccitiello; disegno luci Marco D’Amelio, Omar Scala; ambiente sonoro Gregorio Comandini; foto di scena Filippo Trojanolo

IL DIARIO DI IRENE BERNASCONI (a cura di e con Laura Nardi)

In tempi di autonomia differenziata e di dimensionamento scolastico, come la delibera approvata dalla giunta Rocca a livello regionale, di occupazioni e autogestioni punite, re-imparare alcune basi del metodo montessoriano è un esercizio di educazione alternativa e propositiva. Soprattutto se, come ne Il diario di Irene Bernasconi a cura di e con l’attrice e formatrice Laura Nardi, si rappresenta scenicamente un pensiero che - nonostante poi le sue attualizzazioni e critiche - sopravvive oggi proprio in virtù di quella relazione adulto-bambino paritaria, responsabilizzante e non paternalista. Bernasconi, dopo la formazione montessoriana presso la Società Umanitaria di Milano, fu chiamata nel 1915 dal Comitato delle Scuole dei contadini per l’Agro romano e le Paludi Pontine a dirigere a Palidoro la “Casa dei bambini secondo il Metodo Montessori”, a educare i figli dei «derelitti», dei guitti ciociari che durante l’inverno venivano nelle campagne romane a lavorare la terra, a vivere nelle capanne, per poi riandarsene prima dell’estate. Nardi, negli abiti di Irene, è in scena abbigliata proprio come un’educanda svizzera (Bernasconi viene infatti dal Canton Ticino) e con lei ci sono circa una quindicina di bambole di pezza rappresentanti i bambini. Non ci sono cattedre, né sedie, ma tappeti, dove riposare, tavoli, dove mangiare insieme e lenzuoli su cui disegnare mentre si ascoltano le musiche popolari. Di questo diario, a cura di Elio De Michele e aa. vv. - grazie a una drammaturgia pedagogica che si relaziona al pubblico insegnando alcuni passaggi politici del testo – emergono i temi del «farci bambini», dell’educare senza autorità «con fermezza ma anche affetto», dell’insegnamento che deve emanciparsi «dai programmi imposti perché la scuola non è un’idea astratta». E tra una parola in dialetto, un canto e un capriccio, il pubblico riscopre il bisogno di una scuola anche senza libri che si faccia luogo, dove i bambini vanno anche “solo” per essere educati alla pulizia, allo stare insieme, al rispetto reciproco. (Lucia Medri)

Visto al Teatro Biblioteca Quarticciolo : uno spettacolo di e con Laura Nardi, collaborazione artistica Simone Faucci e Amandio Pinheiro, consulenza storica e antropologica Elio Di Michele e Roberta Tucci, marionette Francesca Turrini, musiche tratte da Le voci dell’Anio di Ettore De Carolis, produzione Teatro Causa, Cranpi. Foto Manuela Giusto

#CASTELFRANCO EMILIA

DAVIDSON (di Maurizio Camilli e Michela Lucenti)

Tratto da Padre Selvaggio di Pier Paolo Pasolini, abbozzo di sceneggiatura del 1962 e pubblicata postuma nel 1975, Davidson è la storia di un giovane liberiano di buone speranze e del suo modernissimo insegnante assediato da sensi di colpa coloniali. Balletto Civile, fedeli alla loro agenda, affrontano (e aggiornano), in un fitto corpo-a-corpo non solo verbale, il tema razziale messo alla prova con i caposaldi della convivenza, del vivere civile, nonmeno che della responsabilità storica. Davidson in scena è Confident Frank, giovanissimo performer modenese, di talento spontaneo e di immediata istintività. L’insegnante (Pasolini stesso, ma pure ognuno di noi) è uno straordinario Maurizio Camilli, che qui un poco accentua il ruolo incanutito e mite dell’insegnante/padre, che dialoga e lotta (volano i banchi e pure schiaffoni e spallate) e prova a educare, poi a contenere, poi a smontare, tra consapevolezza e sentimento, le ragioni così forti e inoppugnabili dell’oppresso. Come avviene sempre con Balletto Civile, la realtà del presente traborda sulla scena, e genera tutta la potenza dell’ambiguità dei nostri tempi. Ma questo il teatro deve saper fare. Dalla platea non mancano nemmeno inconsapevoli approvazioni al linguaggio dell’oppressione («un topo in una stalla di cavalli resta comunque un topo» anche per qualche anzianotta turbata in platea), né mugugni prolungati di fronte a una realtà che è già per le strade delle nostre città. Ma questo non impedisce il prolungato applauso finale, di una comunque folta platea, in un misto di vero apprezzamento e anche difficilissima consapevolezza. Siamo a Castelfranco Emilia, in un bellissimo teatrino del circuito ERT, sulla piazza centrale all’ombra di un monumento al tortellino emiliano (un vecchione dal buco della serratura osserva l’intimità di un corpo femminile del quale scorge l’ombelico: il desiderio così dà forma anatomica ai fantasmi insoddisfatti della realizzazione erotica). Ma forse ciò che sovverte la legge del Padre, il perenne asservimento al godimento (al tortellino, dunque al capitale), è per Balletto Civile proprio questa necessaria dissoluzione dei limiti per aprire le comunità a nuove soggettività. (Stefano Tomassini)

Visto al Teatro Dadà (Castelfranco Emilia), concept e drammaturgia Maurizio Camilli; coreografia Michela Lucenti; con Maurizio Camilli, Confident Frank; disegno luci Vincenzo De Angelis; disegno sonoro Andrea Gianessi; assistente alla regia Ambra Chiarello

#NAPOLI

PLEASE COME! (di Chiara Ameglio)

Attorno a un corpo dai contorni difficili da identificare, poco alla volta si compone un perimetro luminoso: è una barriera oltre la quale è impossibile andare. Il corpo, che in realtà si presenta più come una semplice “massa”, è di spalle e viene maneggiato senza alcuna delicatezza. È gettato nello spazio e subisce pressioni da un esterno visibile solo per gli effetti che producono. Questo corpo-massa perde naturalezza e vitalità perché non compie dei veri movimenti, in quanto è spinto esclusivamente da forze estranee. Chiara Ameglio, della compagnia milanese Fattoria Vittadini, indaga quelle che sono le condizioni di dolore di chi è costretto alla schiavitù, e quindi di chi perde ogni facoltà sul proprio corpo. Il percorso è interminabile e circolare, e la ripetizione acuisce il senso di un inevitabile dilatamento del tempo che diventa storia collettiva. Le luci intermittenti deformano il corpo-massa che è scosso da terribili tremori; di rado, lembi di pelle vengono lentamente esposti ed è inevitabile che la parziale nudità provochi una profonda inquietudine, se non anche vergogna per l’osservare qualcosa di illecito. Il lavoro si presenta chiaramente come un manifesto e incede proprio nel modo apodittico del manifesto, lavorando su immagini fisse e riconoscibili: in questo senso, è pleonastico l’utilizzo, a scena vuota, dell’audio degli spezzoni televisivi che esprimono laconicamente dei fatti e dei dati, quasi che non fosse stato chiaro ciò che si era già visto; forse avrebbe avuto maggiore valenza perturbante se fossero stati utilizzati come accompagnamento dell’azione, come ulteriore riflessione sul semplice concetto fornito dai mezzi d’informazione. Questo nulla toglie alla strabiliante capacità comunicativa e alla espressività vivida del corpo di Ameglio, o all’intuizione di immagini vere e potenti. Però è probabile che una maggiore profondità drammaturgica tesa a complicare la semplice idea, avrebbe dato maggiore respiro al concetto espresso in coreografia. (Valentina V. Mancini)

Visto a Spazio Körper, Crediti: Di e con Chiara Ameglio; Collaborazione artistica, Santi Crispo; Musiche KeepingFaka; Luci Fabio Bozzetta; Produzione Fattoria Vittadini; Coproduzione Festival Danza in Rete – Teatro della Tosse

OPERA VIVA (di Elvira Buonocore, regia Maria Chiara Montella)

Rosario (Riccardo Ciccarelli), Palma (Stefania Remino) e Alfio (Gianluca Vesce), sono tre fratelli che pare abbiano poco da spartire se non il ricavato della vendita della casa di famiglia; sono dalla notaia (Alessandra Cocorullo), e attendono che si presenti il compratore. È molto difficile scrivere una storia famigliare, e non solo per l’invenzione artistica in sé, ma anche per una banale questione emotiva: in un niente ci si trova a faccia a faccia con i ricordi silenti del pubblico. Questa scritta da Elvira Buonocore è affascinate, capace di unire più generi in modo naturale, diverte e produce quegli attenti silenzi carichi di emozione. I tre fratelli, molto diversi tra loro, hanno in comune un forte attaccamento col mare e sul tavolo della notaia sono disposte in prefetto ordine delle bottiglie piene d’acqua; questa inoltre li tormenta con numerose domande che li costringono a esporsi troppo e in maniera dolorosa. Con attenzione si fa uso dei ricordi, legandoli al tempo presente e producendo così un andamento ondivago della narrazione, che permette inoltre di qualificare in maniera completa le peculiarità di ogni personaggio. Il ricordo si presenta come una particolare dissolvenza: al posto degli adulti, lo spazio è invaso da ragazzini che ripercorrono il difficile rapporto con un padre invadente e manipolatore con cui i rapporti diventeranno impossibili da sostenere. I meccanismi della relazione di famiglia sono resi seminando i silenzi tesi e gli sguardi sbiechi pieni di sensi di colpa. C’è però qualcosa che frena la completa espressione del lavoro, ed è come un timore che aleggia. Gli attori sono più naturali nelle vesti di bambini che in quelli di adulti; un finale così inutilmente esplicito, come se fosse stato necessario alla comprensione porre un punto chiaro, ha smorzato le energie: quel dubbio che invece era stato così bene instillato nelle menti degli spettatori sarebbe stato più adeguato al procedere dei fatti. Inezie facilmente risolvibili rispetto alla bellezza complessiva del lavoro. (Valentina V. Mancini)

Visto a Piccolo Bellini, Cediti: Di Elvira Buonocore; Con Riccardo Ciccarelli, Alessandra Cocorullo, Stefania Remino, Gianluca Vesce; Regia Maria Chiara Montella; Aiuto regia Mario Ascione; Scene Lucia Imperato; Costumi Giuseppe Avallone; Disegno luci Luca Sabatino; Progetto sonoro Alessio Foglia; Produzione Fondazione Teatro di Napoli - Teatro Bellini.

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