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Scintille. Il teatro incompiuto di Platone. Parte I: L’ombra degli oggetti nella lettera settima

Teatrosofia #116. Torniamo su Platone, con la 1° parte di un discorso sui dialoghi visti come testi teatrali

IN TEATROSOFIA, RUBRICA CURATA DA ENRICO PIERGIACOMI – collaboratore di ricerca post-doc e cultore di storia della filosofia antica presso l’Università degli Studi di Trento – CI AVVENTURIAMO ALLA SCOPERTA DEI COLLEGAMENTI TRA FILOSOFIA ANTICA E TEATRO. OGNI USCITA PRESENTA UN TEMA SPECIFICO, ATTRAVERSATO DA UN RAGIONAMENTO. Questo articolo è scritto con il sostegno della Fondazione Bogliasco (Genova)

«Non esiste e non esisterà alcun trattato di Platone». Questa sorprendente dichiarazione è contenuta nella seconda lettera dell’epistolario del corpus platonico, spedita al tiranno Dionisio II di Siracusa. È Platone stesso a parlare. Egli chiede a Dionisio, con cui aveva condiviso alcune rivelazioni sulla «natura del primo» durante il suo secondo viaggio in Sicilia, nella speranza che esse convertissero il tiranno alla filosofia, di bruciare la lettera e gli ripete «per enigmi» le dottrine comunicategli in passato per via orale, impedendo così a occhi indegni di capirne il contenuto. Aggiunge infine che «quanto ora gli si attribuisce», ossia testi che contengono la sua definitiva filosofia, «è dovuto a Socrate, bello e giovane».

L’ultimo riferimento va forse a “Socrate il giovane”, discepolo dell’omonimo e più anziano Socrate. Platone lo mostra come ascoltatore delle conversazioni che si hanno nel Teeteto/Sofista e ne fa il principale interlocutore di Socrate il vecchio nel Politico. Contro l’identificazione, però, si erge un dettaglio proprio di questo dialogo. Socrate il vecchio dice che il giovane gli assomiglia del volto, il che forse non lo rende così “bello”, data la nota bruttezza del filosofo. Per converso, Aristotele testimonia che Socrate il giovane fu membro dell’Accademia platonica. Può darsi che la seconda lettera riferisca allora che questo Socrate sicuramente giovane, forse anche bello, pubblicò trattati sulla «natura del primo» e li spacciò come del maestro, o che in qualche modo contribuì a formare la diceria dell’esistenza di testi che sintetizzano la filosofia platonica. L’assenza di dati risolutivi costringe a sospendere il giudizio.

La sorprendente dichiarazione che «non esiste e non esisterà alcun trattato di Platone» torna nella lettera settima, in cui il filosofo riassume la sua vita e la sua concezione della ricerca filosofica. Egli riferisce che Dionisio II aveva pubblicato un testo in cui spacciava come proprie le rivelazioni cui si allude nella seconda epistola. Platone prende le distanze e afferma che tale materia, che tanti – incluso il tiranno di Siracusa – dicono di conoscere, non può esser espressa sulla pagina, nemmeno da Platone stesso. «Su di esse», ripete di nuovo, «non c’è, né vi sarà, alcun mio scritto». Solo le cose meno serie possono allora essere trascritte. Le verità più importanti e profonde non trovano invece nella scrittura la loro collocazione. La persona che le scopre deve riporle «nella parte più bella che ha», ossia nella propria anima e nella propria memoria.

L’autenticità delle epistole è in realtà dubbia. Potremmo trovarci di fronte, infatti, a opere di falsari. L’ipotesi dà un senso molto diverso al riferimento a Socrate il giovane. Il potenziale falsario della seconda lettera potrebbe aver voluto insinuare che la tentazione di sistematizzare e rendere coerente il pensiero di Platone risale alla prima fase dell’Accademia platonica. In tal caso, l’orientamento filosofico del falsario può essere stato quello scettico della seconda Accademia, più di preciso di Arcesilao. Secondo la fonte di Sesto Empirico, infatti, egli sosteneva che nulla è conoscibile e che si deve sospendere il giudizio, ma anche che usava queste aporie come preparazione alle verità segrete da Platone e non condensate nei suoi scritti. Il quadro non è troppo diverso da quanto leggiamo nella lettera settima. Se ci troviamo davanti a un falsario, può darsi che il suo intento fosse mostrare che è il platonismo scettico l’erede di Platone, non quello sistematizzante che risalirebbe già a Socrate il giovane.

Se invece accogliamo l’autenticità delle lettere, e a mio avviso non vi sono ragioni per dubitare almeno della settima, avremo l’unico gruppo di testi del corpus platonico in cui Platone dice “io”. Infatti, nei due soli dialoghi in cui quest’ultimo fa menzione di sé, egli si defila: nell’Apologia di Socrate, si mostra come uno dei tanti discepoli istruiti da Socrate e disposti a pagare una multa a suo favore, nel Fedone come malato e assente il giorno della morte del maestro. È interessante notare, nel coacervo di enigmi e cautele che troviamo nelle lettere, che Platone presenta il suo pensiero come un non-pensiero. Poiché i suoi ipsissima verba attestano che non ha scritto nulla di serio, ne segue che la sua dottrina non è stata presentata nei dialoghi che ci sono giunti.

Lucio Fontana. Concetto spaziale. Attese, 1963-1964.. Foto Artesvelata.it

Ora, se Platone considerava questi ultimi dei testi teatrali e dei giochi, significa che essi non hanno alcun valore? Se invece lo hanno, ma non dicono nulla di così profondo, perché prendersi la briga di scriverli? La risposta alla prima domanda è che il gioco per Platone è qualcosa di molto serio. È di nuovo l’epistolario a dare precisazioni utili. Nella sesta lettera, Platone (o un buon falsario) scrive che la giocosità è sorella della serietà. Si possono così fare giochi accattivanti che, nondimeno, assolvono funzioni conoscitive importanti. Quanto alla seconda domanda, essa può trovare una risposta ipotetica guardando più da vicino alla lettera settima, precisamente alla descrizione del procedere della ricerca filosofica.

Subito dopo aver ricordato che non vi può essere testo che presenti la verità, Platone aggiunge che la sua filosofia «non è una scienza come le altre». Essa non è comunicabile, perché «come fiamma s’accende da fuoco che balza: nasce d’improvviso nell’anima dopo un lungo periodo di discussioni sull’argomento e una vita vissuta in comune, e poi si nutre di sé medesima». Quindi Platone ricorda il metodo seguito in questa ricerca in comune per indagare un qualsiasi tema, che si fonda su cinque momenti: nome, definizione, immagine, conoscenza dell’oggetto, oggetto in quanto tale. Per poter conoscere qualcosa, occorre nominare questo qualcosa, poi definirlo, poi tradurlo in immagini. Da qui sgorga una conoscenza dell’oggetto, che subentra dai primi tre elementi, ma non è riducibile a questi. La conoscenza può infatti essere usata da punto di partenza per una nuova ricerca e per problematizzare gli stessi elementi da cui pure è nata.

Platone presenta nella lettera settima l’esempio della ricerca sul cerchio. Per conoscerlo, prima lo si nomina appunto “cerchio” (e non quadrato o triangolo), poi lo si definisce («figura che ha tutti i punti estremi ugualmente distanti dal centro»), infine si traduce ciò in un’immagine. La conoscenza che ne discende è geometrica: si ha l’opinione retta o intuizione che il cerchio sia l’oggetto descritto dall’unione di questi elementi. Ora, però, nessuno di questi contributi è decisivo, perché non coglie l’essenza del cerchio in sé, al massimo individua alcune sue qualità. Il nome “cerchio” è arbitrario, tanto che lo si può chiamare “circle”, “cercle”, “Ring”, o anche “triangolo” o “quadrato”. Nominare è allora un’attività instabile, che non rispecchia la stabilità della cosa in sé. Le definizioni sono a loro volta fatte di parole equivoche e colme di instabilità, quali “figura” o “punto”. L’immagine che traduce il cerchio definito è infine pieno anche di qualità di “non-cerchio”. Un cerchio disegnato non avrà tutti i punti pienamente distanti dal loro centro. La conseguenza è che la conoscenza del cerchio è sempre approssimativa. Per esempio, si potrà confutare il geometra col dire che la nozione di “punto” non ha senso, o mostrando che la rappresentazione geometrica non esaurisce le proprietà della figura (si può cerchiare uno spazio per organizzare al suo interno una danza, o si può ricorrere alla circolarità per parlare del divenire ciclico del tempo, ecc.). Un’ultima difficoltà è, infine, che a monte l’oggetto in sé è inattingibile, se il soggetto indagante non gli è «congenere». Una persona intelligente / di forte memoria che è però viziosa non potrà sapere cosa sono la virtù e l’onestà, perché la sua natura è troppo diversa da ciò di cui va in cerca.

Ne segue che, durante un’indagine, arriviamo facilmente al quarto momento, mentre ci arrestiamo sempre sulla soglia del quinto, o dell’oggetto in sé. Sarà salendo e discendendo tra questi quattro elementi senza sosta, confutando e affinando i risultati provvisori, nonché confrontandosi con altri che conducono la stessa ricerca senza rivalità né ostilità, che alla fine, forse, si arriverà ad accendere nella mente di uno o più ricercatori la scintilla di quel fuoco che è l’intuizione/intellezione diretta della cosa indagata. La filosofia non è allora «una scienza come le altre», perché non impone un contenuto già pronto e definitivo. Essa agevola un percorso di apprendimento faticoso e che termina con un successo solo a pochi individui «congeneri» agli oggetti della realtà.

Ora, tenendo fermo quanto leggiamo nella lettera settima e considerando plausibile l’ipotesi che i dialoghi platonici siano testi teatrali, si può supporre che essi attuino un simile procedimento. Ogni dialogo nomina la cosa di cui si va in cerca e propone alcune definizioni della stessa, ma soprattutto traduce in immagine “dinamica” o “performativa” la pratica di confutazione e problematizzazione della conoscenza acquisita. Lo Ione dà ad esempio il nome di “arte poetica” alla recitazione e alla rapsodia, la definisce in più punti e mostra l’immagine di Socrate che rivela l’inadeguatezza delle proposte definitorie del personaggio di Ione. Il dialogo quindi si conclude con il riconoscimento a quest’ultimo di una capacità di recitare per ispirazione divina. Ciò però significa ammettere che non sappiamo razionalmente che cosa siano il teatro o la recitazione e l’arte poetica. Se lo Ione è un testo drammatico, esso ne è uno incompiuto e che precipita lo spettatore nell’ignoranza.

La conseguenza di tale lettura è che i dialoghi platonici non contengono dottrine. Sono piuttosto esperimenti: pratiche di un laboratorio permanente di ricerca in cui Platone propone più vie, allude alle cose che lui stesso non conosce e si augura un giorno di apprendere. Secondo questa ipotesi, anche la descrizione del percorso di conoscenza della settima lettera potrebbe essere provvisoria, o una delle molte piste percorribili: in questo caso, una performativa-filosofica. Lo proverebbe il fatto che il metodo nome-definizione-immagine scompare dalle riflessioni conoscitive che troviamo in altri dialoghi. Anche nella lettera settima non è consegnato, pertanto, il pensiero ultimo di Platone. Essa è uno dei molti potenziali (e problematici) esperimenti di ricerca in comune.

L’ipotesi del laboratorio teatrale-filosofico permanente spiega forse perché i testi platonici a volte esprimano vedute incompatibili, o programmi di pensiero/azione impossibili da armonizzare. Restando in questa sede con il focus sull’ambito performativo, i libri II-III e X della Repubblica attaccano il teatro, dunque contraddicono la concezione positiva che abbiamo visto nello Ione e anche il contenuto del libro V sempre della Repubblica, che paragona la filosofia a uno “spettacolo della verità”. Se leggiamo questi dialoghi contrapposti secondo la cornice della lettera settima, possiamo ipotizzare che sono tutte immagini rivedibili e di cui non si sa quale sia quella corretta. Il lettore o spettatore è così portato a indagare, a chiedersi insieme ad altri cosa sia la recitazione. Il teatro dei dialoghi platonici è insomma un teatro di ombre: un luogo dove i personaggi con i loro tentativi e i relativi fallimenti alludono all’idea o cosa intelligibile, allo stesso modo in cui le ombre rinviano ai corpi rifratti dalla luce del sole incandescente. Ripercorrendo avanti e indietro il contenuto o gli elementi del dialogo, discutendovi con altre persone innamorate della ricerca, forse un giorno si accenderà nell’anima la scintilla che farà balzare a guisa di fiamma l’intuizione del teatro autentico, arcano, inaccessibile.

La performance della filosofia platonica non chiude infine nulla, come lo scritto che ripete sempre gli stessi contenuti e li presenta come esaustivi, bensì sono un’apertura. Come i quadri delle tele tagliate di Fontana, i dialoghi creano un varco a una visione di qualcosa che non si comprende, né si riesce a definire e immaginare bene. Platone e le ombre dei suoi personaggi sono sia prova della nostra ignoranza, sia scintille che guidano con una fioca luce verso l’ignoto e l’abisso.

—————————————-

LO STRANIERO: Lo lasceremo questa volta riposare prendendo al suo posto il suo compagno d’esercizi, questo Socrate qui? Oppure hai altro da consigliare?

TEODORO: Fa come hai detto; ambedue sono giovani e così sopporteranno meglio ogni fatica di questo genere, se avranno modo di riposarsi.

SOCRATE: E c’è proprio caso, straniero, che ambedue abbiano da qualche parte un rapporto di parentela con me, che siano del mio stesso genere. Comunque, uno lo dite voi stessi che mi assomiglia nel volto, per l’altro, essendo il nome suo uguale al mio, l’uso di questo nome crea fra lui e me un’aria di famiglia: noi dobbiamo essere sempre pronti a riconoscere quelli che appartengono allo stesso genere, durante i discorsi (Platone, Politico, passo 257c7-258a3 = Socrate il giovane, T3 Lasserre)

Raggiunta l’età di 17 anni e poiché la Pizia gli aveva ingiunto di dedicarsi alla filosofia, egli [Socrate il giovane] andò ad Atene, dove seguì Socrate e rimase con lui per tre anni. Alla morte di Socrate, seguì Platone e rimase con lui venti anni, fino alla sua morte, come dichiara [Aristotele] nella lettera a Filippo (Anonimo, Vita latina di Aristotele, cap. 5 = Socrate il giovane, T5b Lasserre; trad. mia)

Su quell’altra questione che è ben più importante e divina di questa, e per la quale appunto tu, trovandoti nel dubbio, hai mandato Archedemo, dovrò dargli accurate spiegazioni. Egli mi dice che tu non sei soddisfatto di quanto ti è stato rivelato sulla natura del “primo”. Te ne parlerò dunque, ma per enigmi, affinché, se la lettera andrà perduta nei recessi del mare o della terra, chi la legge non la capisca. Le cose stanno cosi. Tutto sta intorno al re del tutto, e tutto è per esso, e tutte le cose belle sono da esso; le cose seconde stanno intorno al secondo; le terze intorno al terzo. Or dunque l’anima umana tende a conoscere com’esse sono e guarda alle cose che le sono affini, ma di queste nessuna è bastevole. Per quanto riguarda il re e le cose che ho dette, nulla c’è di simile. Allora l’anima si domanda: «Di che specie sono?». E questa è la domanda, o figlio di Dionisio e di Doride, ch’è causa di tutti i mali; o piuttosto la doglia che si genera nell’anima per rispondervi, e dalla quale essa deve essere liberata, se vuole giungere realmente alla verità. Questo tu mi dicesti d’aver pensato, quand’eravamo nel giardino sotto gli allori, e che questa era una tua scoperta: ed io ti risposi che, se ti pareva che le cose stessero cosi, mi avevi liberato dalla necessità di fare molti discorsi (Platone [?], Lettera II, passo 312d3-313b4)

Bada tuttavia che questa lettera non cada nelle mani di uomini ignoranti, perché, se non sbaglio, gli uomini per lo più giudicano che non vi siano discorsi più ridicoli di questi, mentre in realtà non ve ne sono di più mirabili e ispiratori per la gente bennata. Sono dottrine che bisogna discutere spesso e udirle sempre esporre e per molti anni: e allora, a stento e con molta fatica, si purificano, come l’oro. Ed ascolta questa loro mirabile qualità: ci sono parecchi uomini, che hanno sentito discutere questi problemi, uomini capaci di intendere, di ricordare e di giudicare dopo aver esaminato un problema per ogni verso, i quali, già vecchi, dopo aver studiato per più di trent’anni, affermano che quello che una volta pareva loro incredibile, ora lo trovano chiarissimo ed evidentissimo; e quello che pareva credibilissimo, ora non lo trovano più tale. E dunque pensa a questo, e guarda di non averti a pentire per aver lasciato conoscere a gente indegna queste dottrine. Il miglior modo per mantenere il segreto è quello di non scrivere, ma di imparare a memoria, perché non è possibile evitare la divulgazione di ciò che è scritto. Per questa ragione io non ho mai scritto di queste cose; sicché non esiste e non esisterà mai alcun trattato di Platone. Quanto ora gli si attribuisce, è dovuto a Socrate, bello e giovane. Animo dunque, e dammi ascolto: leggi parecchie volte questa lettera, e poi bruciala (Platone [?], Lettera II, passo 314a2-c6 = Socrate il giovane, D2 Lasserre [dubbio])

Questo tuttavia io posso dire di tutti quelli che hanno scritto e scriveranno dicendo di conoscere ciò di cui io mi occupo per averlo sentito esporre o da me o da altri o per averlo scoperto essi stessi, che non capiscon nulla, a mio giudizio, di queste cose. Su di esse non c’è, né vi sarà, alcun mio scritto. Perché non è, questa mia, una scienza come le altre: essa non si può in alcun modo comunicare, ma come fiamma s’accende da fuoco che balza: nasce d’improvviso nell’anima dopo un lungo periodo di discussioni sull’argomento e una vita vissuta in comune, e poi si nutre di se medesima. Questo tuttavia io so, che, se ne scrivessi o ne parlassi io stesso, queste cose le direi cosi come nessun altro saprebbe, anche che se fossero scritte male, molto me ne affliggerei. Se invece credessi che si dovessero scrivere e render note ai più in modo adeguato e si potessero comunicare, che cosa avrei potuto fare di più bello nella mia vita, che scriver queste cose utilissime per gli uomini, traendo alla luce per tutti la natura? Ma io non penso che tale occupazione, come si dice, sia giovevole a tutti; giova soltanto a quei pochi che da soli, dopo qualche indicazione, possono progredire fino in fondo alla ricerca: gli altri ne trarrebbero soltanto un ingiustificato disprezzo o una sciocca e superba presunzione, quasi avessero appreso qualche cosa di augusto. Ma di questo voglio parlare ancora e più a lungo, e forse, dopo che avrò parlato, qualcuna delle cose che dico riuscirà più chiara. V’è infatti una ragione profonda, che sconsiglia di scrivere anche su uno solo di questi argomenti, ragione che io ho già dichiarata più volte, ma che mi sembra opportuno ripetere. Ciascuna delle cose che sono ha tre elementi attraverso i quali si perviene a conoscerla; quarto è la conoscenza; come quinto si deve porre l’oggetto conoscibile e veramente reale. Questi sono gli elementi: primo è il nome, secondo la definizione, terzo l’immagine, quarto la conoscenza. Se vuoi capire quello che dico, prendi un esempio, pensando che il ragionamento che vale per un caso, vale per tutti. Cerchio è una cosa che ha un nome, appunto questo nome che abbiamo ora pronunciato. Il secondo elemento è la sua definizione, formata di nomi e di verbi: quella figura che ha tutti i punti estremi ugualmente distanti dal centro, questa è la definizione di ciò che ha nome rotondo, circolare, cerchio. Terzo è ciò che si disegna e si cancella, che si costruisce al tornio e che perisce; nulla di tutto questo subisce il cerchio in sé, al quale si riferiscono tutte queste cose, perché esso è altro da esse. Quarto è la conoscenza, l’intuizione e la retta opinione intorno a queste cose: esse si devono considerare come un solo grado, ché non risiedono né nelle voci né nelle figure corporee, ma nelle anime, onde è evidente che la conoscenza è altra cosa dalla natura del cerchio e dai tre elementi di cui ho già parlato. La intuizione è, di esse, la più vicina al quinto per parentela e somiglianza: le altre ne distano di più. Lo stesso vale per la figura diritta e per la figura rotonda, per i colori, per il buono per il bello per il giusto, per ogni corpo costruito o naturale, per il fuoco per l’acqua e per tutte le altre cose simili a queste, per ogni animale, per i costumi delle anime, per ogni cosa che si faccia o si subisca. Perché non è possibile avere compiuta conoscenza, per ciascuno di questi oggetti, del quinto, quando non si siano in qualche modo afferrati gli altri quattro. Oltre a questo, tali elementi esprimono non meno la qualità che l’essenza di ciascuna cosa, per causa della inadeguatezza dei discorsi; perciò nessuno, che abbia senno, oserà affidare a questa inadeguatezza dei discorsi quello ch’egli ha pensato, e appunto ai discorsi immobili, come avviene quando sono scritti. Bisogna però che io spieghi di nuovo quello che ho detto. Ciascun cerchio, di quelli che nella pratica si disegnano o anche si costruiscono col tornio, è pieno del contrario del quinto, perché ogni suo punto tocca la linea retta, mentre il cerchio vero e proprio non ha in sé né poco né molto della natura contraria. Quanto ai loro nomi, diciamo che nessuno ha un briciolo di stabilità, perché nulla impedisce che quelle cose che ora son dette rotonde si chiamino rette, e che le cose rette si chiamino rotonde; e i nomi, per coloro che li mutassero chiamando le cose col nome contrario, avrebbero lo stesso valore. Lo stesso si deve dire della definizione, composta com’è di nomi e di verbi: nessuna stabilità essa ha, che sia sufficientemente e sicuramente stabile. Un discorso che non finisce mai si dovrebbe poi fare per ciascuno dei quattro, a mostrare come sono oscuri; ma l’argomento principale è quello al quale ho accennato poco fa, e cioè che, essendoci due principi, la realtà e la qualità, mentre l’anima cerca di conoscere il primo, ciascuno degli elementi le pone innanzi, nelle parole e nei fatti, il principio non ricercato; in tal modo ciascun elemento, quello che si dice o che si mostra ce lo presenta sempre facilmente confutabile dalle sensazioni, e riempie ogni uomo di una, per cosi dire, completa dubbiezza e oscurità. E dunque, là dove per una cattiva educazione non siamo neppure abituati a ricercare il vero e ci accontentiamo delle immagini che ci si offrono, non ci rendiamo ridicoli gli uni di fronte agli altri, gli interrogati di fronte agli interroganti, capaci di disperdere e confutare i quattro; ma quando vogliamo costringere uno a rispondere e a rivelare il quinto, uno che sia esperto nell’arte di confutare può, quando lo voglia, avere la vittoria, e far apparire alla gran parte dei presenti che chi espone un pensiero o con discorsi o per iscritto o in discussioni, non sa alcunché di quello che dice o scrive; e questo avviene appunto perché quelli che ascoltano ignorano talvolta che non è l’anima di chi scrive o parla che viene confutata, ma la imperfetta natura di ciascuno dei quattro. Solo trascorrendo continuamente tra tutti questi, salendo e discendendo per ciascuno di essi, si può, quando si ha buona natura, generare a gran fatica la conoscenza di ciò che a sua volta ha buona natura. Se invece uno non ha una natura buona, come avviene per la maggior parte degli uomini, privi d’una naturale disposizione ad apprendere e incapaci di vivere secondo i cosiddetti buoni costumi, e questi sono corrotti, neppure Linceo potrebbe dar la vista a gente co1ne questa. In una parola, chi non ha natura congenere alla cosa, né la capacità d’apprendere né la memoria potrebbero renderlo tale (ché questo non può assolutamente avvenire in nature allotrie); perciò quanti non sono affini e congeneri alle cose giuste e alle altre cose belle non giungeranno a conoscere, per quanto è possibile, tutta la verità sulla virtù e sulla colpa, anche se abbiano capacità d’apprendere e buona memoria chi per questa e chi per quella cosa, né la conosceranno quelli che, pur avendo tale natura, mancano di capacità d’apprendere e di buona memoria. Infatti insieme si apprendono queste cose, e la verità e la menzogna dell’intera sostanza, dopo gran tempo e con molta fatica, come ho detto in principio; allora a stento, mentre che ciascun elemento (nomi, definizioni, immagini visive e percezioni), in dispute benevole e in discussioni fatte senza ostilità, viene sfregato con gli altri, avviene che l’intuizione e l’intellezione di ciascuno brillino a chi compie tutti gli sforzi che può fare un uomo. Perciò, chi è serio, si guarda bene dallo scrivere di cose serie, per non esporle all’odio e all’ignoranza degli uomini. Da tutto questo si deve concludere, in una parola, che, quando si legge lo scritto di qualcuno, siano leggi di legislatore o scritti d’altro genere, se l’autore è davvero un uomo, le cose scritte non erano per lui le cose più serie, perché queste egli le serba riposte nella parte più bella che ha; mentre, se egli mette per iscritto proprio quello che ritiene il suo pensiero più profondo, non certo gli dèi, ma i mortali «gli hanno tolto il senno» (Platone, Lettera VII, passo 340c1-344d2)

Se si deve credere anche a ciò che si racconta su di lui [Arcesilao], dicono che in superficie appariva essere un Pirroniano [scil. uno scettico], mentre in verità era un dogmatico; e poiché metteva alla prova i compagni per mezzo dell’aporetica, per vedere se avessero una buona disposizione alla ricezione delle dottrine di Platone, egli sembrava essere un aporetico, mentre in realtà a quelli che erano ben disposti divulgava le dottrine platoniche (Sesto Empirico, Lineamenti pirroniani, libro I, § 234 = Arcesilao di Pitane, F86 Vezzoli)

Che se davvero io corrompo i giovani, se taluni anzi gli ho già corrotti, bisognava pure che questi, il giorno in cui divenuti vecchi si fossero accorti che quando erano giovani io li consigliavo al male, venissero qui alla tribuna per accusarmi e per farmi punire; e se non volevano far ciò essi direttamente, se ne rammentassero oggi le persone di casa loro, padri e fratelli e altri congiunti, se i loro cari, patirono male da me; e mi facessero punire codesti. Ebbene, molti di costoro sono qui presenti; io li vedo: (…)e c’è Adimanto figlio di Aristòne, di cui ecco qui il fratello Platone (Platone, Apologia di Socrate, passo 33c8-34a2)

Potrei pagarvi una mina d’argento. E dunque mi multo di una mina d’argento. Ma c’è qui Platone, o Ateniesi, e Critone, e Critobùlo e Apollodoro, i quali vogliono ch’io mi multi di trenta mine, e ne fanno garanzia loro stessi. E allora mi multo di trenta mine. E vi saranno garanti della somma questi qui: persone degne di fede (Platone, Apologia di Socrate, passo 38b4-8)

ECHECRATE: E chi c’era di presenti [alla morte di Socrate], o Fedone?

FEDONE: Del luogo c’era, come s’è detto, questo Apollodoro, e c’erano Critobùlo e suo padre, e anche c’erano Ermogene ed Epigene ed Eschine e Antistene; c’era poi anche Ctesippo di Peania e Menesseno e alcuni altri del luogo; Platone, credo, era ammalato (Platone, Fedone, passo 59b5-10)

Questa lettera dovete leggerla tutti e tre, meglio insieme, altrimenti due alla volta, insieme se è possibile, il più spesso che potete, e servitevene come se fosse un patto e una legge sovrana, com’è giusto, giurando con serietà non priva di grazia e con la giocosità che è sorella della serietà; giurate in nome del dio che è guida di tutte le cose, presenti e future, del padre signore della guida e della causa, che, se saremo davvero filosofi, conosceremo tutti chiaramente, per quanto è dato a uomini beati (Platone [?], Epistola VI, passo 323c6-d6)

Platone e i Pitagorici pongono una grande distanza (fra la Realtà intelligibile e il mondo sensibile), ma dicono che tutti gli enti sensibili tendono a imitare gli intelligibili. Tuttavia stabiliscono come una antitesi fra la Diade infinita e l’Uno, e dicono che in essa ha radice ciò che è indefinito, disordinato e di per sé implica assenza di forma: è per loro assolutamente impossibile escludere la Diade indefinita per costituire la natura dell’Universo preso come un tutto, ma dicono che essa, in qualche modo, ha una parte uguale o addirittura superiore all’altro principio: ne deriva che i principi stessi sono per loro dei contrari (Teofrasto, Metafisica, passo 11a27-b7 = Platone, “Dottrine non-scritte”, T90 Richard)

[Cito le traduzione degli estratti dei dialoghi platonici da Gabriele Giannantoni (a cura di), Platone: Tutte le opere, 2 voll., Roma-Bari, Laterza, 1974. Per una difesa dell’autenticità della settima lettera, si rinvia infine a Filippo Forcignanò (a cura di), Platone: Settima lettera, Roma, Carocci, 2020. Si sono inoltre usate le seguenti raccolte di testi:

  1. François Lasserre, Socrate le jeune, in François Lasserre (éd.), De Léodamas de Thasos à Philippe d’Oponte, Napoli, Bibliopolis, 1987, pp. 67-73 e 281-286;

  2. Simone Vezzoli (a cura di), Arcesilao di Pitane: l’origine del Platonismo neoaccademico, Turnhout, Brepols, 2016;

  3. Marie-Dominique Richard (a cura di), L’insegnamento orale di Platone, presentazione di

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Enrico Piergiacomi
Enrico Piergiacomi
Enrico Piergiacomi è cultore di storia della filosofia antica presso l’Università degli Studi di Trento e ricercatore presso il Centro per le Scienze Religiose della Fondazione Bruno Kessler di Trento. Studioso di filosofia antica, della sua ricezione nel pensiero della prima età moderna e di teatro, è specialista del pensiero teologico e delle sue ricadute morali. Supervisiona il "Laboratorio Teatrale" dell’Università degli Studi di Trento e cura la rubrica "Teatrosofia" (https://www.teatroecritica.net/tag/teatrosofia/) con "Teatro e Critica". Dal 2016, frequenta il Libero Gruppo di Studio d’Arti Sceniche, coordinato da Claudio Morganti. È co-autore con la prof.ssa Sandra Pietrini di "Büchner, artista politico" (Università degli Studi di Trento, Trento 2015), autore di una "Storia delle antiche teologie atomiste" (Sapienza Università Editrice, Roma 2017), traduttore ed editor degli scritti epicurei del professor Phillip Mitsis dell'Università di New York-Abu Dhabi ("La libertà, il piacere, la morte. Studi sull'Epicureismo e la sua influenza", Roma, Carocci, 2018: "La teoria etica di Epicuro. I piaceri dell'invulnerabilità", Roma, L'Erma di Bretschneider, 2019). Dal 4 gennaio al 4 febbraio 2021, è borsista in residenza presso la Fondazione Bogliasco di Genova. Un suo profilo completo è consultabile sul portale: https://unitn.academia.edu/EnricoPiergiacomi

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