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Atlante XXVIII – Viva, l’Italia?

tricolore luttoDi un tricolore, al buio della sera, si avverte in ogni caso solo una velatura di bianco, un’ombra più chiara che sottace all’oscurità quell’esigenza luminosa conservata in segreto dal giorno. Gli altri due colori del simbolo ben noti, di nitide tinte ad affasciare il bianco in mezzo, a quell’ora ingravidano il silenzio di una tendenza all’opaco, calanti entrambi verso l’uniformità di un nero che non rende giustizia della loro vivacità. Eppure, nella notte ch’è vigilia a un 25 aprile, nel cortile interno di una città metropolitana, l’immagine rende ai pensieri come una reliquia di memoria che una sottile venatura insiste a far pulsare di due diversi flussi sanguigni: che cosa ricordiamo il 25 aprile? Quale clamore resistente sconvolge la stasi di questo silenzio inanimato? Quale nascosta premura interviene a diradare il frastuono della pressante attualità? Due immagini rincorrono la propria antitesi, si sovrastano cercando di prevalere. Ognuno sceglierà la migliore, a sé più incline, ma nessuno accetterà di esserne la parte negativa. Oscurati dal nero, il rosso e il verde di una bandiera. Ne risente il bianco assediato e costretto, la sua anima di purezza dalla storia è inasprita. E noi? Attori di una tragedia, la mistura avvelenata di protervia e buoni sentimenti ci ammorbidisce nella poltrona degli spettatori, coloro che hanno agito in nome del bene, vittime d’un altrui delitto. Attori di altro tempo, entrati in scena il giorno che li fece tutti eroi.

Perché dire questo, animati da una visione nel cortile interno al Lotto 14 di fronte al Teatro Palladium di Roma, dove Camera21 di Eva Tomei con Simona Filippini ha presentato 25, proiezione di video interviste nell’ambito del Festival Teatri di Vetro. Perché. Una domanda posta con pudore, priva dell’invadenza di un interrogativo a fine frase. La proiezione ha come fondale la parete esterna di una palazzina, il quartiere si è spinto nel cortile come un convegno spontaneo, bambini sullo sfondo approfittano di alcuni spazi per giocare, famiglie si affacciano alle finestre di una casa con vista umanità: una parte, seduta o all’impiedi, di fronte a una sequela di moniti e ricordi del Giorno della Liberazione; una parte nello schermo si fa portatrice delle parole nobili e intoccabili che tutti vogliamo ascoltare, ne abbiamo bisogno, non accetteremmo altro dal loro invito a illuminare il bianco e l’interezza di quel tricolore. Ma l’anima conserva dei dolori non più che una vaghezza, ricordo sbiadito che al passato concede il cammino lento degli eroi. Alla storia, prende il passo la storiografia.

C’è allora qualcosa di sinistro nella memoria collettiva: non è la memoria a essere condivisa, ma la sua celebrazione. A determinare l’unità di un popolo è la rappresentazione cardinale dei passaggi storici – o appunto storiografati – proprio là dove la storia svelerebbe una verità ben diversa da quel che ci aggrada credere. L’Italia che ha consegnato il Novecento a questo primo ventennio di rinnovata modernità sembra aver conservato tra le vecchie pratiche quella di dichiararsi in ogni caso innocente fra gli innocenti: il 25 aprile si festeggia la Liberazione dal nazi-fascismo, tuttavia composto in prima istanza dagli stessi liberatori, o parenti, familiari, amici, insomma: l’identico popolo italiano che si libera della sua parte cattiva. E la ignora. Tra pochi giorni la festa dei Sindacati Confederali celebrerà il Primo Maggio, Festa dei Lavoratori, anche di quelli che nelle organizzazioni sindacali ancora oggi lavorano in nero. Nel paradosso e nell’omissione è stata costruita la modernità di questo paese.

Perché allora non si inizia a celebrare la Marcia su Roma del 28 ottobre 1922 o l’incarico di governo a Mussolini di due giorni dopo? O perché non festeggiare l’estensione delle Leggi di Norimberga o l’inizio dell’occupazione nazista l’8 settembre 1943? La tendenza ad annoverare sé stessi nella fila dei buoni ha attraversato l’intera storia unitaria: da Marzabotto a Capaci, da Sapri alla stazione di Bologna, i colpevoli sono gli altri e lo Stato è difensore dei cittadini e garante della loro incolumità. Lo Stato dice di sé stesso quel che presiede alla sua continuità. Nasconde la sua storia nera nei colori di una bandiera. Ma la sera, quando il buio astorico uniforma le azioni e le intenzioni, si posa il velo a trasformare la rappresentazione in clandestina verità. Oggi più di ieri abbiamo bisogno di raccontare quella volta in cui siamo stati vigliacchi criminali, non quella in cui siamo stati vittime o eroi. Altrimenti la storia, la nostra storia, non la capiremo mai e ne vivremo solo lontana riproduzione. Il neo-rieletto Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, nel suo discorso di re-insediamento ha concluso con un – secondo lui – ben augurante: «Viva la Repubblica! Viva l’Italia!». Ma è l’ora di chiederci: quel «viva» è un aggettivo non verificato oppure l’esortazione di un imperativo presente?

Simone Nebbia

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