HomeIDEEPoliticheQuale lotta è in scena al Valle Occupato?

Quale lotta è in scena al Valle Occupato?

La presentazione della bozza definitiva dello Statuto della Fondazione Teatro Valle Bene Comune offre l’occasione per riflettere sul percorso pratico e teorico di questi mesi d’occupazione del Teatro Valle.
Lo Statuto, che nasce sotto la supervisione del giurista Ugo Mattei (docente di diritto civile) e della professoressa Federica Giardini (docente di filosofia politica), è il risultato di un percorso condiviso di ricerca sul piano del diritto e del significato sociale e giuridico di Bene Comune. Oltre che un’importante dichiarazione d’intenti, lo statuto rappresenta un esempio di quella che il Comitato definisce “decolonizzazione del linguaggio”, obiettivo raggiunto attraverso lo studio del valore semantico di termini il cui significato ha subito ricontestualizzazioni o addirittura storpiature nel corso del tempo.
Dato appunto il valore che il Comitato riconosce a tali termini, vorrei tentare di ricostruire l’orizzonte di pensiero e d’azione espresso dal movimento, di cui troviamo conferma nello Statuto, a partire dalle parole/mondi che maggiormente ne caratterizzano la produzione verbale e scritta.

Partecipazione
Richiamata sia dai discorsi tenuti in sede assembleare che dallo Statuto stesso, la partecipazione democratica è uno dei valori su cui si fonda l’attività della Fondazione, concetto in grado di declinarsi secondo diverse sfumature di significato: partecipazione della cittadinanza alla vita del teatro attraverso l’utilizzo di spazi predisposti allo scopo, partecipazione degli artisti alla cura della programmazione, partecipazione attiva di una parte dei soci all’attività decisionale e gestionale.
La partecipazione di esperti di legge e filosofia e dei molti artisti che hanno offerto la propria opera a sostegno del teatro è stato ciò che ha reso possibile la stra-ordinaria gestione del teatro Valle in questi sei mesi.
A fronte di una costante chiamata alla partecipazione, la presentazione dello Statuto, che dovrebbe richiamare l’attenzione di tutti coloro che gravitano nel settore dello spettacolo e che hanno a cuore il destino del teatro, si è svolta al cospetto di una platea semi-vuota. Non solo scarsa è stata la partecipazione del pubblico generico, ma anche di quello specializzato, che invece nella fase iniziale dell’occupazione aveva dimostrato interesse ed entusiasmo.
Questo vuoto, che sarebbe giusto voler interpretare da ambo le parti (occupanti e assenti), ha rappresentato ai miei occhi l’immagine metaforica della mancanza di comunicazione tra gli occupanti e coloro che costituiscono il mondo teatrale (artisti, critici, organizzatori, direttori artistici…) attivi sul territorio romano e nazionale, una mancanza sempre percepita, da molti lamentata, in questo caso palese.
Il tono autoreferenziale assunto dal discorso in sede assembleare è stata la conseguenza (ma probabilmente anche la causa) della scarsa partecipazione.
Parole importanti ma a rischio di interpretazione ambigua sono state utilizzate dal Comitato, senza essere collocate in un orizzonte di senso preciso, in mancanza del quale le stesse suonano, all’interlocutore, più come parole d’ordine di un discorso demagogico che come metafore. Vorrei in questa sede tentare di evocarne alcune, accompagnando le impressioni alle perplessità.

Bene Comune
Nel pensiero alla base della Fondazione, il concetto civile e giuridico di bene comune, solitamente associato all’universo dei servizi primari – come l’acqua o la cultura – che uno Stato dovrebbe offrire ai propri cittadini, si amplia fino a comprendere la dimensione di un organismo, quale un teatro, che contempla aspetti gestionali. Il termine posto a sigillo dell’azione d’occupazione vuole dunque significare che il fine ultimo del processo di riappropriazione è la restituzione del teatro, in quanto bene comune, alla comunità.
Quando un bene diventa comune, l’accento si sposta dal soggetto proprietario del bene alla natura del bene in questione, da cui dipende la sua necessità per la comunità. Ed è per questo che, volendo traslare il concetto di bene comune in ambito culturale, è importante definire di volta in volta la natura del bene in questione, in tal caso il teatro. Una definizione più ampia e precisa della natura del bene dovrebbe essere espressa nell’articolo 6, dove si definisce il Patrimonio della Fondazione e dove il discorso resta invece generico. In tal modo non avviene il processo di significazione che dovrebbe investire il termine bene comune, vanificato inoltre dall’inflazione e dall’abuso che recentemente ne caratterizza l’utilizzo. Quando tutto e il suo contrario viene difeso alla stregua di bene comune e questa stessa “categoria” mantiene confini di senso labili, anche ciò che a ragione potrebbe essere definito tale non trova nell’autodefinirsi bene comune un valido supporto né un’arma adeguata.
L’uso inflattivo dell’espressione, che in un primo momento è stato ciò che ha dato visibilità al movimento, è oggi il motore del depotenziamento del suo relativo concetto. Nel passaggio da una fase in cui il pensiero è espresso in modo astratto ed è finalizzato a instillare il germe della battaglia ad un momento in cui la creatività si mette al servizio di una produzione di pensiero operativo, funzionale e ideale al tempo stesso quegli stessi termini che finora sono stati utilizzati come slogan di una battaglia dovrebbero trovare una definizione più limpida.

Lotta
Federica Giardini definisce performativo il carattere del bene comune, volendo in tal modo identificarne la natura metamorfica, che porta ad accompagnare con la lotta il momento stesso della sua affermazione. L’accostamento dei due termini – lotta e performativo – rimanda immediatamente a quelle esperienze di ambito teatrale che, come il Living Theatre, hanno voluto far convergere arte e politica. Da questo pilastro di storia del teatro non si può prescindere qualora si decida di utilizzare un linguaggio in qualche modo afferente il campo semantico della Rivoluzione, come non si dovrebbe rinunciare a ricontestualizzare il termine (lotta, rivoluzione – se di rivoluzione sia ancora giusto parlare…) in una concezione dell’arte e della politica che cambiano.

Comunardi
È il termine con cui vengono definiti i soci che, diversamente dai sostenitori – ovvero coloro che contribuiranno all’attività della Fondazione attraverso un apporto pecuniario – saranno in grado di contribuire anche attraverso un impegno pratico. La definizione fa riferimento all’esperienza della Comune di Parigi del 1792 nella Francia rivoluzionaria, un’eredità storica cui occorre relazionarsi con consapevolezza e responsabilità. Perché volersi riallacciare a un evento del passato per costruire un’idea di futuro? Ancora una volta penso che il richiamo della Storia necessiti di una scelta consapevole e giustificata.
Tra le novità di cui lo Statuto si fa portavoce la più discussa è la fonte dei proventi utili all’attività della Fondazione: risorse che dovrebbero provenire dal sostegno pratico e finanziario da parte dei soci – sostenitori e comunardi –. D’altra parte, come leggiamo all’articolo 7 del medesimo Statuto, i finanziamenti non proverranno unicamente dalla libera elargizione da parte della comunità bensì «dal contributo previsto dal Ministero […] per gli istituti culturali nonché […] da ogni altro contributo pubblico o privato debitamente accettato nei modi e nelle forme previste dal presente statuto […] donazioni e sponsorizzazioni di soggetti privati […]». L’elemento d’economia alternativa si appoggia dunque sulla base solida delle risorse tradizionalmente destinate al teatro, ed  effettivamente il Teatro Valle non sopravvivrebbe unicamente grazie ai contributi dei soci e dei comunardi, contributi che inoltre non è possibile quantificare con preavviso. Qual è allora il vero ruolo dei soci comunardi, se non costituiscono la primaria fonte di risorse? E più in generale: come si concilia l’idea del bene comune, che dovrebbe sottrarsi alla logica del mercato, con la necessità per un teatro di inserirsi in un flusso di economie?

Permanenze
Un sistema di direzioni artistiche affidate ad artisti della scena nazionale e internazionale per un periodo di tempo prestabilito (che potrà oscillare da uno a tre anni) è il meccanismo attraverso il quale il Comitato propone di gestire la programmazione del Teatro Valle. Ne sono state esempio le brevi permanenze di Riccardo Caporossi, Paolo Rossi e Ermanna Montanari/Teatro delle Albe. Affidando all’artista il ruolo della direzione artistica, il meccanismo delle permanenze riduce quello che dovrebbe essere un rapporto dialettico (tra artista e programmatore) ad un monologo e l’annullamento dei ruoli è sempre a rischio di conflitto d’interessi.
Un bene comune appartiene a tutti, cosa vuol dire questo rispetto a un teatro? Che tutti, utopicamente, dovrebbero poter avere accesso non solo alle iniziative (spettacoli, laboratori, spazi, etc.), ma anche all’organizzazione delle stesse. L’organismo sovrano della fondazione è l’Assemblea, da cui dipendono il Consiglio (da questa stessa eletto), e il Comitato dei Garanti (eletto dal Consiglio), con potere ispettivo. Da chi è composta l’Assemblea? Dai soci, comunardi e sostenitori. Dunque non dalla totalità della comunità, né da un campione vario che la rappresenti, piuttosto da coloro che manifestino “l’accettazione del Preambolo, della Vocazione, dello Statuto e del Codice Etico” (Statuto art. 3. Durata, Diritti e Doveri dei Soci).

Con quanto detto fin’ora non chiudo il giudizio, ma apro al dialogo. Per il Valle è ora forse tempo di domande più che di risposte.

Chiara Pirri

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24 COMMENTS

  1. ottima analisi Chiara, complimenti. Alcune cose che individui mi sembrano importanti, altre forse sono solo dettagli. Ho sempre pensato che l’occupazione del Valle abbia rivestito un eccezionale valore simbolico, soprattutto se inserita in un contesto temporale – quello di un anno fa – in cui la società civile italiana sembrava finalmente rialzare la testa. Gliene va dato atto, e chi ha occupato va ringraziato per averlo fatto. Passato quel bel momento, però, rimane la sensazione, o la paura, che ad un centro di potere se ne stia sostituendo un altro (più vago e meno consapevole del primo, e quindi anche più impermeabile). Resta il fatto che la discontinuità che il Valle Occupato vorrebbe creare e significare necessita di tutto tranne che di una retorica paludosa e impregnata di ideologie irrelate.
    Chissà?, forse la prima costruzione retorica che andrebbe abbattuta (sia dagli occupanti, sia da chi osserva e giudica da fuori) è la dicotomia tra “mercato” e “bene comune”. Se il teatro è un’attività elitaria (e lo è, inutile negarlo) tanto vale ammetterlo e liberarsi dall’obbligo ideologico di “comunizzarlo”, renderlo “bene comune”. Anche ammesso che questo fosse possibile – e ancora non se ne capisce il modo – ho paura che i “comuni mortali” di tutto questo ben di Dio a loro elargito non saprebbero che farsene

  2. Caro Fabio, questo articolo mi sembra colga con grande delicatezza il centro del problema per come l’ho percepito io nella superficialità del mio contatto in loco. Il problema degli occupanti lo capisco: vogliono evitare che arrivi qualcuno di più importante e conosciuto di loro e gli sfili di mano il giocattolo. Vogliono tenere il controllo ma in modo che sia esteticamente accettabile – il che è un controsenso e non funziona, da qui l’autoreferenzialità. Vogliono decidere in un manipolo di sacerdoti, chiudono le porte in faccia a chi si presenta (Meoni mi ha detto che, per poter prendere la parola in assemblea, uno prima deve – per un periodo di alcuni mesi – aver sofferto quanto gli occupanti, quindi aver passato un periodo lì, pulendo i bagnim cucinando, facendo accoglienza, spostando pesi). Tutte cose cattolicameente comprensibili e belle per un movimento che guarda alla primavera del 1976 come un futuro roseo ed allegro in cui creare steccati fra compagni, supercompagni, rivoluzionari, superrivoluzonari, leaderini e sacerdoti della struttura. Che noia. Senza i grossi nomi che si sono esibiti gratis in questi mesi, il Collettivo del Valle non esisterebbe più. Ma costoro ora potrebbero, se volessero, detronizzare il collettivo, che vive l’occupazione come un’esperienza totale e totalizzante. Capisco la rabbia: mentre tutti gli altri vivono, recitano, guadagnano, amano, loro sono chiusi laggiù, arroccati come una cricca di camerieri d’hotel che speravano di gestire la rivoluzione culturale e sono invece in un certo modo i portantini dell’arte altrui. Se capisco bene nel collettivo scarseggiano gli artisti che creano opere proprie – un altro motivo per avere paura che ora qualcuno arrivi e raccolga il frutto delle loro fatiche. La prosopopea parademocratica, però, non risolverà il problema. Il rifiuto pragmatico a chiamare le cose con il loro nome è quella tipica di chi si avvicina alla politica con la spensieratezza e la preparazione dei giovani che nel 1972 lasciarono Potere Operaio ma ne tramandarono il tragico binomio stalinismo e maschilismo interno vs. sorriso paterno/materno esterno. Roma non ci starà. Così come è messa oggi l’occupazione del Valle, secondo me, non ha futuro. Glisfruttati ed umiliati se andranno a cercare lavoro altrove, i grossi nomi si stuferanno di andarci gratis se il caos interno resta come oggi. Fare statuti e scrivere manifesti è sempre stata l’attività principale di chi non aveva una direzione in cui andare ma voleva gestire con tenacia ed un pizzico di frustrata acrimonia l’esistente. Tutto negativo? Giammai. Il Collettivo ha salvato il Teatro Valle, ha creato una stagione culturale bellissima, strabiliante, innovativa, ha dato a tantissimi (in primis a me) la possibilità di fare un’esperienza indimenticabile. Non voglio che queste splendide persone perdano il Valle – anche se non gli appartiene. Voglio che smettano di scherzare e dicano veramente di cosa hanno bisogno. Poi il futuro dirà se hanno visto bene o male. Se si sono sbagliati, il Valle Occupato morirà. Senza inverno non c’è primavera. Loro sono stati un’estate insperata, il lavoro vero comincia ora, ma solo con l’onestà intellettuale.

  3. Il commento che ho scritto, lo vedete, è lunghissimo. Quel che ho letto qui è composto di informazioni parziali da parte di Chiara Pirri e giudizi senza esperienza della cosa da parte di Paolo Fusi. CONSIGLIO A ENTRAMBI, nonostante la lunghezza, DI LEGGERE QUESTO COMMENTO. Ce ne è da ridere!

    Inoltro, infine, un’offerta di lavoro alla redazione di TeatroeCritica, casomai cercassero articolisti avvertiti e un tantino più informati e precisi, io sono disponibile.

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    Provo, con una spinta di coraggio, un’analisi che risponda a questo articolo e ai commenti che mi hanno preceduto, facendo conto della mia personale onestà intellettuale; l’unica su cui potrei contare.

    Partiamo da alcuni elementi singolari di risposta. La partecipazione all’assemblea del 20 Dicembre, di cui parla in primo luogo Chiara Pirri. Il ragionamento sopra esposto mi sembra possa essere così riassunto: l’occupazione del Teatro Valle sostiene di puntare molto sulla partecipazione attiva di cittadini, lavoratori e lavoratrici dello spettacolo e quant’altri eppure si ritrova a parlare davanti una platea semi-vuota all’assemblea sullo statuto. Come è possibile? Su questa ‘partecipazione’ ci dev’essere stato un cortocircuito a rischio autoreferenzialità.
    Mi sembra un ragionamento molto chiaro e nella sua logica del tutto condivisibile – terrei quindi di questo ragionamento due elementi: il rischio di autoreferenzialità e il limitato rapporto comunicativo con i ‘colleghi’ romani (lavoratori e lavoratrici dello spettacolo). Ma aggiungerei degli elementi che chiariscano il quadro.

    Si è trattato dell’Assemblea che presentava le revisioni alla bozza di statuto presentata il 20 Ottobre – quindi un’assemblea molto specifica, di argomento anche tecnico, che presupponeva una lettura dello statuto e un forte interesse di carattere non generale. Confrontiamola con l’Assemblea di presentazione dello statuto (quella del 20 Ottobre). Si nota immediatamente la differenza: il 20/10 la sala era piena, l’argomento era nuovo, ma anche generale e di ampia portata, era invitata molta stampa.

    Direi che è impossibile trarre un dato di qualche portata e contenuto dalla cosa, se non si prende in considerazione con precisione il contesto comunicativo, altrimenti la stessa logica finisce per dare ragione a quei governi (di centro-destra o centro-sinistra) che chiuderebbero l’Istituto Storico per il Medioevo perché quando fa conferenze ha solo un uditorio di 20 persone. Come dire: ci sono contesti e contesti, e quindi autoreferenzialità e autoreferenzialità.

    Di seguito vediamo la questione del teatro come bene comune e della supposta vaghezza dell’art.6 dello statuto. Qui io credo che il problema consista in gran parte nella costruzione argomentativa, che finisce per aspettarsi qualcosa che non è detto che arrivi a fine ragionamento. Il punto sembra essere: definire x bene ‘comune’ significa spostare l’accento dal proprietario del bene x alla ‘natura’ del bene x (in questo caso il teatro), tuttavia non si trova alcuna definizione chiara e puntuale di cosa sia teatro (inteso come bene comune, ovvero necessario alla comunità) all’interno dello statuto. La critica si conclude suggerendo di essere più precisi e dettagliati, per evitare quell’inflazione concettuale (tutto è bene comune) che rischia di de-potenziare il movimento.

    Ma c’è un problema, dall’articolo di Chiara Pirri non emerge in modo chiaro e preciso, chi, oltre Chiara Pirri, sostenga e per quale ragione che nominare x bene comune significhi innanzitutto o in modo significativo o centralmente o in maniera pregnante proferire un discorso definitorio sulla natura di quella x. Ovvero, da dove viene questo naturalismo non richiesto? Il fatto è che il dibattito teorico sui beni comuni è ampio e variegato, sia nel contesto giuridico sia in quello politco culturale (Ostrom, Mattei, Rodotà, Negri ecc…) ed è quindi una fucina in corso d’opera. Ovviamente la lotta politica ha tempi diversi da quelli dell’alta teoria e bisogna pur impegnarsi in qualche modo. Ma quale che sia il significato che alegga al Valle Occupato del nome ‘bene comune’, perché dare per scontato quell’assioma naturalista di cui sopra? All’interno del libro di Ugo Mattei, Beni comuni. Un manifesto è contenuta una concezione ‘ecologica’ della cultura – ampliabile in ciò anche al teatro e riconducibile alla logica secondo la quale ogni azione (come anche mettere in scena uno spettacolo teatrale) produce degli effetti, qui culturali, di carattere sistemico che vanno a incidere e comporre l’ambiente, qui culturale, degli esseri umani che in quell’ambiente vivono e si riproducono fisicamente, socialmente e culturalmente. Se si ha voglia di naturalismo, può bastare questo. Ma stiamo parlando solamente di una possibile declinazione teorica della nozione di bene comune che è vero è meglio non inflazionare; per questo mi domando come mai Chiara Pirri, con la quale sono d’accordo, abbia voluto regalarci, quella che a tutti gli effetti sembra la sua personale teoria dei beni comuni.

    Andiamo alla voce (tanto discussa) Comunardi. Chiara Pirri ci dice che la scelta di questo termine è dovuta ad un riferimento voluto al comitato rivoluzionario parigino che nel 1792 istituì tra l’altro il Regime del Terrore – questo lo aggiungo io, ma essendo un fatto storico presumo Chiara Pirri lo sottointenda riferendosi all’anno 1792, dacché notoriamente questa Comune di Parigi dura dal 1789 al 1795. Il riferimento, scrive Chiara Pirri, è voluto, ma non è accuratamente spiegato e giustificato e questo ovviamente non va bene. Concordo con lei, per l’ennesima volta, ma mi domando come mai il termine sia pensato in riferimento alla comune della francia rivoluzionaria e non piuttosto alla ben più nota e interessante Comune di Parigi del 1870, ovvero al governo democratico-socialista della città di Parigi. Il fatto è che in tanto parlare di ‘comunardi’ dentro all’esperienza del teatro valle occupato non ho mai sentito parlare neanche una volta né della comune rivoluzionaria, né di quella democratico-socialista. Forse perché questo riferimento storico non è poi così voluto e a dimostrarlo potrebbe anche stare il fatto che plausibilmente non è alla comune del 1792 che quel termine, ‘comunardi’, si riferisce. Di nuovo, come per la definizione di beni comuni, da dove viene questa sicurezza? perché l’articolo si costruisce argomentativamente su affermazioni che non cita o di cui non fornisce le fonti? In questo modo non si rischia forse un’informazione un po’ autoreferenziale? (per quel che invece riguarda ciò che Chiara Pirri si domanda su bene comune e mercato, ci sarebbe di cui parlare ancora!)

    Torniamo così alla già detta ‘autoreferenzialità’ – che ritorna alla voce Permanenze, discutendo il fatto che nella supposta essere Fondazione, a prendere le decisioni non sarebbe la comunità tutta ma solo un gruppo ristretto. Argomento che è poi espressivamente affrontato da Paolo Fusi.

    Qual’è il problema con la questione della politica di movimento? Che un’attività che si ha desiderio di portare avanti deve poi essere portata avanti, da chi ha desiderio e voglia di farlo – in una frase, qualcuno se la deve accollare! il fatto è che questa attività, questo agire politico può e deve avere un contenuto ‘universale’ ovvero un contenuto che parla e riguarda anche altri, coloro che sono distratti, che ancora non sanno, che sanno ma si domandando, che sanno e non ne vogliono più sapere ecc… questo però non cambia la natura della cosa: qualcuno deve concretamente portare avanti questo agire, affinché esista.

    Così il Teatro Valle Occupato, il quale a conti fatti, ovvero a fronte di un’esperienza concreta dell’occupazione, non ha affatto le porte sbarrate a chiunque voglia partecipare attivamente, concretamente, materialmente e con costanza. Ovvero, per tornare all’argomento, a chi voglia essere comunardo. Ma che significa essere comunardo? Significherà prendersi cura del teatro, partecipare, ascoltare e prendere parola in assemblee molto lunghe – parliamo di ore – in cui si decidono le cose ecc…

    Come risulta chiaro, niente che non possa essere fatto da chiunque abbia desiderio di farlo. Ovvero, niente che richieda competenze specifiche o particolari affiliazioni. Seve solo tempo e desiderio. Due cose di cui potenzialmente siamo tutti provvisti, ma in atto non proprio. E con questo concludo. Perché occorre fare un po’ di chiarezza su questo.

    Alla fine i comunardi non saranno altro che coloro che staranno dentro la fondazione e avranno tempo e desiderio da dedicargli per lavorare, pensare, discutere, prendere decisioni ecc…

    Qualcosa di molto elementare e tuttavia poco chiaro a molti. Paolo Fusi è un perfetto esemplare di questi molti. Parla di cose che dubito fortemente abbia visto dentro all’occupazione del Valle, come ad esempio i leaderismi e i sacerdozi. E confronta l’esperienza del Valle con esperienze che non gli sono affatto vicine – come sempre su questo post (in esergo o meno) senza dare spiegazioni del perché. Quel che lui racconta – come testimonianza riportata dall’interno e molto probabilmente mal compresa – ovvero l’inferno e il purgatorio che si è costretti a subire prima di poter prendere parola in assemblea è solamente una bubbola. Non c’è niente che si debba fare per prendere parola in assemblea, se non stare dentro l’occupazione e non solamente ai suoi margini. Che significa stare dentro l’occupazione? Significa fare quello che tutti gli occupanti e tutte le occupanti fanno, prendersi cura del teatro e di chi sta dentro al teatro e con questo agire mostrarsi persona in cui riporre fiducia. Perché cosa essenziale del mondo in occupazione – altro che Comune del 1792!! – è la fiducia attraverso relazioni.

    Invece molto spesso le persone che si interfacciano al Valle Occupato vengono con le loro singolarissime idee, con i loro personalissimi progetti desiderosi di essere accolti e ascoltati ma solo quel tanto che serve per poter realizzare ciò che vogliono, senza l’interesse comune necessario per poter stare dentro l’occupazione, ovvero in un clima che si basa sulla reciproca fiducia che si ripone. Ma se tutti gli occupanti facessero solo ciò che vogliono, se ciascuno si presentasse solo il suo personale proggetto, dimentico degli altri e della strutturale e invalicabile orizzontalità dei processi di discussione e presa delle decisioni, allora sì sarebbe una Caporetto.

    C’è, è vero, dell’autoreferenzialità dentro l’occupazione del Valle ed è un problema, una domanda, che il Valle Occupato deve senz’altro porsi. Ma bisogna anche saper capire che tipo di autoreferenzialità è. Perché certo l’effetto è il medesimo, ma le cose possono anche cambiare. In questo caso si tratta della medesima autoreferenzialità che si trova nell’arte contemporanea, ovvero in una costruzione connotata da un alto livello di complessità. L’unico modo per avvicinarsi all’opera contemporanea – come al Valle Occupato – è un pratica epistemologica che si compone del principio di carità di Quine e dell’enunciato di Magritte ‘Questa non è una pipa’. Ridotto all’osso è solo un posto momentaneameno occupato da esseri umani, fallibili e non apodittici; per comprenderlo bisogna avere la pazienza di vederne tutti gli strati di sfondo che gli si stagliano dietro.

    Peccato che TeatroeCritica – e i suoi lettori – si siano persi, momentaneamente, questa occasione. Che posso dire? Chiediamo alla redazione casomai gradissero un articolista più avvertito! Io sono disponibile.

  4. Cari,
    vi ringrazio molto dei vostri contributi critici, ci aiutano a macinare idee! Fermo restando che ringraziamo gli occupanti per aver salvato il Valle dal magnate della salsiccia, ci sono ancora molti punti su cui riflettere riguardo l’occupazione e la Fondazione. Spunti di riflessione che ci gironzolavono per la testa e altri che vengono e verranno fuori dal vostro contributo all’analisi del tema.
    Quindi, grazie ancora!

    Chiara Pirri

  5. Gentile Fabio Caffè, la ringrazio per il coraggio che l’ha spinta a dire la sua, è sempre stimolante e indice di interesse un parere contrario.
    “Poiché l’ironia mi mette a disagio” (se frequenta il teatro si ricorderà sicuramente chi lo disse in un bello spettacolo), la considero una violenza gratuita,, prenderò la sua proposta in apertura e chiusura di commento come seria. Lei si propone come “articolista” avveduto quando mai ne avessimo bisogno per sostituire chi, come me, lei non ritiene all’altezza. Le rispondo, certa di trovare la condivisione di tutto Teatro e Critica che noi non siamo articolisti, bensì critici e redattori di quella che non è solo una rivista, un supporto, ma un progetto. Come vede siamo in cinque in Redazione, salvo collaborazioni straordinarie che si inseriscono in progetti studiati e lavorati, questo perché ciò che condividiamo, nonostante spesso i pareri critici discordanti fra di noi -ciò che assicura la pluralità di sguardi all’interno della stessa testata-, è una particolare idea di impegno e un’etica professionale. Come vede quello che facciamo va ben aldilà della scrittura di pezzi che un articolista potrebbe fare, necessità l’impegno di tempo, immaginazione, carteggi, riunioni notturne (perché ognuno di noi svolge un altro lavoro per campà o studia), viaggi, etc. Ma questo, nonostante richieda fatica, ci permette di avere un assetto professionale, professionalità che viene riconosciuta dall’esterno. Perché tutta questa introduzione che apparentemente non c’entra niente (detto brutalmente)? Perché personalmente sono stufa di chi loda l’attivismo del Valle come di quei movimenti politici, e solo vagamente artistici, solo perché “loro stanno facendo mentre voi siete solo lì a parlargli contro” (non è una citazione dal suo testo solo una personale rielaborazione di discorsi vari sentiti in giro). Il movimento, gli occupanti, stanno effettivamente agendo, ma ciò non è e non deve essere già di per sé un motivo di lode, si può e si deve andare ad analizzare le linee di pensiero, le modalità attraverso cui l’azione si esprime. Nessuno dei nostri lettori ci ha mai lodati solo perché scriviamo, eppure svolgiamo un compito importante, e, modestia a parte la lasciamo per la prossima volta, senza riviste come la nostra – e come tante altre riviste on-line- la critica teatrale non esisterebbe più. Senza ricavarne un soldo, svolgiamo un lavoro che penso sia importante per la comunità d’artisti e per il pubblico a cui ci riferiamo, a più in generale, volendo imitare il movimento del Valle, per l’accrescimento delle facoltà culturali del paese. E allora perché nessuno a noi ci da una bella pacca sulla spalla e se scrivo una stupidaggine poi devo renderne conto a teatranti e lettori?
    Vedi, siamo nella stessa barca. E ora è inutile che io torni a rispondere punto per punto a quello che mi hai obiettato, perché non farei che ripetere quello che ho già scritto e ammorbare i lettori.
    Ah, dimenticavo, mi presento: sono Chiara Pirri, scrivo per Teatro e Critica, saltuariamente per altre riviste, lavoro con una compagnia di Ravenna e studio all’università. Tu chi sei?
    Ti ringrazio ancora

    Con stima -e senza ironia-

    Chiara

    • E allora perché nessuno a noi ci da una bella pacca sulla spalla e se scrivo una stupidaggine poi devo renderne conto a teatranti e lettori?

      Mettere l’occupazione del Teatro Valle sotto critica – ovvero analizzarlo pazientemente e criticamente nei suoi dettagli di composizione e nelle sue finalità, previste e impreviste, volute e impensate – è secondo me molto giusto. Esprimere questa critica, metterla per iscritto, comporla in un’analisi basandosi su una ricerca e una riflessione è, oltre che giusto, buono. Anche, ma non solo, perché lo sguardo, la mente, il cuore di questa critica possono fare bene all’occupazione stessa. Entrare nelle sale del Teatro Valle e portare aria fresca.

      Quindi il lavoro che lei sta facendo al contempo le permette di fare il giusto e fare il bene.

      Tuttavia secondo me lei nel particolare non ha fatto il giusto e non ha fatto il bene, ma non perché ha osato criticare il Valle, ma perché ha scritto – anche – cose non vere o non accertate o non argomentate. Generando non chiarezza e limipezza, ma confusione. Un esempio fra tutti, glielo ripeto, riguarda la Comune di Parigi. Torno a domandarle: è sicura di questo riferimento? può spiegarmi da dove l’ha preso? chi le ha detto questa cosa del 1792? Io lo trovo interessante per lo stesso motivo per cui lo trova interessante lei, ma non collima con le informazioni in mio possesso. Allora, semplicemente o non è vero o è vero ed io non lo so. Lei può dirmi delle due qual’è l’una?

      Questo per ribadirle il mio punto di disaccordo sul suo articolo.

      Il resto della sua difesa, mi scusi, ma non la difende. Anzi. Lei lamenta ai danni del Valle occupato un atteggiamento che a quanto dice non emerge dal Valle Occupato, ma da chi apprezza il Valle Occupato. Già quindi la cosa potrebbe impostarsi in altro modo parlando del perché oggi una cosa come il Valle Occupato piace – ad esempio Althusser plausibilmente lo avrebbe disprezzato.

      Oppure si potrebbe lavorare all’interno di quella tradizione di critica diciamo così illuminista che de-mitizza, de-mistifica la realtà. Della serie: andiamo a vedere con i nostri occhi di che cosa si tratta, al di là dei tanto noti e tanto retorici apprezzamenti. Credo, ma potrei sbagliare, che lei rientri in questa tipologia sacrosanta di critica, ma allora ritorno al punto precedente: l’aderenza alla fonte, al dettaglio, alla spiegazione pertinente ed esaustiva è essenziale per questo tipo di critica, altrimenti si mistifica invece di schiarire.

      Al Valle Occupato fanno cose buone fintanto che agiscono, ma come lei giustamente nota, questo non è sufficiente. L’apprezzamento per il loro impegno non li esula dalla critica. Anche il suo lavoro è importante, quel lavoro di critica, qui teatrale, di cui abbiamo detto sopra. Come mai non accade che questa critica venga apprezzata per il solo fatto di darsi, come invece accade con la lotta del Valle? Come mai, si chiede, non le danno una bella pacca sulla spalla, come fanno con quei ragazzi e quelle ragazze lì già in troppi?

      Se queste solo le ragioni che motivano il suo articolo, mi scusi ma sono ragioni fuorvianti e molto lontane da quelle che possono fornire un’informazione chiara e comprensibile e perché no, poiché lei gradisce, plurale. è chiaro che la anima il risentimento e perciò il pregiudizio, se ciò che la porta al linguaggio è innanzitutto il modo con cui altri osannano il Valle Occupato a differenza di quanto accade alla critica teatrale come pratica culturale.

      Ma non è neanche questo il punto; e avrà notato che ho dismesso del tutto i panni dell’ironia.

      Il punto è molto semplice e ne approfitto per difendermi dal tono del commento di Paolo Fusi. Io sono sempre molto contento di leggere delle buone critiche – tanto al teatro Valle, quanto ad altro. Aiutano molto a capire le cose. Ma per essere apprezzate devono essere ben fatte. In questo caso io non ho in pratica neanche cominciato a difendere il Valle, mi sono limitato a contestare la validità della sua critica, che mi sembra mal costruita. Da riferimenti a cose che non credo esistano (1792) a estrapolazioni di teorie sui beni comuni che non credo appartengano al Valle Occupato e comunque tutto questo senza quasi evidenziare neanche una fonte… L’impressione che l’articolo dà ad un’analisi puntuale – che sia io simpatizzante o meno dell’occupazione – è che si tratti di un articolo prevenuto. Del resto quello che l’incipit prometteva era una disamina di alcune parole che compongono l’immaginario del Valle Occupato, una sorta di analisi del discorso dell’occupazione. Ora, io non capisco come sia possibile condurre una tale analisi senza citare nel dettaglio espressioni, frasi, periodi…

      Non so se ho chiarito il punto, mi dica lei cosa ne pensa, perché a me sembra tutto molto semplice. Se lei estrapola delle parole fuori dal loro contesto e, dotandole di significati da lei arbitrariamente scelti, le inserisce in un altro contesto discorsivo è chiaro che può dire tutto e il contrario di tutto.

      Sulla stessa linea, per darle un’idea, potrei dire di lei che l’uso che fa dell’espressione ‘bozza definitiva’ all’inizio dell’articolo, in quanto contraddizione grammaticale, è il chiaro segnale di un riferimento alla logica contraddittoria del surrealismo, logica poi continuamente tradita dal suo tentativo di dare una consequenzialità causale al suo discorso durante tutto il resto dell’articolo. Così, le domando, si sentirebbe pertinentemente descritta dalla definizione ‘Chiara Pirri è una surrealista’ (a parte l’onore di far parte di un tal gruppo) o leggendola penserebbe che la sto prendendo in giro? Perché a me sembra che lei abbia fatto esattamente la stessa cosa.

      Pensi lei, io le avevo dato dell’ ‘articolista’ per disimpegnarla comunque dalla responsabilità di questo scritto. Ma se fa parte della redazione, a me sembra peggio.

      Cordialmente

      Fabio Caffé, impiegato, prima di quando scriverò per Teatro e Critica, non avrò scritto per nessuna rivista.

      • 1)”Pensi lei, io le avevo dato dell’ ‘articolista’ per disimpegnarla comunque dalla responsabilità di questo scritto. Ma se fa parte della redazione, a me sembra peggio.”
        Non ho bisogno di disimpegnarmi da nessuna responsabilità

        2)”l’aderenza alla fonte, al dettaglio, alla spiegazione pertinente ed esaustiva è essenziale per questo tipo di critica, altrimenti si mistifica invece di schiarire.”
        La critica allo Statuto viene da chi ha frequentato le Assemblee e le serate del Valle

        3) “è chiaro che la anima il risentimento e perciò il pregiudizio, se ciò che la porta al linguaggio è innanzitutto il modo con cui altri osannano il Valle Occupato a differenza di quanto accade alla critica teatrale come pratica culturale”. Non provo risentimento le assicuro (perché dovrei?), forse è il suo sentimento che la spinge a continuare a dibattersi in una lotta senza volto. Non critico il Valle giudicando come altri osannano il Valle, in quel frangente -cioè in una mia risposta ad un suo commento- criticavo lei e il suo modo di osannare il Valle.

        4) “Da riferimenti a cose che non credo esistano (1792) a estrapolazioni di teorie sui beni comuni che non credo appartengano al Valle Occupato e comunque tutto questo senza quasi evidenziare neanche una fonte”
        Per quanto riguarda bene comune è un concetto abbastanza ampio e in via di definizione da poter io contribuire al pensiero a riguardo. Quindi il senso di bene comune che trova riferito nell’articolo è una mia lettura a partire da un articolo di Rodotà letto su Repubblica. Per quando riguarda i comunardi, la data sarà pure sbagliata, errare è umano. No? Ma da nessuna parte ho avuto modo di leggere una giustificazione alla scelta dell’utilizzo del termine, in ogni caso, che si riferisca ad una o a l’altra esperienza storica, e mi pare che nemmeno lei abbia modo di riportarmi parole a riguardo.

        5)”Ora, io non capisco come sia possibile condurre una tale analisi senza citare nel dettaglio espressioni, frasi, periodi…”
        Come vede ho citato, ma avrei potuto dire le stesse cose rielaborando il suo pensiero, riuscendo ad essere più concisa e restare nello spazio apprezzabile da un normale lettore.

        E comunque non mi pare che abbia “dismesso l’ironia”, visto la sua frase conclusiva, o almeno spero fosse ironico…

        Scusi la fretta

        Chiara P.

  6. Mamma mia. La reazione del Sig. Caffé (che immagino sia un nome d’arte – magari l’autore di quelle bellissime foto che sio trovano su flickr?) mi ha riportato indietro di 35 anni! Ha confermato punto su punto tutti miei dubbi, anzi, li ha raddoppiati e mi ha convinto che dal Valle bisogna stare alla larghissima, purtroppo. La mia fonte è stata Francesco Meoni, che nella mia piccolissima esperienza è persona intellettualmente onesta, simpatica, estremamente intelligente e capace, e pare essere una persona importante all’interno del Collettivo. Il fatto del sacerdozio, Sig. Caffé, non é un insulto (ah, l’estetica del 77, che nostalgiaaaaaa), ma un dato di fatto. Nessuno ve lo porta via il Collettivo. Il motivo sta nella natura delle cose: per gestire il Teatro bisogna gestirlo, quindi starci tutto il giorno o quasi e fare tutto ciò che è necessario, non importa se bello o brutto. Francesco Meoni mi ha esplicitamente detto che, per alzare la mano in assemblea, bisogna aver prima fatto questa gavetta. Chi ha paura di essere detronizzato, vuol dire che siede sul trono. Ma questo non è grave, è solo un fatto. Escludendo persone il Collettivo resterà più piccolo ma più compatto (anche se la riunione che ho visto il giorno del nostro concerto era da far rizzare i capelli in testa per la rabbia cieca di chi gridava il suo parere). Se riuscirete a prendere i soldi dallo Stato (come spero) sarete una nuova edizione del Teatro dell’Orologio. Sarete. Voi. Noi verremo a visitare le manifestazioni che ci piacciono e resteremo a casa quando non ci piacciono. Vi chiederemo se possiamo suonare da voi e ci direte di sì o di no. Voi. Sarà il vostro teatro, come lo è adesso. Non potete accusare gli altri di entrarvi solo per gestire il proprio progetto personale (come fa il Sig. Caffé) quando poi voi fate lo stesso. Perché la vostra opinione rappresenta il “bene comune” e la mia, come quella del Sig. Buncicucci, del Dott. Pisquani e della Prof.ssa Sciannamicca no? Si tratta di una dimensione estetica e religiosa, basata sulle stimmate raccolte in sette mesi di duro sacredozio nel deserto. Avete fatto un miracolo ed avete salvato il Teatro. Molti artisti damosi vi hanno aiutato gratis e con entusiasmo. Non costa nulla ammetterlo. Molti artisti per nulla noti, come me, hanno ricevuto da voi un regalo immenso, di cui vi saranno per sempre grati. Ma, caro Sig. Caffé con la sua aria da saputello, più sento e leggo delle vostre opinioni, più mi sento lontano. La sua orizzontalità estetica é una figura non geometrica. Francesco Meoni, molto più onestamente, mi ha detto: vieni, datti da fare, dimostraci che ci tieni davvero, sporcati le mani, e ti faremo parlare. Gli ho risposto che magari l’avrei fatto ma che non sentivo nessun bisogno di parlare in Assemblea. Ne ho un orrore crescente. Naturalmente ho un mio progetto individualista ed egoista: sopravvivere all’età che avanza, dimagrire, trovare l’amore, imparare ad essere un artista vero (non lo sono, sono un mediocre dilettante), divertirmi di tanto in tanto, leggere bei libri, ascoltare buona musica, fare del mio meglio nella mia vera professione per cercare di trovare una soluzione ai problemi di noi tutti che includa – e non escluda. Tutte queste cose non le vivo in un Collettivo, quella fase l’ho superata 30 anni fa – ma non perché quella fase fosse sbagliata, attenzione! Ma perché io, per quella vita lì, non sono adatto. Insomma: avrei volentieri ascoltato senza parlare ed imparato senza giudicare. Voi non volete. Peccato. Con tutto il cuore, buona fortuna

    • Caro Paolo Fusi, tu commetti un paio di errori semplici. Intanto giudichi l’occupazione del Teatro Valle a partire da una reazione letta su un commento di un tale che non è l’occupazione del Teatro Valle. Capisco perché operare così: è molto più semplice leggere una cosa – associata ad x, qui teatro valle – e inferire direttamente su quella x. Evita tutto il peso di una costruzione continua nel tempo del giudizio. Ma facendo così esibisci malcelatamente la non volontà di provarci a capire cosa succede al Teatro Valle Occupato – di buono o di cattivo. Ti basta Fabio Caffé per trarre le tue conclusioni. Che bello essere tanto risoluti nella vita! Ha fatto bene Meoni a dirti di venire, di partecipare. Ma forse tu non potevi fare altro che declinare l’invito. Al contrario avresti fatto una fatica sgradevole. Mi dispiace tu la pensi così non tanto sul Valle, ma in generale sulle cose. è sempre triste vedere gli altri troppo abbattuti per affrontare le cose di petto e provare come sono.

      Concludo solamente facendoti notare diversamente dal tuo personale e privatissimo teatro, come anche dal personale e privatissimo teatro della Suor Germina, la Fondazione Teatro Valle Bene Comune – come prevede lo Statuto – è aperta alla partecipazione attivissima e decisionale (in assemblea ecc…) di tutti i suoi (futuri) soci. Per cui, mentre tu andrai nei teatri degli altri a chiedere di suonare o meno, ricordati che al contrario al Teatro Valle questa contrapposizione non si dà, o almeno non hai ancora motivi per poter sostenere ragionevolmente che si dia.

      Detto ciò, hai scritto di essere stato al Teatro Valle e di essere anche stato accolto bene; tutte le tue perplessità, così come le scrivi qui – con i tuoi toni e i tuoi modi, che non credo siano meno antipatici dei miei, che almeno me li cerco apposta per rispondere a te! – avresti potuto trovare la franchezza di dirle a voce. Di nuovo, mi spiace finisca sempre nella maniera più semplice.

  7. Nel frattempo ho avuto una concitata conversazione con Francesco Meoni. Ne esco con la stessa convinzione di prima: ovvero che Francesco sia una persona intelligente e corretta. Lui si è indignato per il fatto che io l’avrei insultato ingiustamente. Dice che non mi ha mai detto che sia necessario lavorare duro per sette mesi per poter parlare ad un’assemblea del Collettivo. Mi ha detto poi delle conseguenze del mio scritto all’interno del Collettivo, su cui taccio per non appesantire ulteriormente la situazione. Mamma mia, mamma mia. Prima cosa: il semantema “sette mesi” é probabilmente stato accostato da me in maniera accessivamente spregiudicata all’invito a farsi conoscere dal Collettivo svolgendo i compiti necessari per la sopravvivenza della struttura (per motivi di risentimento estetico non li nomino, che qui chiamare le cose con il loro nome fà impazzire tutti di rabbia). Me ne scuso con sincerità, perché pare che per questo motivo Francesco abbia ricevuto reazioni spiacevoli e si sia sentito ingiustamente ferito. Quanto alla questione del sacerdozio, mi dispiace che crei tanto baccano, probabilmente perché tocca un punto nevralgico del cuore degli occupanti. E’ verissimo: io sono stato accolto con affetto ed interesse, nessuno ha mostrato chiusure nei miei confronti. Io aggiugno: perché così funziona il Collettivo, quando prende una decisione su una manifestazione. L’ho già detto e lo ripeto. Mi é stato fatto un regalo bellissimo, indimenticabile. Ciò non di meno, più cose vedo e sento e più questa cosa mi mette a disagio e mi allontana. Insomma, così parlando, come ho fatto, sono scivolato mio malgrado all’interno di quella assemblea di cui non volevo far parte che da spettatore – e questa me la sono cercata. Poco male, perché non conto nulla. Peccato, perché alla fin fine chi ne soffre di più è la persona che più di tutti ha voluto che io avessi quel dono che mi è stato fatto, e questo non è giusto. Ma queste sono le tipiche dinamiche di un collettivo, purtroppo. Mi dispiace, con la mia burbanza ed arroganza, di aver creato disturbo e ferito una persona per bene. Vi auguro di tutto cuore tanta fortuna.

  8. Gentilissimo Fabio Caffè,

    personalmente non scrivo qui per criticare o assumere una posizione definitiva riguardo ciò che concerne l’attività di occupazione del Valle, nè, tantomeno, per difendere il pensiero della collega Chiara Pirri, che pure condivido in quasi tutti i punti e che, nonostante le buone argomentazione da lei apportate, continuo a condividere. Del resto, come non potrei, dato che il suo discorso non fa che confermare buona parte dei punti precedentemente esposti da Pirri? Con tutta sincerità io non conosco la sua funzione o il suo ruolo all’interno dell’occupazione, non so quale sia il suo lavoro e, di conseguenza, sono costretto ad avvicinarmi al suo sguardo procedendo per supposizioni.
    Suppongo, dunque, che il punto di vista da cui lei prende posizione sia assolutamente interno al “mondo” (chiamiamolo così) del Teatro Valle Occupato. Ora, questo non esclude che la “situazione Valle” (ancora una volta chiamiamola così) possa essere affrontata anche da un punto di vista esterno e che questo punto di vista acquisisca la stessa validità del suo contrario. Dunque procediamo con ordine:

    1. Lei ha ragione quando dice che la scarsa partecipazione dell’assemblea di cui parla Pirri si basava su un argomento tecnico e non di carattere generale e che nella precedente assemblea, a cui era stata invitata anche la stampa, la partecipazione era maggiore. Ma questo, da un punto di vista esterno, non esclude che, in occasione di un evento così sensibile (revisione, lettura dello statuto ecc.) mancasse non il pubblico in generale ma, quantomeno, una platea di tecnici ed operatori del settore, interessati allo sviluppo di tale statuto. Ora, sempre da un punto di vista esterno, non posso dare una risposta a tale mancanza, ma, assumendola come dato di fatto, ritengo legittimo pormi delle domande.

    2. (Salto la questione sulla definizione di teatro in relazione all’idea di Bene Comune per riprenderla successivamente). La critica al termine “Comunardi“, ancora da un punto di vista esterno, mi pare più che fondata. Lei scrive: “dentro all’esperienza del Teatro Valle Occupato non ho mai sentito parlare neanche una volta né della comune rivoluzionaria, né di quella democratico-socialista”. Eppure il termine scelto rimanda sia ad un’esperienza sia all’altra. Non mi sento obbligato a “vivere” l’occupazione per capire il senso di tale termine. Io leggo quello che voi comunicate, e quello che voi comunicate, dal mio punto di vista assolutamente esterno, mi riporta immediatamente a certe esperienze storiche. Ora con questa sedimentazione di significati, risonanze e collegamenti interni al termine “Comunardi” bisogna fare inevitabilmente i conti. Per quanto mi riguarda, fino ad adesso, tutti i termini utilizzati (lotta, partecipazione, combattere, comunardi ecc.ecc), poiché a mio modesto parere non giustificati o attualizzati, mi comunicano solo tanta retorica (entusiasta, certo) dalla quale non riesco a svincolarmi.

    3. Non capisco cosa cerca di spiegarci quando dice che per “prendere parola in assemblea” bisogna stare dentro l’occupazione e non ai suoi margini. Prima di tutto perché ascoltare qualcuno non significa per forza “fare” ciò che egli dice. Se una proposta che viene dai margini fosse più interessante di quelle che provengono da dentro l’occupazione? Che facciamo? La lasciamo cadere a priori, solo perché non si è degni della fiducia necessaria dataci dagli altri “compagni” di occupazione? E chi è che decide quando è il momento di fidarsi dell’uno o dell’altro? E soprattutto, chi lo decide?
    Lei sta praticamente affermando che se uno non ha il tempo e il desiderio di stare dentro il Valle non ha diritto di parola all‘interno di tale comunità. Ora, sul desiderio possiamo anche concordare ma le ricordo che non tutti hanno il tempo (e io parlerei di “lusso del tempo” ) o le possibilità di partecipare attivamente all’occupazione. Pertanto l’immagine che ne esce fuori, nonostante le sue parole, rimane esattamente quella descritta da Paolo Fusi.

    4. Veniamo alla questione dell’autoreferenzialità che lei paragona a quella dell’arte contemporanea. Bene, dal mio punto di vista (lo ripeto, assolutamente esterno) gli esempi pur validissimi da lei portati in causa (Quiene e Magritte) si riferiscono ad un determinatissimo momento storico, dell’arte e non, che, personalmente, vedo concluso e totalmente distaccato dall’attuale produzione contemporanea (con il Principio di carità di Quiene e la sua rilettura da parte di Davidson ci muoviamo dai 60 ai 70 e con l’enunciato di Magritte, non considerando il successivo riverbero, siamo nella prima metà dei 50. Naturalmente ciò non significa denigrare ma contestualizzare …) Dunque, mi viene da chiederle: a quale autoreferenzialità dell’arte contemporanea si sta riferendo? Io credo che lei stia parlando di un pre-concetto, anzi del Pre-Concetto per eccellenza, che, spesso, allontana il pubblico dall’arte, anche nel momento in cui questa cerca di allontanarsi da un’autoreferenzialità tout court. Ce lo insegnano le giovani compagnie teatrali, ce lo insegnano i giovani artisti, ce lo insegnano numerose esposizioni di arte contemporanea. Dovrei dunque concludere che l’autoreferenzialità su cui si costruisce il sistema del teatro valle e che lei cerca di giustificare sia “vecchia”, distaccata dalla contemporaneità, poiché sarebbe simile, secondo le sue parole, ad un sistema di pensiero che fa parte oramai di un processo storico/artistico concluso e necessario solo in quanto tale. Di conseguenza, pur comprendendo la complessità della situazione, dalle sue parole sembra che, lungi dal voler dispiegare il più chiaramente possibile questa stessa complessità, ci si appelli alla richiesta di uno sguardo “anacronistico”, l’unico capace di far luce sui numerosi strati di sfondo che compongono l’occupazione.
    Tra l’altro, personalmente, solo in tale anacronismo (forse mi ripeto) riesco a giustificare la terminologia utilizzata per parlare dell’occupazione.

    5. Ma veniamo alla richiesta di analizzare più dettagliatamente quella X (in relazione al Bene Comune) che lei tanto vorrebbe lasciare senza definizione. Ora capisce da dove viene questa necessità? Dal tentativo di comprendere quale linea di pensiero artistico e teatrale cerca di prendere il Valle Occupato. Di che teatro e di che arte stiamo parlando? Cosa sta accadendo e cosa accadrà in questo spazio per definirlo “bene comune”? Il mio occhio esterno non ha visto accadere nulla di artisticamente rilevante o significativo in questi mesi all’interno del Valle. Tutto ha una portata simbolica, tutto è il simbolo di una lotta, di un risveglio culturale nazionale. Ma questa simbologia, evidentemente, non mi/ci basta più. Cosa ho visto? Ho visto tanta rabbia, pernacchie, insulti (vedi serata Pippo Delbono) ho visto grandi maestri (vedi Emma Dante), altri grandi maestri impegnati nelle brevi permanenze (Caporossi, Montanari), ho visto grandi star (Jovanotti, Subsonica, Mario Venuti, Vinicio Capossela), ho visto piccoli progetti più o meno irrilevanti e ho visto anche tanti eventi significativi ma tutti rivolti al passato. Mai al presente, al contemporaneo, alla diffusione del contemporaneo, alla sua promozione. Mai – artisticamente parlando – al rischio. Insomma, è triste come questo X “Bene Comune” sia propagandato tramite “i grandi nomi” (gli ultimi Valerio Mastandrea e Caterina Guzzanti) poi permeato dalla retorica dei grandi maestri, da grandi progetti su scuole di drammaturgia (??) ecc.ecc e non abbia, invece, la minima consapevolezza, il minimo sentore, la minima idea, progettuale curatoriale ed artistica, di ciò che sia la contemporaneità.

    Che siate più interessati alla politica che all’arte? Oppure ad una politica artisticizzata piuttosto che ad un’arte capace di essere, indirettamente, anche politica, nel senso nobile del termine e non nel senso becero che attiene, invece, alla prima ipotesi?

    Questi sono dubbi che vengono da sguardi esterni! Se infondati attendiamo, con speranza, una vostra dimostrazione che non preveda, necessariamente, la partecipazione interna al movimento. In tal caso saremo pronti a ritornare sui nostri passi. In fondo, l’errore è umano e l’importante è che venga riconosciuto. Naturalmente, tengo a sottolineare, che qui si sta dando per scontato quanto di buono l’occupazione ha offerto alla città di Roma e alla nazione, cercando un dialogo sulla sua futura evoluzione…

    • Caro amico di penna, le rispondo senz’altro con piacere. Partiamo dal punto zero. No, io non ho nessuna posizione ‘interna’ al Valle Occupato; semplicemente ne ho fatto esperienza – laddove esperienza dall’empirismo inglese alle più recenti concezioni dell’experience e della sperimentalità indica una dimensione di confronto diretto e non alle porte, ai margini, alle soglie di un evento. Che significa questo? Significa che non parlo in virtù di chissà quale sapere l’aver preso parte all’esperimento del Valle occupato può avermi dato, ma solo in virtù di un’esperienza diretta che ho fatto della cosa. Il che significa ulteriormente che le mie parole, almeno nel mio personalissimo ordine discorsivo, sono accompagnate da testimonianze, ovvero da un confronto che rielabora la realtà percepita e in ciò in netta distinzione da qualunque ragionamento sia in effetti privo di questo confronto. Anche qui – lo specifico, perché si è visto, lei è un appassionato di storicità e contemporaneo! – mi rifaccio a quel tipo di concezione che – dal pensiero dell’esperienza alle sperimentazioni fisiche – non si accontenta di ciò di cui la teoria prescrive l’esistenza (per fare un esempio: un ‘bosone’). Quindi, ciò detto, mi vedo costretto a dire: no, non è affatto ovvio e scontato che un punto di vista basato sull’esperienza di una cosa sia equivalente ad un punto di vista non basato su un’esperienza della cosa (torno a dire, laddove esperienza indica un contatto diretto e il suo contrario un contatto mediato, non diretto, indiretto). Dunqe non concordo con lei sul punto preliminare. Possiamo confrontare le nostre opinioni, ma temo di non poterle concedere la medesima validità, la inviterei ad avere un’esperienza diretta della cosa se crede utile per lei e per noi che il suo pensiero abbia un’aderenza con il reale di cui parla. Una cosa questa che non vale, a mio giudizio, per il Valle Occupato perché speciale, ma al contrario per ogni cosa.

      Detto ciò mi trovo a dover concordare con lei, dacché lei in effetti non dice niente di veramente contrario a quel che io ho sostenuto e in ciò la ringrazio per aver dato ragione a me. Ovvero: punto primo, concordiamo entrambi sul fatto che l’assenza di pubblico all’assemblea del 20 Dicembre sia un dato da prendere in analisi, come altrettanto concordiamo sul fatto che il contesto comunicativo dell’assemblea andava specificato in un post/articolo che volesse fornire un’idea o un’informazione attendibile sulla cosa. Non essendo così stato – avendo l’articolo tralasciato di specificare questa cosa – ne emersa un’informazione solo parziale da cui si sono tratte conclusioni basate su scarsezza di dati. Siamo d’accordo sul fatto quindi che l’analisi sarebbe potuta essere più approfondita.

      Così anche al punto due ci troviamo d’accordo. Io personalmente non ho mai sentito nessun riferimento esplicito alla Comune di Parigi e questo non fa che ricadere nella parzialità della mia conoscenza della cosa. parzialità di cui unicamente posso parlare fondatamente. Del resto però lei concorda con me sulla questione logica di fondo: potrebbe riferirsi tanto alla comune del 1792, quanto a quella del 1870. Con questo lei concorda con me sull’imperfezione dell’informazione fornitaci da Chiara Pirri. Perché assicurare il riferimento al 1792, quando altrettanto probabilmente vale il riferimento al 1870? La ringrazio quindi per aver, ancora una volta, concordato con me sulla non soddisfacente puntualità di questo post/articolo. Ma lei pone una questione ancora più ampia: tutti questi riferimenti retorici (lotta, combattere, comunardi…) e ideologici rimandano ad una semantica politica storicizzata di cui non si rende conto e che con ciò si utilizza superficialmente. Molto bene! Sono perfettamente d’accordo sull’utilizzo superficiale di questi riferimenti da parte degli occupanti del Teatro Valle. Non ho mai detto, infatti, che una spiegazione di questo nesso storico ci sia; mi sono limitato a constatare che non fosse assicurato il riferimento al 1792. Del resto se analizziamo il lessico e lo incrociamo con un’analisi del contesto politico del Valle Occupato ne possiamo trarre con un’ottima approssimazione che questi termini rimandano alla Comune di Parigi del 1870, ovvero a quella democratico-socialista e non piuttosto alla Comune del 1792. ‘Lotta’ e ‘combattere’ rimandano a quel lessico molto più che non alla Rivoluzione Francese. Resta da spiegare questo lessico, ne convengo, ma come giustamente lei conviene con me, resta quello che forse è un semplice errore di Chiara Pirri: l’aver confuso una Comune con l’altra senza verificare l’informazione che ne aveva tratto.

      La questione al punto 3 è molto complessa e – come tutto il resto del discorso, ma di questo alle conclusioni, non utilmente polemica. Parlando a titolo personale mi riservo il piacere di dirle che ‘certo!’ se un’idea viene dai margini dell’occupazione – quale che sia il prodotto usato per farla brillare – resta là. Le spiego anche il motivo. Cosa significa che un’idea viene dai margini dell’occupazione? Significa che è un’idea che non è stata pensata assieme da tutt*. Significa che arriva da qualche parte e questa qualche parte o si mette in gioco – il che significa inevitabilmente anche correre il rischio che la propria idea per quanto brillante non venga accolta dall’assemblea, come è ovvio e scontato, logicamente, in un contesto democratico – oppure non si mette in gioco. è molto comodo rimanere ai margini di un processo mobile e poi aspettarsi che il brillante frutto del proprio ingegno venga accolto e acclamato. Ma questo è solo ciò che riguarda il processo partecipativo della decisione a proposito di un’idea. Che dire invece del processo, ben precedente, di produzione di quell’idea? Vede, in un contesto collettivo si pensa essenzialmente assieme e assieme si trovano soluzioni a problemi e questioni. Glielo dico non tanto perché ho esperienza del Valle Occupato, quanto perché ho esperienza di contesti collettivi e in special modo occupati in generale. Si pensa/produce assieme e di decide assieme. Del resto c’è sempre chi crede di avere avuto l’idea brillante e geniale e di potersi per ciò evitare la trafila orizzontale e democratica, in ciò associando l’idea del ‘genio’ a quella dell’ ‘eroe’ e del ‘leader’; peccato, appunto, questa non sia democrazia! Così il punto molto semplice e di buon senso è: per partecipare al processo, occorre farne parte e con ciò assumerselo. chi non ha voglia di assumerselo non si vede perché – ovvero in virtù di quale privilegio rispetto agli altri – debba partecipare. La questione che lei pone in sostanza, è la questione del privilegio e, si renderà conto, adeguandomi io alla declinazione più elementare della voce ‘democrazia’, deve essere lei a dare una spiegazione della cosa, una sua giustificazione, perché non è ovvio, anzi è controfattuale come si dice in logica. Allora la prego, poiché è un suo cruccio, ci spieghi a noi tutti – simpatizzanti o meno del Valle Occupato – come pensa di articolare questo nesso tra democrazia e privilegio. In virtù di cosa qualcuno dovrebbe essere privilegiato in un contesto orizzontale?

      Al punto 4, per l’ennesima volta, lei costruisce un argomento in maniera debole e pretestuosa – ma noi sappiamo che è così che piace discutere a noi logici! – io ho fornito una mia personale visione delle cose, anzi una mia personale visione della visione delle cose – ovvero un punto di vista meta-discorsivo sul Valle Occupato – prendendo a spunto due elementi piuttosto differenti, ma entrambi rimandabili a questioni di linguaggio (principio di carità di Quine e poi Magritte). Lei li ha contestati perché non contemporanei, rimandando molto genericamente e con ciò senza argomentare nulla, ad artisti e compagnie teatrali contemporanee. Non saprei cosa risponderle, non avendomi dato lei niente su cui riflettere. Le posso dire che il mio parere si costruisce su un principio di filosofia del linguaggio coniato da Quine e ripreso da Davidson – il principio di carità che senz’altro lei conosce – filosofo morto nel 2003 e quindi alquanto contemporaneo (penso che la povertà del mio argomento convenga al tenore della discussione). Ma le posso anche dire che il riferimento a Magritte è di natura differente. Non consta tanto di Magritte in quanto artista, ma del noto quadro, che notoriamente rimanda ad un principio – quello della radicale differenza tra parola e cosa, ovvero alla referenzialità – di cui è intessuto il linguaggio da quando a fatto la sua comparsa sulla terra stando a tutti – ma proprio tutti tutti eh! – i linguisti e i filosofi del linguaggio viventi (neanche morti). Se il suo personale e pretestuosissimo argomento contro il mio ragionamento si basa sul tempo, dovrebbe considerarsi soddisfatto.

      Al punto 5 discute l’arsticità al Valle Occupato. E qui mi trova d’accordo. Al Valle Occupato di discorsi artistici nel senso di sperimentazioni, di nuove grammatiche estetiche non c’è molto, anzi c’è molto poco. forse non le sarà sfuggito che si è elaborato uno Statuto, per realizzare una Fondazione. Immagino che lei lo Statuto l’abbia letto – compresi i riferimenti alla gestione delle direzioni artistiche – e abbia fatto esperienza delle permanenze artistiche per valutare il nuovo modello gestionale e le modalità di interazione (buone o cattive, tutte da valutare) tra i direttori artistici ospiti e il luogo Teatro Valle, per poter dire che non si sta sperimentando nulla dentro al Teatro Valle. Oppure no, forse lo Statuto non ha avuto il tempo di leggerlo per farsene un giudizio. Forse a lei interessa molto più l’arte e molto meno il sistema che la produce e la mette in scena, forse lei sarebbe disposto a tutto, a qualsiasi condizione di lavoro, contratto, salario, inciucio, nepotismo pur di sperimentare. Sono punti di vista e modi di vedere le cose…

      Così ho risposto ai suoi argomenti e vengo al punto. Lei chiede una dimostrazione – casomai i suoi ragionamenti fossero in errore – che non preveda la partecipazione, una dimostrazione dall’esterno. Io le dico che – nonostante il punto zero – è sì possibile ottenere una simile dimostrazione (ad esempio un primo passo consiste nella lettura dello Statuto) ma converrà che lei mi sta chiedendo di fornirle delle prove delle mie ragioni utilizzando meno dati di quelli che potrei utilizzare. Per sua fortuna io sono benvolente e perciò le dico che le posso dare senz’altro queste prove, ma che come per ogni altra cosa su questo pianeta, se parte da una scarsità artificiale di dati dovrà avere molta più pazienza, molta più elasticità e comprensione. Altrimenti finirebbe per non capire e io potrei sempre risponderle, come per ogni cosa su questo pianeta, ‘che ci vuole fare signore!! lei ha voluto giocare con meno dati, è stata una sua scelta!’. Perciò sì io posso dimostrarle tutto dall’esterno, ma molto dipende dalla sua disponibilità, altrimenti capisce, come per la questione del privilegio che vorrebbe laddove poi si aspetta democrazia, lei chiede meno condizioni e più risultati, perché infondo non ha voglia di sprecare il suo tempo con me, che pure vede, con quanta cura e perizia le ho risposto punto per punto.

      A presto
      FC

  9. P.S.: A proposito di errori chiedo scusa per quelli di battitura e ortografia disseminati nella mia risposta (a partire dai nomi: Quiene al posto di Quine). Qullo che credo debba essere chiaro è che non si sta cercando qui un contrasto ma un dialogo che riteniamo urgente proprio in quanto certi delle enormi potenzialità nate e cresciute con l’occupazione del Teatro Valle.

    • Caro Matteo, ti ho risposto molto distesamente già un giorno fa, ma il commento non è comparso, forse sperduto incidentalmente nello spam, perché molto lungo. Ho mandato una mail alla redazione per sollecitare la cosa, ma non ho ricevuto risposta. Volevo solo informarti di ciò. A presto

      • Gentile Fabio,

        Leggo adesso – ma con molta velocità – il suo commento! Molto stimolante così come molto stimolante sarebbe risponderle. Non me ne voglia ma purtroppo domani mattina molto presto dovrò partire, motivo per il quale dovrò rimandare una eventuale risposta. Non si tratta di poco interesse o negligenza. Spero dunque potrà attendere fino la prossima settimana. Così, al volo e superficialmente, posso riferimi al punto 4 dicendole che no, non si tratta di una questione di tempo, ma di una questione di pratiche ed estetiche. Lei ha detto che l’autoreferenzialità del Teatro Valle è medesima a quella dell’arte contemporanea e poi ha spiegato come ci si avvicina all’una e come bisognerebbe avvicinarsi all’altra. Però, dal mio canto, io non capisco a quale autoreferenzialità lei si stesse riferendo e, evidentemente, bisognerebbe riflettere su cosa intendiamo esattamente io e lei per “arte contemporanea”. E’ in questo contesto che trovo “anacronistiche” le sue argomentazioni…Inoltre, anche lei, nella sua risposta al mio commento, scivola in una serie di supposizioni non giustificate (che io non mi sia mai avvicinato al Valle, che io non abbia letto lo statuto ecc. ecc.)… Ma sono sicuro potremo riprendere il discorso al mio ritorno, in maniera più approfondita.
        Nel mentre non posso che ringraziarla per l’attenzione e i numerosi stimoli che sta offrendo sulla questione Valle Occupato, che pure, come vede, ci sta a cuore.
        Matteo

  10. di appunti allo statuto ne avrei tanti. l’ho letto e l’ho anche commentato sul sito.
    quello che più mi ha colpito e concordo se non ho capito male con la giornalista, è che lo statuto rappresenti un punto di vista molto ideologico e poco concreto. non è affatto chiaro come questa fondazione possa realizzare le utopistiche ambizioni che promette.
    oltre poi ad alcuni concetti che personalmente non posso proprio condividere .
    lo statuto dice di voler creare un qualcosa che vada oltre il privato e il pubblico, dato che entrambi seguono logiche di profitto. il pubblico segue logiche di profitto? anche così fosse, forse dovremo batterci non per un’alternativa ma perchà il pubblico – non solo al Valle- rappresenti e sostenga in modo trasparente e chiaro I BENI COMUNI. I beni comuni culturali sono non solo il valle, ma i teatri i musei, i luoghi storici e tanto altro che le istituzioni pubbliche devono garantire e salvaguardare. se questo non avviene è l’istituzione che va modificata in generale e non creare un’alternativa nel particolare, io credo e sottolineo io credo.

    E poi non si capisce proprio come avverrebbe questa benedetta partecipazione – che in un paese come l’Italia dovrebbe voler dire bussare porta porta cercando di creare un’empatia tra il mondo teatrale e la gente per ora molto difficile- e soprattutto non si capisce in che modo la fondazione dovrebbe garantire di non diventare nel tempo fasulla come le sopradette istituzioni pubbliche.

    Ma non solo – il pubblico viene guardato a distanza come si è detto, ma i dindarelli pubblici certo la fondazione non li disdegna e questo mi sembra proprio una ambiguità incredibile.

    infine e manco tanto, il riferimento continuo ad un’attività politica che credo sia la nota dolente di tutta la questione.
    Io capisco un riferimento al senso civico ed etico che la fondazione deve avere….ma la formazione politica – come dice lo statuto- “che c’azzecca” ? e quale formazione politica? e la libertà di pensiero che l’arte deve e sottolineo deve avere, dove la mettiamo? O il Bene Comune deve sposarsi a un unico punto di vista politico e quindi non si sta parlando a tutti i cittadini ma solo a una certa parte dei cittadini?
    ne avrei altre ma mi fermo qui.
    Ah le mie sono osservazioni, a mio torto o a mia ragione non so, vengono da chi ama il teatro e l’arte. Non è polemica spicciola ma osservazioni di chi spera che veramente in Italia le cose cambino. Ma mi sembra che la maniera fino a qui adottata debba essere messa in discussione e portata avanti con maggiore spirito critico soprattutto da parte di chi dice di agire per il bene comune.
    grazie della pazienza
    beatrice

  11. Gentile Beatrice, siamo noi che ti ringraziamo per il tuo contributo. Effettivamente penso, come scrivi anche tu sebbene in termini diversi, che democrazia non voglia dire: può partecipare chiunque lo desideri (e “possa” aggiungerei, dato che per diventare comunardi bisogna poter assicurare un patrimonio di contribuzione). Non è così che si assicura l pluralità. Questa infatti deve essere prevista da una struttura gestionale e dunque di diritto -garantita dallo Statuto-, ovvero lo Statuto dovrebbe sancire il modo attraverso cui possa essere garantita una pluralità di visioni all’interno dell’organismo che gestisce la Fondazione, se l’obiettivo è quello di restituire il teatro alla comunità e dunque di garantire la scelta democratica. A tale scopo si lascia alla fantasia il compito di immaginare il COME. Probabilmente sarebbe proficuo immaginare un organo di gestione che preveda al suo interno rappresentanti delle diverse fasce sociali interessate e coinvolte nell’universo della cultura, dallo studente, all’operatore. Ciò di cui sono certa è che democrazia non voglia dire “di tutti”, né tanto meno “di chiunque voglia”, e che la pluralità ha bisogno di un sistema studiato e ben strutturato che la garantisca.

    Chiara Pirri

    • Non capisco. Che significa concretamente la frase ‘per diventare comunardi bisogna garantire un patrimonio di contribuzione’ se da Statuto è previsto che per diventare soci fondatori della Fondazione si debba fare una donazione minima di 10 euro? Sarebbe questo il patrimonio di contribuzione a cui fa riferimento la frase? E poi quando si parla di ‘garantire il pluralismo’ si ha in mente un sistema di garanzie rappresentative, come lascia pensare l’immagine para-parlamentare di rappresentanze dallo studente all’operatore? Perché mi era parso che l’occupazione del Teatro Valle volesse andare contro la democrazia rappresentativa, ma allora non capisco cosa si vuole dire. Tutto sommato a questo punto può andare bene una gestione comunale – che rispetta la pluralità democratica rappresentativa – oppure un governo tecnico rappresentativo. Oppure semplicemente studenti e operatori che vogliono partecipare, partecipano. No?

  12. A me pare che l’articolo di Chiara Pirri sia scrtto molto bene e evidenzia punti che lasciano perplessa pure me. Io sono stata qualche volta al Valle e mi è parso di vederci un comportamento anche un po’ antipatico e presuntuoso da parte di alcuni che si credono molto importanti! Però certe cose che ho visto lì non sono male, dico di spettacoli. Grazie

  13. Sì, ma sta cosa della comune di parigi del 1792 non si può sentire! Ma da dove l’avete presa regà? Per il resto il Valle Occupato ha sbomballato.
    Roberto Piave

  14. quante parole alate per nobilitare un banale furto a scapito della comunità -vera- dei cittadini, di Roma e della Repubblica italiana. ai “comunardi” manca una cosa fondamentale per un essere umano che abbia la schiena dritta: il senso della vergogna.

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